Wojtyla lo aveva messo da parte. Con Ratzinger il novantenne Bartolucci è tornato in auge. Con una missione: bandire ogni traccia di pop dalle liturgie . E rilanciare la polifonia e il canto gregoriano. “Basta chitarre, canzonette e tam tam”
Colloquio con Domenico Bartolucci di Riccardo Lenzi
Dalle parole pronunciate da Benedetto XVI al termine dell’esecuzione, che prevedeva musiche polifoniche di Palestrina e dello stesso Bartolucci, è emerso l’orientamento del pontefice tedesco critico verso le degenerazioni della musica postconciliare e desideroso di veder tornare sugli altari la musica tradizionale della Chiesa, quella che si nutre del canto gregoriano e della polifonia, finalizzata a sostenere il testo sacro, mettendo da parte le esibizioni moderne al suono di chitarre, tamburelli e canzonette che si sono diffuse nel lungo regno di Giovanni Paolo II.
Maestro Bartolucci, ben sei papi hanno assistito ai suoi concerti. In quale di loro ha trovato maggior sapienza musicale?
«Nell’ultimo, Benedetto XVI. Suona il pianoforte, è un profondo conoscitore di Mozart, ama la liturgia della Chiesa e di conseguenza tiene in somma considerazione la musica. Anche Pio XII l’amava molto e spesso suonava il violino. La Cappella Sistina deve poi moltissimo a Giovanni XXIII. Da lui nel 1959 ebbi l’approvazione per il progetto di ricostituzione della Sistina che purtroppo, anche a causa della malattia del precedente direttore Lorenzo Penisi, era in condizioni precarie: non aveva più un organico stabile, un archivio musicale, né una sede. Allora si ottenne la sede, si congedarono i falsettisti e si definì l’organico dei cantori con i relativi stipendi; finalmente si potè anche istituire la scuola dei ragazzi. Poi venne Paolo VI. ma lui era stonato e non so quanto apprezzasse la musica»
In qualche maniera Perosi è stato l’antesignano dell’attuale volgarizzazione della musica sacra?
«Non proprio. Oggi nelle chiese sono di moda le canzonette e lo strimpellìo delle chitarre, ma la colpa è soprattutto delle idee sbagliate di pseudo intellettuali che hanno creato questa degenerazione della liturgia e quindi della musica, travolgendo e disprezzando l’eredità del passato e credendo di ottenere chissà quale bene per la gente. Se l’arte della musica non torna alla grande arte, non a un accomodamento o a un sotto prodotto, non ha alcun senso interrogarsi sulla sua funzione per la Chiesa. Io sono contro le chitarre, ma anche contro la faciloneria della musica ceciliana: più o meno e la stessa zuppa! Il nostro motto deve essere: torniamo al canto gregoriano e alla polifonia palestriniana e proseguiamo su questa strada!».
Quali sono le iniziative che Benedetto XVI dovrebbe prendere per realizzare questo disegno, in un mondo fatto di discoteche e iPod?
«Il grande repertorio di musica sacra che ci è stato consegnato dal passato è costituito dalle messe, dagli offertori, dai responsori: prima non esisteva liturgia senza musica. Con la nuova liturgia questo repertorio non ha più spazio, è una stonatura, inutile illudersi. E’ come se Michelangelo per il Giudizio universale avesse avuto a disposizione un francobollo! Mi dica lei come è possibile oggi eseguire un Gloria o addirittura un Credo. Per prima cosa dovremmo tornare, almeno per le messe solenni e per le feste, a una liturgia che dia spazio alla musica e che si esprima nella lingua universale della Chiesa, il latino. In Sistina, dopo la riforma liturgica, ho potuto mantenere vivo il repertorio tradizionale della Cappella solo nei concerti. Pensi che la Missa Papae Marcelli di Palestrina non si canta più in San Pietro dai tempi di papa Giovanni! Ci fu concesso benignamente di eseguirla per l’anno palestriniano e la volevano senza il Credo, ma quella volta fui irremovibile e si eseguì tutta».
Pensa che l’assemblea dei fedeli dovrebbe partecipare cantando in gregoriano alla celebrazione dei riti?
«Sull’esecuzione del canto gregoriano bisogna fare delle distinzioni. Una parte del repertorio, ad esempio gli introiti o gli offertori, richiede un’arte raffinatissima che può essere interpretata compiutamente solo da veri artisti. C’è poi anche un repertorio cantato dal popolo: penso alla messa degli Angeli, alle musiche processionali, agli inni. Era commovente il canto popolare del Te Deum, del Magnificat, delle litanie, musiche che la gente aveva assimilato e fatto sue, ma oggi anche di questo è rimasto ben poco. Inoltre il gregoriano è stato falsato dalla teoria ritmica ed estetica dei benedettini di Solesmes. Il canto gregoriano è nato nei secoli di ferro, deve essere virile e forte, altro che le dolcezze e i comodi adattamenti dei giorni nostri».
Crede che le tradizioni musicali del passato si stiano estinguendo?
«Cosa vuole: se non c’è la continuità che le mantiene vive sono destinate all’oblio e l’attuale liturgia dicerto non le favorisce… Io sono ottimista per volontà, ma giudico la situazione attuale realisticamente, e credo che un Napoleone senza generali possa far poco. Oggi il motto è “andare al popolo, guardarlo negli occhi”, ma sono tutte storie! Facendo così finiamo per celebrare noi stessi: il mistero e la bellezza di Dio sono allontanati. In realtà assistiamo alla decadenza dell’Occidente. Un vescovo africano una volta mi disse: “Speriamo che il concilio non ci tolga il latino dalla liturgia, altrimenti nel mio paese prevarrà una babele di dialetti”».
Giovanni Paolo II è stato un po’ accomodante su questi temi?
«Nonostante diversi richiami, nel suo pontificato si è consolidata la crisi della liturgia. A volte proprio le celebrazioni papali hanno contribuito ad affermare questo nuovo indirizzo con balli, balletti e tam tam. Una volta andai via dicendo: “Mi richiamate quando è finito lo spettacolo! “. Capisce bene che se da San Pietro si danno questi esempi, i richiami e i lamenti non servono a niente. Io di questo ho sempre protestato: e anche se mi hanno buttato fuori con la scusa degli ottant’anni, non me ne pento».
Ma oggi si può comporre proseguendo lo stile gregoriano?
«Bisognerebbe ritrovare quello spirito, intanto, di solidità. Ma la Chiesa ha fatto l’opposto, favorendo motivi facili, orecchiabili, canzonettistici. Cosi credeva di piacere alla gente e ha proseguito per questa strada. Ma l’arte non è questo. La grande arte è densità».
Non vede qualche compositore in grado di resuscitare una tale tradizione?
«Non è una questione d’ingegno: non c’è più l’ambiente. La colpa non è dei musicisti, ma di quello che si richiede loro».
Eppure i monaci di Santo Domingo de Silos, con il gregoriano, hanno venduto milioni di dischi. Similmente la Terza sinfonia di Henryk Gorecki con le sue suggestioni medioevali…
«Fenomeni consumistici che m’interessano poco».
Ci sono compositori autorevoli che hanno messo la fede al primo posto, come Pärt o Penderecki…
«A loro manca il senso liturgico. Anche Mozart è grande, ma dubito che la sua musica sacra stia tanto a suo agio in una cattedrale. Il canto gregoriano e Palestrina invece sono un tutt’uno con la liturgia»
Lei si sente un po’ solo, senza eredi?
«Non c’è più nessuno. Mi ritengo l’ultimo maestro di cappella».
Ma a Lipsia, alla chiesa di San Tommaso, c’è il sedicesimo Kantor dai tempi di Bach…
«In Germania, in campo protestante, i figli del compositore dei brandeburghesi salvaguardano gelosamente la loro identità. Disse giustamente Verdi che i tedeschi sono figli fedeli di Bach, mentre noi italiani siamo figli degeneri di Palestina».
Secondo Ratzinger c’è la musica come fenomeno di massa, pop, che si misura sui valori del mercato. E quella colta, cerebrale, destinata a una piccola élite.
«E’ la musica dei moderni, da Schönberg in poi, ma la musica sacra deve proseguire lo spirito del canto gregoriano e rispettare la liturgia. Il cantore in chiesa non fa l’artista, fa il predicatore, ovvero predica cantando».
Lei invidia un po’ le Chiese orientali?
«Giustamente non hanno cambiato niente. La Chiesa cattolica ha rinunciato a se stessa e alla propria fisionomia,come quelle donne che si fanno la plastica facciale: poi non si riconoscono più».