di Daniela Pizzagalli
Se può esistere una classifica degli orrori, verrebbe da pensare che la prigionia nei campi d’internamento staliniani abbia comportato sofferenze ancora più terribili di quelle dei lager nazisti, perché le vittime, in larga maggioranza comunisti convinti, essendo incapaci di considerare ingusti i tribunali rivoluzionari, aggiungevano al tormento della pena l’angoscia di chi sa quali equivoci o addirittura proprie colpe involontarie come causa delle loro condanne.
Ma poi a poco a poco gli allucinanti interrogatori e le invivibili condizioni dell’internamento facevano loro capire l’atrocità di un sistema che avevano incredibilmente idealizzato.Questo calvario psicologico appare in tutta la sua traumatica gravità nella testimonianza di Olga Adamova-Sliozberg, Il mio cammino (editrice Le Lettere).
Moscovita appartenente alla borghesia intellettuale, laureata in Economia e moglie di un docente universitario, Olga vede il suo mondo andare in pezzi nel 1936, con l’arresto del marito, seguito a breve distanza dal suo. Separata bruscamente dai figli, per vent’anni passerà dalla prigione ai lavori forzati, sulla base di accuse inconsistenti, finchè nel 1956 il Tribunale Supremo dell’URSS riconoscerà l’ingiustizia della pena subita.
Già durante l’ultima fase della prigionia Olga aveva incominciato a trascrivere le drammatiche esperienze vissute insieme a tante compagne di sventura, a volte disperate, a volte ribelli, a volte rassegnate o istupidite dal dolore, inanellando un’indimenticabile galleria di ritratti femminili, un mosaico di epica grandezza che portava allo scoperto una truce pagina di storia che si voleva occultare. “Io non voglio dimenticare, voglio capire – scrive Olga- Se i fatti non corrispondono alla mia rappresentazione del mondo, e i fatti non si possono cambiare, allora bisogna cambiare il mondo”.
Circolato clandestinamente dal 1956, il testo dovette aspettare fino al 1989 per arrivare alla pubblicazione, sull’onda del disgelo che portò alla luce molti libri di memorie sulla repressione del periodo staliniano. Ma Il mio cammino non è soltanto un libro di memorie, perché l’autrice ha pervaso il suo racconto di un lirismo che a tratti alleggerisce le vicende più misere con uno sguardo di alta spiritualità, così come la sua comprensione empatica si sofferma sui diversi atteggiamenti psicologici delle prigioniere e dei loro aguzzini senza infierire, mettendo piuttosto in evidenza come il meccanismo impazzito della storia avesse coinvolto tutti nello stesso turbine di dolore.