Il diritto di Dio nella liturgia

La Nuova Bussola quotidiana

25 Settembre 2022        

Sin dalle origini la liturgia implica lo Ius divinum, ovvero ciò che è giusto e appropriato dare a Dio, perché è Dio stesso a decidere la misura e la modalità con cui vuole essere onorato dal suo popolo. Una liturgia senza dimensione giuridica è una liturgia senza la giusta relazione tra Dio e l’uomo.

Luisella Scrosati

Nella lezione odierna vogliamo aprire una finestra su un argomento particolare: lo Ius Divinum, il DIRITTO DI DIO nella Liturgia.

Possiamo dire che la liturgia ha al proprio interno una dimensione giuridica, ovvero rimanda ad uno Ius, una parola che è la radice da cui derivano giudizio, giurisprudenza, giustizia.

Lo Ius (e la virtù annessa che è la virtù di giustizia) ci dice appunto quello che è giusto, che è appropriato dare a qualcuno. Detto in altri termini: dare a ciascuno il “suo”. Nel caso della liturgia questo qualcuno è Dio.                      

– Cos’è dunque la dimensione giuridica della liturgia?

La liturgia deve essere fatta in modo tale da dare a Dio ciò che gli è dovuto: non si può fare qualsiasi cosa e poi chiamarlo “liturgia”. C’è un testo, tra quelli che vi abbiamo proposto nelle domeniche di agosto, tratto dal libro “Introduzione allo spirito della liturgia”, di Joseph Ratzinger (vedi qui), in cui vi è un’idea fondamentale da comprendere.

L’immagine è quella di Mosè che riceve da Dio l’ordine di liberare il suo popolo dalla schiavitù del Faraone. Lo deve fare per una ragione: il fine non è la liberazione in sé, non è neppure raggiungere la terra promessa; il fine è la libertà di rendere culto a Dio, come Dio ha disposto. Il faraone più volte cerca un compromesso: dapprima non vuole che vadano nel deserto e poi, man mano che arrivano le piaghe, propone dei compromessi che Mosè rifiuta. Secondo la mentalità odierna, questo comportamento di Mosè non sarebbe stato apprezzato…

– Perché invece Mosè rifiuta ogni compromesso sul rendere culto a Dio?     

La ragione è tanto semplice quanto potente: perché non è quello che ha chiesto Dio. Nel libro dell’Esodo, infatti, è chiarissimo che è Dio a stabilire come gli si rende culto, non per puro arbitrio, ma per ragioni ben precise ordinate al Bene. Mosè dice al Faraone che il popolo non può accettare quei compromessi da lui proposti perché Dio ha ordinato diversamente. Mosè riconosce dunque uno Ius divinum, ovvero il diritto di Dio di essere amato, adorato e onorato come Lui vuole. 

Una volta che il popolo di Israele esce dall’Egitto e si trova ai piedi del Sinai, dove Dio affida a Mosè le tavole della legge, subito dopo Dio affida a Mosè anche altri dettagli importantissimi, tutti riferiti al culto: le dimensioni, la forma e il materiale dell’altare, come deve essere fatta la tenda, il tabernacolo, con quali teli deve essere rivestito, come devono essere fatti i sacrifici, come devono vestirsi i sacerdoti, etc.; una lista lunghissima specificata sin nei dettagli.

Dio stesso stabilisce la misura e la modalità con cui vuole essere onorato dal suo popolo. Da ciò ricaviamo che la liturgia non è qualcosa che fa l’uomo, ma è qualcosa che egli riceve da Dio, che deve perciò custodire ed in cui deve riconoscere lo Ius divinum, ovvero il diritto di Dio ad essere onorato nel modo in cui Lui ha stabilito. Il rispetto di questo Ius divinum è la condizione per cui possa avvenire la santificazione dell’uomo, che è l’altra finalità della liturgia; il centro sta proprio in Dio che, in quanto Dio, ha i suoi diritti rispetto ai quali noi uomini abbiamo i nostri doveri.

La dimensione giuridica all’interno del culto, le cose che si possono e si devono fare e quelle che non si devono fare, la mancanza di un arbitrio su ciò che riguarda il culto è legato alla verità: noi siamo uomini, Dio è Dio.

Il diritto di Dio nel culto è sostanziale, non può essere abolito, perché esprime le relazioni essenziali tra Dio e la creazione; pensare ad una liturgia senza la dimensione giuridica è come pensare alla liturgia senza la giusta relazione tra Dio e l’uomo. 

È da diversi decenni ormai che c’è un clima nella Chiesa per cui parlare di diritto nella liturgia suona come un soffocamento della liturgia. Lo spirito della liturgia per essere tale e autentico, si dice, deve essere libero da elementi normativi e giuridici. È esattamente il contrario: lo Ius divinum, il diritto, è ciò che preserva la liturgia cosicché renda il debito culto a Dio e non perda il suo orientamento.

Uno dei testi più antichi del rito della Santa Messa insiste su questo aspetto. Il sacerdote, dopo aver invitato i fedeli ad alzare i loro cuori, esorta: “Rendiamo grazie al Signore nostro Dio”. Ed i fedeli rispondono: “È cosa buona e giusta”. E nuovamente il sacerdote: “È veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza…”

Perciò sin dalle origini della liturgia, il dovere, cioè la dimensione del diritto, è un patrimonio della liturgia stessa. Non vi è contraddizione; al contrario, la dimensione giuridica è la custode del vero spirito liturgico. Purché il diritto esprima veramente l’oggettività di ciò che è giusto, della corretta relazione tra Dio e l’uomo e lo faccia basandosi su una realtà oggettiva e metafisica. Il diritto non deve decadere in un diritto meramente positivo.

Questa è una terribile deriva, perché se la dimensione meramente legale non è ancorata nello Ius divinum, che è qualcosa di oggettivo e codificato dalla tradizione della Chiesa, ci troveremo sicuramente, prima o poi, di fronte a leggi ingiuste, ovvero che non garantiscono lo Ius divinum. Questo accade anche in ambito politico e civile, dove il rispetto della norma non dev’essere per la norma, ma per il contenuto giusto della norma. Due grandi problemi nascono allora dall’incomprensione della dimensione giuridica e normativa all’interno del culto.

1. Il primo è l’ANOMIA LITURGICA, ovvero l’espulsione della norma del diritto dalla liturgia. Redemptionis Sacramentum è il riferimento contemporaneo principale che denuncia l’anomia liturgica, anche se in verità vi sono molti interventi a riguardo, soprattutto di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI.     

Al numero 11, Redemptionis sacramentum dice a proposito di comportamenti arbitrari nella liturgia:

“Chi al contrario, anche se Sacerdote, agisce così, assecondando proprie inclinazioni, lede la sostanziale unità del rito romano, che va tenacemente salvaguardata, e compie azioni in nessun modo consone con la fame e sete del Dio vivente provate oggi dal popolo, né svolge autentica attività pastorale o corretto rinnovamento liturgico, ma priva piuttosto i fedeli del loro patrimonio e della loro eredità. Atti arbitrari, infatti, non giovano a un effettivo rinnovamento, ma ledono il giusto diritto dei fedeli all’azione liturgica che è espressione della vita della Chiesa secondo la sua tradizione e la sua disciplina”.

Perché i fedeli hanno diritto a che la liturgia sia integra nel suo rito? Proprio perché c’è un diritto di Dio! Dunque i fedeli hanno diritto a che il sacerdote o il ministro rispettino tale diritto. Tutti gli arbitrii che vengono inseriti sono degli abusi.

Al numero 12 si ribadisce inoltre: “Tutti i fedeli, invece, godono del diritto di avere una liturgia vera e in particolar modo una celebrazione della santa Messa che sia così come la Chiesa ha voluto e stabilito, come prescritto nei libri liturgici e dalle altre leggi e norme”.

Non vi è spazio per la libera interpretazione o per la sensibilità personale, in quanto tutto deve essere incanalato dentro lo Ius e quindi ciò che dà a Dio ciò che è giusto e così facendo santifica l’uomo.

2. Il secondo problema potremmo definirlo POSITIVISMO GIURIDICO.

Ne abbiamo già accennato. Si tratta di dare leggi in ambito liturgico che però non sono basate sulla verità dello Ius e non esprimono correttamente questa relazione tra Dio e l’uomo nel culto. Di fatto sono leggi che si sganciano dalla fattiva tradizione liturgica della Chiesa, che di questo Ius è stata custode.

Ci sono state, purtroppo, delle norme che si sono sganciate dalla tradizione liturgica e non hanno più rispettato lo Ius divinum.

L’esempio più diffuso e più grave è l’imposizione della Comunione sulla mano. Sempre e da sempre la Chiesa insegna che le Sacre Specie devono essere toccate da mani consacrate attraverso l’ordinazione. Questo è un punto indiscusso, tanto è vero che quando venne introdotta la Comunione sulla mano in certi Paesi, la Santa Sede combatté giustamente questa pratica come un abuso. L’indulto del 1969 giunse come un tentativo di andare incontro a questi fedeli, per evitare il peggio; ma Paolo VI non ha mai avuto l’intenzione di sdoganare questa pratica in tutta la Chiesa. Tant’è vero che è testimoniato che lo stesso Pontefice manifestò la propria volontà di tornare indietro, trovando però ormai numerose opposizioni.

Questo è un chiaro esempio; la norma della Chiesa è che la Comunione si prenda sulla lingua ed in ginocchio e, nonostante questa modalità sia ostacolata quasi ovunque, questa rimane la norma che la Chiesa stabilisce per garantire il corretto rispetto della liturgia. La Comunione sulla mano invece non è una norma, ma è un indulto, nonostante esso sia ormai applicato a livello universale e, in molti, luoghi, come obbligatorio.

Ritengo che anche Traditionis Custodes – ovvero la lettera apostolica del Sommo Pontefice sull’uso della liturgia romana anteriore alla riforma del 1970 – rientri in questa categoria,. in quanto, pur essendo una norma emanata da una autorità legittima, tuttavia non rispetta lo Ius, perché di fatto priva i fedeli di poter venerare Dio in una modalità che la Chiesa ha sempre custodito e promosso.

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