La Nuova Bussola quotidiana 19 marzo 2015
di Alfredo Mantovano
«Il Senato approva. Applausi dei Gruppi Pd, Fi, Ap (Ncd-Udc), Misto-Sel, Misto». Così il resoconto stenografico dell’aula di Palazzo Madama dopo il voto finale sul cosiddetto “divorzio breve”: 228 voti a favore, 11 contrari e 11 astenuti. Che c’è da applaudire, in una giornata resa tragica qualche ora dopo per quanto accaduto a Tunisi? Quali sono le novità che hanno meritato tanto entusiasmo dei senatori? Proviamo a capirlo esaminando il merito del provvedimento, cercando di coglierne la necessità, verificando le espressioni di voto, infine guardando in prospettiva.
Il merito. Dal 1987 e fino a oggi la domanda di divorzio presuppone il decorso di tre anni dalla comparizione delle parti davanti al presidente del tribunale per il giudizio di separazione personale (nella versione originaria del 1970 era di cinque anni): un tempo ritenuto funzionale a considerare con distacco – attraverso la separazione – una coabitazione divenuta difficile; un tempo che lascia aperta la prospettiva di un ritorno alla vita comune, poco probabile ma non impossibile. A ottobre, introducendo il “divorzio facile”, il Parlamento ha eliminato per sciogliere il matrimonio, quando vi sia il consenso dei coniugi e pur in presenza di figli minori, la figura del presidente del tribunale o di un giudice suo delegato: è sufficiente un verbale redatto alla presenza di due avvocati, ovvero una doppia comparizione – con un intervallo di un mese fra la prima e la seconda – davanti al sindaco, o a un impiegato comunale suo delegato.
Alla privatizzazione della gestione della crisi matrimoniale è ora affiancata la contrazione dei tempi:il divorzio “facile” deve essere anche “breve”. Mentre il divorzio “facile” viene fuori da un decreto legge del governo Renzi, il divorzio “breve” è l’esito di iniziative parlamentari: è passato alla Camera nel maggio 2014 e prevede che dai tre anni attuali si scenda a un anno, ulteriormente riducibile a sei mesi se la separazione è consensuale. Nel testo uscito dalla Commissione Giustizia del Senato si inseriva una ulteriore novità: con l’accordo dei coniugi e i figli maggiorenni, si poteva saltare il passaggio della separazione e giungere direttamente al divorzio.
Il ddl e quest’ultima aggiunta hanno suscitato motivate preoccupazioni dell’associazionismo pro family; i Comitati Sì alla Famiglia hanno inviato due lettere ai senatori, una all’avvio dell’esame del testo, giovedì 12, l’altra lunedì scorso nell’imminenza del voto, richiamando alla gravità del passaggio: l’appello ha funzionato solo in parte, perché il “divorzio a vista”, senza la previa separazione, è stato stralciato (ma è rimasto il resto). Il capogruppo Pd Zanda ha assicurato che il “divorzio a vista” sarà reinserito alla prima occasione utile, e così la relatrice Filippin.
È una legge necessaria? Parlando con chi vive la difficoltà di una crisi matrimoniale, soprattutto seversa in una condizione di debolezza – un coniuge con limitate risorse finanziarie, un migrante, più spesso una migrante con scarsa conoscenza del nostro contesto sociale –, emerge che la prima preoccupazione delle persone normali non è la durata della separazione, ma la prospettiva di esistenza, propria e dei figli. Ciò di cui si coglie l’assenza è una fase di effettiva e concreta mediazione familiare, che verifichi se i problemi sono realmente insuperabili e – se la verifica non va a buon fine – renda il conflitto meno aspro, permettendo soluzioni condivise dopo un effettivo approfondimento: il che è reso impossibile dalle modalità del “divorzio facile” e dai tempi rapidi del tentativo di conciliazione del giudice (quando si svolge).
Perfino la senatrice Filippin, nell’intervento di replica al Senato, ha riportato il dato che “su circa 93.787 separazioni proposte nel 2012, solo 5499 si sono chiuse con una riconciliazione, con una percentuale del 5 per cento”. E però per lei, invece di potenziare gli interventi di mediazione, la soluzione sta nel ridurre al minimo i tempi della separazione, sopprimendola tout court appena sarà possibile. Sarebbe stato un segnale importante per il Senato soffermarsi su come aiutare i coniugi in difficoltà: si è optato per sacralizzare le difficoltà, rendendole al più presto definitive.
I voti. Vale la pena elencare gli undici senatori che hanno votato contro: in primis Gasparri (Fi) e Marinello (Ncd), che sono pure intervenuti in dissenso dai rispettivi gruppi. Poi, sempre per Fi, Arachi, Bruni, D’Ambrosio Lettieri, Mandelli e Tarquinio, Longo per il gruppo Autonomie, Milo per Gal, Blundo e Puglia per M5S. Per questi ultimi due è verosimile che il dissenso sia per motivi opposti, e cioè per un provvedimento troppo timido. Ecco gli undici astenuti (il regolamento del Senato equipara l’astensione al voto contrario): per Fi Amidei, Floris, Malan, Pelino; Augello per Ncd; Candiani per la Lega; Compagnone, Giovanni Mauro e Scavone per Gal; Laniece per il gruppo Autonomie e Fucksia per M5S.
Le prospettive. Mentre in Aula scorrevano i titoli di coda del “divorzio breve”, in Commissione Giustizia, sempre al Senato, la senatrice Cirinnà ha depositato una nuova stesura del testo sulle unioni civili, con una più chiara apertura alle adozioni rispetto al precedente, mentre il presidente del Consiglio ha moltiplicato gli annunci dell’imminente varo della legge. L’intento appare chiaro: da un lato si abbassa il profilo della famiglia fondata sul matrimonio, affievolendo i richiami alla responsabilità e i tempi di riflessione; dall’altro si rafforza il regime delle convivenze. Alla fine inserire per legge l’adozione o la reversibilità potrà non essere necessario: nel momento in cui i due regimi saranno sovrapponibili, lasciare qualche possibilità in più per l’uno a detrimento dell’altro sarà “sanato” dalle sentenze, o delle Corti europee o della Corte costituzionale.
Questa deriva non è inarrestabile; lo diventa se si conta su chi sta dentro il Parlamento – le espressioni di voto prima ricordate sono eloquenti – e non su una mobilitazione ampia e diffusa. La sua assenza di essa è concausa della moltiplicazione nell’ultimo anno di leggi e di azioni di governo ostili alla famiglia. Continuare nell’inerzia equivale a unirsi a quell’irresponsabile applauso col quale larga parte dei gruppi parlamentari hanno fatto seguire ieri l’ulteriore picconata che hanno inferto alle famiglie italiane.