Dal blog di Costanza Miriano luglio 2014
di Andreas Hofer
Non esiste comunione senza filiazione. Senza un legame verticale gli uomini non riusciranno mai ad unirsi gli uni agli altri.
(Hervé Pasqua)
La vita umana al tempo della sua riproducibilità tecnica. Di questo parla il primo romanzo della milanese Susanna Manzin, Il destino del fuco (D’Ettoris Editori, Crotone 2014).
Il racconto, godibile e di facile lettura, si rivela presto un ingegnoso espediente per sviscerare le implicazioni antropologiche e le ricadute esistenziali della fecondazione artificiale – o Procreazione Medicalmente Assistita, per dirla col linguaggio falsamente neutro dell’antilingua (reso ancor più asettico dal semplice uso della sigla PMA).
Dà forma, la penna della Manzin, alla storia di una ordinaria famiglia italiana: quella di Marianna e Riccardo, sposati e con due figli, gestori di un agriturismo ben avviato. Il ménage familare si svolge nel segno di una parca e serena cultura della convivialità, in cui la stretta comunione coi ritmi della natura si coniuga con gli impegni del focolare e quelli dell’impresa domestica. La cura con cui Marianna, autentica cultrice della buona cucina, riesce a unire sobrietà e raffinatezza contribuisce ad alimentare un clima di ospitalità ed accoglienza.
Esiste un’analogia, osserva l’autrice nella presentazione del libro, tra il rapporto dei personaggi col cibo e la maniera che hanno di relazionarsi con gli altri. L’atto del mangiare è ricco di significati profondi: il cibo consumato insieme, come ben sapeva il compianto Léo Moulin, è un simbolo di pace. (1) È il modo privilegiato di amare la vita e gli amici. Partecipare ai riti della tavola, in fin dei conti, non è che la via più semplice di essere in comunione con l’altro.
Nell’agriturismo a conduzione familiare si riflette dunque l’immagine realizzata dell’ideale della “buona vita”: un’esistenza carica di calore umano, equilibrio e armonia, immersa nella bontà e nella bellezza. Questo microcosmo è atteso però da una svolta cruciale. Decisiva è l’entrata in scena di quattro nuovi ospiti. Si tratta di una madre single, Anita, di sua figlia Greta e di un padre divorziato, Carlo, con il figlio Ludovico.
L’arrivo dei quattro reca con sé una inaspettata rivelazione destinata a sconvolgere la vita quotidiana di Riccardo e Marianna. In maniera alquanto casuale si scopre che i diciannovenni Greta e Ludovico sono figli della provetta: entrambi infatti sono nati mediante una fecondazione eterologa resa possibile da uno sconosciuto donatore.
Nel corso della permanenza all’agriturismo gli interrogativi irrisolti sull’identità del padre biologico finiscono per imporsi con brutalità, facendo deflagrare con violenza le contraddizioni che fino ad allora avevano pesantemente segnato le esistenze dei due ragazzi. I risvolti di un passato inconfessato affiorano con prepotenza: si dispiega in tal modo un complesso intreccio di relazioni familiari e drammi individuali. Nulla sarà più come prima.
Verso la paternità settoriale
Sono molteplici le suggestioni offerte dal romanzo. Fra tutte primeggia la riflessione sulla destrutturazione della figura del padre, la cui funzione appare tanto più irrilevante nella misura in cui viene spersonalizzata. Il padre al tempo della FIVET rischia, come confessa uno dei protagonisti del libro, di fare la fine del fuco, che feconda l’ape regina e poi muore, o del maschio della mantide religiosa, liquidato dalla femmina dopo l’accoppiamento.
Con la FIVET si produce una parentalità settoriale. Si innesca una radicale scorporazione della figura paterna, dissolta in un reticolo di funzioni (padre sociale, biologico, legale, simbolico, immaginario). Inutile dire che la stessa disgregazione procacciata dalla PMA colpisce, in misura non minore, anche la figura materna.
Nulla vieta perciò di prefigurare uno scenario prossimo venturo in cui la paternità e la maternità, ormai divenute funzioni impersonali, risulteranno assolvibili – di diritto e di fatto – anche da una collettività anonima e, perché no?, persino da un’intelligenza artificiale. Si annuncia il tempo in cui una astratta funzione di “genitorialità”, precipitato della disumanizzazione, potrà surrogare il ruolo del padre e della madre con un volto, un nome, un sesso biologico.
Fabbricare l’uomo
La scrittura agile di Susanna Manzin ci introduce così nel ginepraio degli infiniti paradossi della fecondazione eterologa. La PMA, che presuppone un quadro culturale dove il corpo umano è assimilato a prodotto, si può considerare a tutti gli effetti una risultante dell’antiumanesimo contemporaneo.
Hervé Pasqua, l’allievo di Gustave Thibon, vede all’opera in queste tecniche di autoproduzione dell’uomo l’idea che nulla esista all’infuori dello spirito umano. (2) È il sogno faustiano dell’uomo elevatosi a principio della realtà, che si vuol misura di tutte le cose. Tutto è costruito a partire da esso. Ogni realtà è, dunque, fabbricata. Viene abbattuta la frontiera tra reale e artificiale: l’esistente diviene una proiezione dello spirito.
Per lo spirito umano che si vuole sostanza, principio costitutivo della materia, i corpi sono solo apparenza sensibile. Prende piede una visione dell’essere umano come macchina vivente, come insieme di organi. È questa confusione estrema di reale e razionale, di identità tra naturale e artificiale a portare a un’autentica de-realizzazione della realtà.
L’uomo autodivinizzato deve realizzare la creazione al punto da avviare un processo di autoproduzione umana. La manipolazione della vita trova nell’ingegneria biologica una delle sue principali risorse. Suscitare una neo-vita esige di strappare ogni segreto alla natura umana che, in tal caso, non racchiuderà più alcun mistero. Non si tratterà più di conoscere l’uomo, ma di ricostruirlo.
Qui si innesta il fascino – esemplificato dal mito di Frankenstein – esercitato dal mostruoso nel mondo contemporaneo. Cos’è infatti il mostro se non una reinvenzione dell’uomo, un composto artificiale di elementi estratti dalla natura? Perseguire questo desiderio allucinato impone di scomporre l’uomo vecchio per comporre un uomo nuovo. L’imperativo sarà allora di frantumare la persona per riassemblarla secondo un progetto ingegneristico, dissolvere l’io individuale per poi realizzare un’alchimia della vita per via genetica e molecolare. Disintegrare per reintegrare: la ricostruzione dell’essere passa attraverso la sua distruzione.
Individui senza radici e ramificazioni
L’utopia del controllo totale del vivente rende necessario spezzare la nozione stessa di continuità generazionale. Si vanno ad intaccare i fondamenti più profondi dell’umano: le matrici sessuate del pensiero simbolico che permettono di pensare l’identità, l’alterità, la relazione. Va aggredito quindi tanto l’ordine del padre quanto quello della madre. Se il padre indica un fine superiore, la madre è la testimone di un’origine anteriore. Occorre eliminare ogni presenza che dica all’uomo di non essere un prodotto, conculcare ogni realtà che gli racconti di non essere una fabbricazione.
È possibile dominare l’uomo solo fabbricandolo. È l’idea stessa di natalità ad essere osteggiata. L’aleatorio va bandito. Ciò richiede la preparazione di «uomini senza radici nel passato e senza ramificazioni nell’avvenire».(3)
Plasmare l’individuo nella sua forma più pura vuol dire privarlo di ogni relazione. A tal fine bisogna creare la vita in un ambiente asettico e anaffettivo. Si rende necessario scavare un vuoto di appartenenze intorno al bambino, preludio del vuoto totale del laboratorio. Diventa perciò tassativo separare la nascita da ogni rapporto di relazione, perfino dal corpo materno – non è lontano, si ricordi, l’avvento dell’utero artificiale.
Disancorare dalla comunità umana, tramite il concepimento in vitro, alimenta una società di solitari caratterizzata dalla progressiva espulsione della persona umana con la sua presenza concreta e viva. La genetica selvaggia potenzia il processo di “morte del prossimo”, accresce la perdita di intimità, dei vicinati. Reca l’impronta di un mondo ad alto tasso di artificialità, sempre più immerso nel virtuale.
Frankenstein contro Faust
La tecno-scienza in questo modo non si mette più al servizio dell’uomo. Si manifesta, piuttosto, come la sua negazione. L’illimitata manipolazione della natura umana contiene in sé un attentato alla condizione umana. È sempre Hervé Pasqua a ricordare che il nostro è il tempo della rivolta di Frankenstein contro Faust. Due idoli, il generato e il genitore, si divorano a vicenda.
Assoluto arbitrario che dispone dell’assolutamente assoggettato, l’antiumanesimo oscilla pertanto tra l’esaltazione del superuomo (Übermensch) e l’aggressione al sottouomo (Untermensch). In un caso come nell’altro mosso dall’odio per l’uomo reale e concreto, in carne ed ossa.
Nella nota finale del racconto l’autrice provvede ad avvertirci: il confine tra immaginazione letteraria e realtà va sempre più assottigliandosi. Stanno lì a testimoniarlo vicende di stretta attualità come lo “scambio di embrioni” avvenuto presso un ospedale romano e la sentenza della Corte Costituzionale che ha stralciato il divieto di fecondazione eterologa sancito dalla legge 40. Si approssima quanto già trova realizzazione in Gran Bretagna, la terra promessa della fabbricazione dell’uomo dove la procreazione artificiale è divenuta oggetto di marketing. Nei manifesti pubblicitari della City campeggiano già le banche del seme. Non senza coerenza, la commercializzazione dell’uomo-embrione va di pari passo con l’ascesa di nuove figure professionali: i broker procreativi, gli intermediari biotecnologici.
Sperare nel ritorno al reale
Il romanzo della Manzin – e anche di questo bisogna esserle grati – si sottrae tuttavia ai canoni di tanta letteratura distopica rifiutando di essere solo la disperata narrazione di una catastrofe inevitabile. Non c’è desolazione in grado di sopprimere la speranza, sembra volerci dire. È sempre possibile raccogliersi, nella condivisione dello stesso destino, in una comunità di uomini e donne liberi.
La natura umana si appella a risorse sconosciute. Affonda le proprie radici in profondità abissali. Si raduna attorno alla tavola preparata da una madre capace di trasmettere, ancora una volta, i sapori antichi e sempre nuovi della tradizione. Oppure la vediamo riaffiorare in un uomo che decide di farsi carico delle proprie responsabilità e ritorna dal Telemaco che continua, generazione dopo generazione, ad attendere il verbo che sfida la morte: la parola di speranza del padre.
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1) Cfr. Léo Moulin, L’Europa a tavola, tr. it. Mondadori, Milano 1993.
2) Hervé Pasqua, Opinione & verità, tr. it. Ares, Milano 1991, pp. 69-91.
3) Luigi Lombardi Vallauri, Terre, Vita e Pensiero, Milano 1989, p. 121.