di Massimo Introvigne
invito alla lettura
L’uomo malato dell’Occidente
Secondo una famosa espressione attribuita allo zar di Russia Nicola I (1796-1855), nel XIX secolo l’Impero Ottomano è «l’uomo malato d’Europa». Nell’espressione c’è molta propaganda anti-ottomana, e il pulpito russo da cui viene la predica non è certo meno affetto da malattie, come il secolo successivo si incaricherà di dimostrare. Nel secolo XXI, è l’Europa che è diventata l’uomo malato dell’Occidente. Se si eccettuano il Canada, l’Australia e la Nuova Zelanda che appaiono per molti versi (ma non per tutti) appendici dell’Europa, il resto del mondo non capisce più gli europei.
Non si tratta soltanto degli Stati Uniti, né del solo mondo islamico: in Cina, in Russia, in Africa si sentono le stesse diagnosi impietose su un’Europa percepita come sempre più debole e meno autorevole. L’Europa è in crisi da molti punti di vista, ma su tre aspetti le diverse prospettive critiche si trovano d’accordo fra loro. Il primo è l’estrema debolezza dell’Europa nelle relazioni internazionali, la paura di scegliere e di schierarsi, la ricerca sistematica del compromesso, la diffusione in proporzioni che non hanno uguali nel resto del mondo del pacifismo a tutti i costi, «senza se e senza ma ».
L’Europa Occidentale sceglie di non scegliere fino all’ultimo già di fronte all’avanzata del nazional-socialismo, «cedendo per non perdere» fino a quando è Adolf Hitler (1889-1945) a scegliere per tutti la via della guerra e della distruzione universale. La lezione, anche se di immani proporzioni, non serve: dopo la guerra si continua a cedere di fronte alle tragedie del comunismo, cercando di blandire l’impero sovietico e tacendo sui suoi crimini. Quando l’impero comunista implode, non c’è nessuna Norimberga e l’Europa preferisce voltare pagina e dimenticare una storia in cui i suoi silenzi e le sue complicità hanno dato un contributo decisivo alla pratica di massa del GULag.
L’Europa scrive sui cancelli di Auschwitz che «coloro che non imparano dalla storia sono condannati a ripeterla » – un motto spesso attribuito ad altri, ma che è del filosofo americano George Santayana (1863-1952) -: e tuttavia la sua storia si ripete. Quando dopo la terza guerra mondiale tra Occidente e comunismo l’ultra-fondamentalismo islamico ne scatena un’altra, la quarta secondo molti storici e politologi americani (Introvigne 2005), l’Europa ricade nei vecchi vizi.
Rimanda, rinvia, tratta, cede, si appella a istituzioni internazionali evidentemente impotenti a contrastare il nuovo tipo di guerra dei terroristi. Un po’ dovunque in Europa l’arte ripropone la storia di san Giorgio, ma non se ne traggono le logiche lezioni. I pavidi concittadini del santo offrono ogni anno in olocausto al drago una fanciulla, sperando così di tenere buona la bestia che magari un giorno si stancherà di reclamare le sue prede.
Ma il drago non si stanca affatto, e le fanciulle continuano a morire. Finché si presenta san Giorgio e offre l’unica soluzione ragionevole: non si tratta di trovare sempre nuove fanciulle da sacrificare nel vano tentativo di rabbonire il drago, ma di ucciderlo. In tema di quarta guerra mondiale c’è anche di peggio. Nell’aprile 2004 al-Qa’ida offre una «tregua» a quei governi europei che prendano apertamente le distanze dagli Stati Uniti e si dissocino dalla lotta al terrorismo, promettendo che sul loro territorio non ci saranno attentati.
Qualcuno risponde, ed è una risposta che vale la pena di leggere. C’è chi dice che «”non si tratta con i terroristi”. Ma con chi, se no? Liquidare l’offerta di tregua di Bin Laden come un “ricatto” a cui non si deve cedere è davvero la posizione più saggia? Visto che non c’è un governo legittimo con cui trattare una qualche limitazione del conflitto, perché continuiamo a rifiutare ogni trattativa, con la falsa idea che il nemico sia solo un vile e abominevole bandito?
Tutti i governi lo sono sempre stati, e solo in considerazione del loro potere sono passati molto spesso dal ruolo di banditi al ruolo di interlocutori credibili. Se, come del resto pensano gli americani, Bin Laden ha davvero l’autorità di ordinare stragi ed eventualmente di farle cessare, non vediamo in che cosa differisca da Bush ». Questa risposta non proviene da un qualunque privato cittadino dell’Europa.
È, in un articolo su il Manifesto del 18 aprile 2004, di Gianni Vattimo (Vattimo 2004), all’epoca autorevole deputato del Parlamento Europeo ma soprattutto filosofo e fondatore di quella teoria del «pensiero debole », una delle forme più radicali di relativismo, secondo cui chiunque creda nell’esistenza di verità e di valori non negoziabili è un pericolo per la pace. Vattimo è un filosofo tradotto nelle principali lingue europee, osannato per il suo impegno di militante politico e omosessuale, citato come nume ispiratore in ogni dibattito sul relativismo.
Nell’aprile 2004 improvvisamente la torre d’avorio accademica si squarcia, e il «pensiero debole» emerge come debolezza del pensiero, celebrando la sua apoteosi nella proposta di resa a Bin Laden. Molte interpretazioni leggono la debolezza politica dell’Europa come frutto di un pensiero pacifista alimentato da secoli di guerre e di stragi. Tuttavia, è ormai diventato impossibile non inserire nell’analisi un elemento morale.
L’Europa manca della virtù che un tempo era chiamata fortezza (Pieper 1951) e che consiste nel reagire con un coraggio che non è né temerarietà né violenza alle sfide della storia. Avendo perso contatto con la fortezza, l’Europa ha perduto di vista la distinzione classica fra forza e violenza e rifugge da ogni uso della forza come se si trattasse sempre e soltanto di violenza.
Nel 1972, quando in Europa la violenza «della vita quotidiana » era solo quella del dopo-1968 (certo, qua e là con gravi episodi di terrorismo comunista o nazionalista arabo), ancora ben lontana dai carnai di al-Qà’ida, il filosofo cattolico belga Marcel de Corte (1905-1994) invitava, in una vigorosa conferenza tenuta a Losanna che ho sentito quando avevo diciassette anni e che non ho dimenticato: «A questa violenza rivoluzionaria, che scaturisce da un uomo trasformato insieme in dio e in bestia, opponiamo la virtù della forza, la forza del carattere, la forza della verità, la forza del Bene, tutte le forme di forza protettrici della natura umana e dell’Ordine autentico, che la civiltà da quando è nato il cristianesimo conosce e non deve più scoprire; e, se Dio ce ne concede la grazia, il dono soprannaturale della fortezza che ci lega inscindibilmente alla fede in Gesù Cristo, nonostante gli assalti dei persecutori (…)» (de Corte 1972, 25).
Ma, anziché il coraggio e la fortezza, la paura e la noia su cui insistono sia filosofi (Finkielkraut 2005) sia letterati – sono divenuti i colori dominanti del panorama europeo. Ma la paura e la noia generano normalmente vizi morali, non solo errori politici.
La separazione tra politica e morale
II secondo aspetto della crisi europea è la separazione – anche qui, assai più evidente in Europa che altrove – fra politica e morale. Normalmente i richiami alla « questione morale» si riferiscono all’intreccio fra politica e affari, ma questo è un fenomeno in qualche modo endemico alla vita politica contemporanea, dove l’Europa non sta peggio di altri continenti. Gli scandali ci sono quasi dovunque -il che non è una ragione per non denunciarli e condannarli, salvo distinguere fra gli scandali veri e quelli inventati o amplificati per ragioni politiche.
No, non è qui che l’Europa è quasi unica. E’ nell’avere legalizzato per legge il matrimonio degli omosessuali a partire dall’Olanda (2001), dal Belgio (2003), dalla Spagna e dalla Gran Bretagna (2005 – più il Canada, che rimane appunto legato all’Europa da una sorta di cordone ombelicale, mentre matrimoni omosessuali sono stati legalizzati per via giudiziaria dal 2004 dalla Corte Suprema in Sudafrica, un Paese la cui amministrazione del diritto è pure ancora di stampo europeo); la possibilità per le coppie omosessuali di adottare figli (esclusa solo dalla legge belga); l’eutanasia in ‘ Olanda (2000) non solo per gli infermi adulti ma dal 2002 anche per gli adolescenti sopra i dodici anni capaci di consenso e che aggiungano la loro richiesta a quella dei genitori.
Infine nel 2004 – secondo le parole di monsignor Elio Sgreccia – anche «l’ultimo limite è stato varcato» in Olanda, e si è estesa l’eutanasia ai bambini sotto i dodici anni gravemente ammalati che potranno essere «liberati dal dolore» una volta ottenuto l’assenso dei medici e dei genitori.
Commenta lo stesso monsignor Sgreccia, nel documento redatto nell’occasione per la Pontificia Accademia della Vita: «È facile notare come abbia funzionato la legge del “piano inclinato” per cui, una volta ammessa la legittimità della morte inflitta per pietà sull’adulto cosciente che ne faccia richiesta esplicita, ripetuta e documentata, poi si passi anche ad allargarne l’applicazione ai giovani, agli adolescenti con il consenso dei genitori o dei tutori, e infine ai bambini e ai neonati, ovviamente senza il loro consenso. È facile anche prevedere che lo scivolamento sul “piano inclinato” dell’eutanasia continuerà nei prossimi anni fino a includere i pazienti adulti ritenuti incapaci di chiedere il consenso » (Sgreccia 2004).
Certamente anche gli Stati Uniti hanno avuto il loro caso Terry Schiavo: ma si è trattato di una decisione giudiziaria, non di una legge. Quanto al matrimonio omosessuale, nel 2004 referendum tenuti in undici Stati degli Stati Uniti hanno portato all’inclusione nelle relative Costituzioni di emendamenti che vietano il matrimonio tra persone dello stesso sesso, approvati da maggioranze schiaccianti. Tutta europea è anche l’invenzione dei PACS (Patti Civili di Solidarietà), nati in Francia nel 1999 e presentati all’inizio come una ricetta per risolvere i problemi (talora reali) delle coppie di fatto, dello stesso o di diverso sesso.
Tuttavia nella stessa Francia nel 2005 ha destato sensazione un duro pamphlet del filosofo Thibaud Collin, ascoltato consigliere del ministro Nicolas Sarkozy, che ne ha subito preso le difese contro attacchi veramente immotivati che lo hanno colpito. Collin sostiene che i PACS, presentati come una alternativa al matrimonio omosessuale, si sono rivelati invece una tappa in un processo verso la legalizzazione di questo matrimonio (è ancora il «piano inclinato» descritto da monsignor Sgreccia in tema di eutanasia).
Per Collin una società può sfuggire alla sua auto-distruzione soltanto se riposa su alcuni princìpi del «senso comune», accettati da tutti (Collin 2005). Tra questi ci sono l’idea che uccidere l’innocente e rubare siano comportamenti criminali, il divieto della pedofilia e dell’incesto, e anche la nozione che un figlio sia tale in quanto ha un padre e una madre e che il matrimonio sia l’unione fra un uomo e una donna. Una democrazia è veramente tale in quanto rispetta questi princìpi, che sono condivisi dalla grande maggioranza dei cittadini ma nello stesso tempo costituiscono il retroterra etico su cui la stessa democrazia si fonda, così che il fatto che un governo sia stato eletto dalla maggioranza non gli consente di per sé di modificarli.
Il marxismo, prosegue Collin, ha sostenuto che alcuni di questi princìpi, come la tutela della proprietà privata e l’idea che l’oppositore politico non può essere incarcerato o ucciso in quanto ostacola il progresso, ancorché condivisi dalla maggioranza, derivano da una «falsa coscienza» indotta dal capitalismo. Una minoranza illuminata ha dunque il diritto e il dovere di prendere il potere e di imporre alla maggioranza – per il suo stesso bene, di cui però la maggioranza non è consapevole – il loro rovesciamento Oggi una rivoluzione ulteriore ai marxismi», secondo il filosofo francese, ragiona nello stesso modo.
Sa bene che la maggioranza è contraria al matrimonio degli omosessuali, e al fatto che due persone dello stesso sesso possano «avere» (per adozione o fecondazione artificiale) dei figli. Ma sostiene che questa opposizione deriva da una «falsa coscienza» indotta dall’eterosessismo» (la convinzione della «normalità» dei soli eterosessuali) e dalla «omofobia», patologie psicologiche o sociali che vanno studiate come tali.
La minoranza illuminata che ha «preso coscienza» della falsità dell’opinione maggioritaria deve dunque conquistare il potere e imporre il «progresso» alla maggioranza non sufficientemente consapevole. Con il che, conclude Collin, si scardinano sia la democrazia sia il retroterra etico che la fonda. E si apre la strada alle utopie di filosofi come Jacques Dcrrida (1930-2004), Michel Foucault (1926-1984) e i loro emuli secondo cui, dopo la trasformazione del semplice omosessuale in attivista gay, quest’ultimo evolve nel queer, per cui l’identità sessuale, l’età, la parentela non sono importanti ma conta solo il desiderio.
Tutto quanto può essere oggetto di desiderio è lecito: così alcuni teorici queer chiedono la legalizzazione di tutte le droghe, dell’incesto e almeno di alcune forme di pedofilia, anche se (evidentemente) non è questa la posizione della maggioranza dei sostenitori del matrimonio omosessuale. Ma la lezione dì Collin è che «fare esplodere» i fondamenti della società, secondo un lungo itinerario il cui primo passo è però rappresentato dalla concezione dei PACS come «piccolo matrimonio», scoperchia un vaso di Pandora da cui può uscire una «dittatura queer» che non è meno pericolosa della «dittatura del proletariato» marxista.
Un primo punto di non ritorno è staiti varcato dall’Europa nel 1981, un anno cruciale in cui il 17 e il 18 maggio il 68% degli italiani – cittadini di un Paese per dire il meno non irrilevante per la storia dell’Europa cristiana – determina con il suo «no» nel referendum abrogativo la conferma della legge sull’aborto. Probabilmente molti fra quegli italiani avevano trepidato, solo quattro giorni prima, per l’attentato del 13 maggio alla vita di Papa Giovanni Paolo II (1920-2005); forse erano anche entrati un una chiesa per pregare.
Ma la scollatura fra morale e politica, fra credenza ed eventualmente anche pratica religiosa e comportamento sociale appare evidente come in quella tragica sequenza del maggio 1981, cui più di due terzi degli italiani dichiarano con il voto sull’aborto che l’ammirazione per Papa Giovanni Paolo II è una cosa e le leggi della Repubblica, dove la morale «non c’entra», un’altra.
Per chi la pensa diversamente, sembra davvero realizzarsi la profezia espressa nella Preghiera infuocata da san Luigi Maria Grignion de Montfort (1673-1716), di cui il defunto Papa era devotissimo: «Al fuoco! al fuoco! al fuoco!… Aiuto! aiuto! aiuto!… C’è fuoco nella casa di Dio! C’è fuoco nelle anime! C’è fuoco perfino nel santuario… Aiuto! stanno assassinando il nostro fratello!… Aiuto! stanno uccidendo i nostri figli!… Aiuto! stanno pugnalando il nostro buon padre!… » (Montfort 1990, 556).
Quando i figli sono uccisi con l’aborto e il «buon padre», il Papa, fatto oggetto di un tentativo di assassinio in Piazza San Pietro, come non pensare che la storia abbia incontrato la profezia? Il 1981 (che, per chi crede alla natura soprannaturale di questi avvenimenti, e comunque per milioni di pellegrini che ne ricavano un’esperienza di conforto e talora di conversione, è anche l’anno in cui i veggenti di Medjugorje iniziano a sperimentare le apparizioni della Madonna) sembra proprio l’anno dei delitti e dei castighi. Il 6 ottobre è assassinato al Cairo il presidente egiziano Anwar as Sàdàt (1918-1981): un avvenimento – ma all’epoca nessuno se ne rese conto – che segna una svolta all’interno del fondamentalismo islamico e che porterà alla separazione dal suo tronco principale di una corrente ultrafondamentalista radicale che è alle origini di al Qà’ida.
Il 1981 è anche l’anno – nonostante vi fossero stati casi, spesso diagnosticati erroneamente, già nel decennio precedente – da cui le organizzazioni mediche internazionali fanno decorrere l’epidemia, tuttora in corso, di AIDS, la sindrome di immunodeficienza acquisita che colpisce particolarmente omosessuali, tossicodipendenti e persone con uno stile di vita sessuale promiscuo, costata nei successivi venticinque anni almeno venticinque milioni di morti.
Quando nel 1981 – ricorda Alain Finkielkraut (2005) – qualcuno parla di AIDS al teorico del relativismo postmoderno e della rivoluzione queer Michel Foucault, questi si mette a ridere affermando che si tratta di una panzana inventata dagli oppositori di un movimento omosessuale che appare ormai inarrestabile. Tre anni dopo, Michel Foucault muore di AIDS.
La separazione fra morale e politica lascia solo il diritto di pensare la morale e la religione privatamente, «in foro interno». Ma anche questo diritto è severamente limitato in Europa dall’ottobre 2004, quando il Parlamento Europeo rifiuta di ratificare la nomina a membro della Commissione; del professor Rocco Bottiglione, filosofo e ministro italiano, a causa delle sue convinzioni di cristiano sul carattere peccaminoso delle relazioni omosessuali.
A nulla valgono la distinzione ribadita da Buttiglione fra morale e diritto – che di per sé dovrebbe essere un pilastro della laicità europea – e l’impegno preso davanti ai parlamentari di tenere distinte nella veste di Commissario europeo convinzioni personali e rispetto delle leggi in vigore, quali che queste siano. La maggioranza del Parlamento impedisce a Buttiglione l’accesso alla carica.
L’evento è di per sé gravissimo, e va molto al di là di qualunque dibattito sulla prudenza con cui lo stesso Buttiglione gestisce i tumultuosi eventi di quei giorni. Al ministro di uno dei Paesi fondatori della Comunità Europea è impedito di entrare nella Commissione non sulla base di comportamenti politici o personali ritenuti inaccettabili, ma semplicemente delle sue opinioni.
Il suicidio demografico
II terzo aspetto della crisi dell’Europa – strettamente collegato ai primi due – è quello che Giovanni Paolo II chiama dal 1985, con espressione destinata a passare alla storia, il suo «suicidio demografico» (Giovanni Paolo II 1985, n.10). Un po’ dovunque nel mondo quello che stupisce i non europei è che in Europa questo tema drammatico non sia al centro del dibattilo culturale e perfino delle campagne elettorali. Nessun Paese dell’Europa Occidentale ha un tasso di nascite per donna che corrisponda al livello minimo di mantenimento della popolazione (2,1 figli per donna) indicato dai demografi.
L’Italia con un tasso di 1,2 si avvia a diventare il Paese del mondo con il minor numero di nati, e lo sarebbe già se dalle nascite registrate negli ospedali si escludessero i figli di immigrati residenti ma non cittadini italiani. La Spagna e la Germania concorrono con l’Italia per questo triste primato. La Francia ha rialzato il suo livello a 1,7 ma i suoi dati sarebbero simili a quelli italiani se si escludessero i nati da donne – immigrate o cittadine francesi – di religione musulmana (Ajami 2004). Questo significa che Paesi come l’Italia, se la situazione non muta, dimezzeranno la popolazione nel corso di una generazione (anche se le statistiche potranno essere alterate concedendo la cittadinanza a un alto numero di immigrati residenti).
La Germania perderà l’equivalente della popolazione della Germania Est in mezzo secolo, la Spagna l’equivalente dell’attuale popolazione di un quarto del suo territorio. Tra tante statistiche, mi colpisce una citata dal teologo cattolico americano George Weigel (2005a, 22) secondo cui nel 2050 l’Italia sarà un Paese «senza zie»: già ora la maggioranza dei bambini italiani sono figli unici, ma fra meno di quarant’anni anche gli adulti saranno per il sessanta per cento figli unici di figli unici, persone che non avranno mai fatto l’esperienza di un fratello o di una sorella, o appunto di uno zio o di una zia.
Del «suicidio demografico» si occupano poco i moralisti, ma molto gli economisti, specie quelli specializzati in pensioni. Nell’Europa Occidentale infatti – nonostante tutti gli Stati cerchino di spostare in avanti l’età pensionabile – cresce inesorabilmente il numero dei pensionati, e in diverse regioni ogni lavoratore deve già sopportare il carico di due pensionati. Qualche entusiasta del «modello europeo» pensa – anche se pochi hanno il coraggio di dirlo – che l’eutanasia all’olandese consentirà di sbarazzarsi dei vecchi inutili e di risolvere il problema.
Altri forniscono cifre, ma non traggono conclusioni. Il rifiuto della classe politica di molte nazioni europee di ricorrere alle drastiche riforme pensionistiche suggerite dalle istituzioni finanziarie internazionali sembra non derivare tanto da compassione per i pensionati – o dal desiderio di non perdere i loro voti, visto che presto saranno la maggioranza degli elettori – ma dal nascondere la testa nella sabbia di fronte alla drammatica urgenza del problema demografico.
Non c’è nessuna garanzia che le civiltà durino per sempre. Il loro modo normale di morire è appunto demografico. La civiltà dell’antica Roma non è sconfitta dai barbari, ma dal declino demografico dovuto al massiccio ricorso all’aborto e all’infanticidio e a una forma primitiva di eutanasia (certo lontana da quella in camice bianco dell’Olanda di oggi) che consiste nell’abbandonare gli anziani malati senza curarli né nutrirli. I barbari arrivano quando queste pratiche hanno già fiaccato l’Impero di Roma, dalle cui rovine può sorgere – come ricorda il sociologo Rodney Stark – la civiltà di quei cristiani che non praticano l’aborto e che curano i vecchi e i malati (Stark 1996).
Non c’è bisogno di citare quei fondamentalisti islamici per cui «ride bene chi ride ultimo» (Ajami 2004), e l’invasione musulmana fermata per via militare a Poitiers, a Lepanto e a Vienna riuscirà nel XXI secolo per via demografica, per rendersi conto che la civiltà europea rischia di fare la fine di quella romana. Nel giro di un paio di decenni, per esempio, «la maggioranza degli adolescenti in Olanda sarà costituita da musulmani» (Weigel 2005a, 135). Vent’anni dopo, si tratterà della maggioranza degli adulti in età lavorativa (o magari della popolazione in genere, se gli olandesi continueranno ogni due anni a estendere la legge sull’eutanasia includendo nuovi casi).
Naturalmente, c’è chi sostiene che questa «Eurabia» (l’espressione è stata resa popolare da Oriana Fallaci, ma l’ha coniata lo storico britannico Niall Ferguson) sarà bellissima. Quando nel 1998 la nazionale di calcio francese vinse i campionati mondiali schierando una maggioranza di giocatori che non erano nati in Francia la superiorità della civiltà francese multietnica e multireligiosa fu dottamente spiegata in televisione non solo da un buon numero di intellettuali francesi ma anche da Walter Veltroni in Italia. L’aggettivo «multireligiosa» non era affatto ridondante rispetto a «multietnica».
Anche la nazionale brasiliana, che perse la finale di quei mondiali, era evidentemente multietnica. Ma non era multireligiosa: i giocatori erano tutti cristiani e avevano anche il pessimo gusto, nella Francia della laìcité, di pregare collettivamente e pubblicamente e di entrare in campo con un segno di croce. A qualche anno di distanza la rivolta delle periferie parigine del 2005 ha mandato in frantumi quel bel sogno di utopia multireligiosa concorde e felice.
E perfino Veltroni si è fatto più cauto. Nel cartone animato del 2005 della Disney Chicken Little –Amici per le penne molti spettatori hanno notato che il sindaco di Querce Ghiandose, il borioso e incompetente Rino Tacchino, parla come Veltroni, pronuncia le parole come Veltroni, e in effetti è proprio Veltroni, nel senso che il poliedrico primo cittadino di Roma (la cui occupazione deve lasciargli evidentemente una buona dose di tempo libero) ha fatto anche il doppiatore per la versione italiana del film, al termine della quale esibisce anche le sue doti canore.
Dal momento che Veltroni è buon amico di Umberto Eco – di cui disapprovo molte cose, ma non l’insegnamento secondo cui la cultura popolare va presa assolutamente sul serio – si può immaginare tutta una semiotica del nesso fra il sindaco di Roma (cui riconosco volentieri il senso dell’umorismo) e quello di Querce Ghiandose (un nome che tra l’altro evoca il partito di Veltroni, la Quercia).
Nel film il sindaco è l’ultimo a convincersi che la sua cittadina — abitata dai soliti animali antropomorfi disneyani – sia la testa di ponte per uno sbarco di alieni sulla Terra. Quando gli alieni finalmente arrivano, Rino Tacchino offre loro prima le chiavi della città e poi anche quelle della sua macchina, ricevendone in cambio un colpo di raggio che lo imprigiona nell’astronave extraterrestre.
Dal momento che vi è tutta una letteratura sugli alieni come metafora degli immigrati, si è molto tentati di leggere la curiosa performance del sindaco come legata a un ripensamento a proposito dei suoi vecchi entusiasmi per la società multietnica e multireligiosa. Chi consegna le chiavi della città agli alieni sognando di potere convivere con loro senza problemi in un’idilliaca armonia finisce per diventare loro prigioniero.
Ma, anche se fosse stato vero, il sogno non avrebbe sostituito la realtà. Un’Europa Occidentale a maggioranza musulmana costituirebbe, molto semplicemente, una civiltà diversa rispetto «quella europea che oggi conosciamo. Si può discutere se sarà bella o brutta: di certo, non sarà più la stessa. Come ha affermato lo scrittore canadese neo-conservatore (che certo ama i toni estremi) Mark Steyn (2006): «È la demografia, stupido, l’unica questione importante.
L’Europa alla fine del secolo sarà un continente dopo la bomba al neutrone. I grandi edifici ci saranno ancora, ma le persone che li hanno costruiti se ne saranno andate » (Steyn 2006). Lo stesso scrittore attribuisce il suicidio demografico alla « mancanza di fiducia nella propria civiltà». A me sembra che un’espressione più precisa sia «mancanza di speranza». Dopo avere perso la fortezza, l’Europa ha perso anche la speranza nel futuro. Le civiltà che non sperano non fanno figli: ma sono appunto le civiltà destinate a scomparire.
La falsificazione della storia
La perdita di speranza implica anche una falsificazione della storia. Non credendo nel futuro dell’Europa, se ne reinventa il passato, come dimostra la Costituzione dell’Unione Europea che salta a pie pari dalle origini greco-romane all’Illuminismo, come se in mezzo non ci fosse nulla. La menzogna, qui, consiste nel negare che le radici dell’Europa o sono cristiane o non sono, e che l’Europa è diventata Occidente perché è stata cristiana.
Da questo punto di vista, uno sguardo alla «sociologia dei monoteismi » che uno dei maggiori sociologi delle religioni contemporanei, il già citato Rodney Stark, ha cercato di costruire negli ultimi anni, si rivelerà particolarmente eloquente. Dopo avere formulato, con altri, la teoria dell’economia religiosa che in molte università ha da anni sostituito la precedente teoria della secolarizzazione come modello sociologico per interpretare la situazione della religione in Occidente (cfr. Stark e Introvigne 2003), Stark si dedica da diversi anni a una lettura sociologica della storia delle religioni.
Il suo citato saggio sulle origini del cristianesimo, The Rise of Christianity, del 1996 (Stark 1996), è stato tradotto in dodici lingue e ha avuto un’accoglienza sorprendentemente favorevole nella cerchia degli specialisti del cristianesimo antico, di cui pure metteva in dubbio più di un’interpretazione. Nel 2001, con One True God, Stark ha iniziato un’ampia indagine sul monoteismo, volta a mettere alla prova l’ipotesi secondo cui i princìpi generali della teoria dell’economia religiosa non valgono solo per l’epoca contemporanea, ma anche per l’antichità e il Medioevo (Stark 2001).
La teoria postula, tra l’altro, che la domanda religiosa tenda a rimanere costante nel tempo, così che le variazioni nei tassi di religiosità (cioè nelle percentuali di persone che si dicono sia religiose sia praticanti) dipendono dalla qualità e dalla quantità dell’offerta. A meno che il mercato religioso non sia distorto da interventi coercitivi dello Stato, esso si comporta come altri mercati: il monopolio, a lungo andare, genera indolenza e mancanza di entusiasmo nei monopolisti, non stimolati dalla concorrenza, e deprime il mercato, che è al contrario ravvivato e rinvigorito da una concorrenza attiva e agguerrita.
Nell’esempio comparativo più tipico da cui la teoria dell’economia religiosa è partita, il monopolio delle Chiese di Stato in Scandinavia ha fatto sì che il numero di praticanti si sia ridotto ai minimi termini, mentre la vigorosa concorrenza fra denominazioni cristiane ha trasformato gli Stati Uniti in un Paese dove il numero di praticanti è quasi tre volte superiore alla media dell’Unione Europea (Stark e Introvigne 2003; Introvigne 2004a).
Questa conclusione – afferma Stark – vale anche per l’Europa dell’antichità: il successo delle religioni protette dallo Stato contro i concorrenti sembra inizialmente folgorante, ma si rivela alla lunga effimero, perché il loro clero si impigrisce e perde lo zelo missionario.
Come conseguenza, alla periferia della scena religiosa nascono movimenti di contestazione che – sempre nel lungo termine – finiscono per avere successo. Un altro aspetto della teoria dell’economia religiosa è la maggiore forza concorrenziale del monoteismo incentrato su un Dio personale rispetto sia ai politeismi che postulano una pluralità di divinità «specializzate», sia alle religioni che venerano un’«Essenza» astratta che non si occupa dei problemi degli uomini. Un Dio unico che si cura di tutti gli aspetti della vita dell’uomo è infinitamente più attraente (Stark 2004).
Naturalmente, Stark affronta questi problemi dal punto di vista della sociologia, che esclude per principio giudizi di valore su quale teologia sia «vera»; ma nello stesso tempo non si disinteressa affatto della teologia e delle dottrine perché (almeno nel modello sociologico di Stark) sono proprio gli aspetti dottrinali a rendere ragione del perché una religione abbia successo e un’altra finisca per scomparire. Infine, in One True God, Stark sottolinea come il monoteismo in linea di principio abbia difficoltà ad ammettere la sua coesistenza con altre fedi (se c’è un solo vero Dio gli altri dèi sono «falsi»).
Tuttavia, in pratica, l’intolleranza si traduce in atti violenti soltanto quando la riaffermazione dell’identità è percepita come necessaria in dipendenza di una minaccia esterna: così lo scontro fra il cristianesimo e l’islam nel Medioevo determina di’interno di entrambi una repressione più dura sia degli ebrei sia degli eretici. For the Glory of God (Stark 2003), il secondo volume dello studio consacrato da Stark al monoteismo, riprende il discorso dove One True God lo aveva lasciato ed esamina quattro episodi nella storia del cristianesimo in Occidente: le eresie medievali e la Riforma, la nascita della scienza, la caccia alle streghe e la schiavitù.
Lo scopo di Stark rimane quello di arrivare a un’interpretazione sociologica coerente della storia del cristianesimo. Tuttavia, nel suo esame della letteratura storica, il sociologo americano nota di essersi aspettato pregiudizi di tipo materialista e marxista; ma – afferma – «quello cui non ero preparato era scoprire quanti degli storici che ho dovuto leggere per preparare questo studio esprimono un anticattolicesimo militante, e quanti pochi fra i loro pari abbiano obiettato a una litania di commenti dispregiativi di taglio anticattolico, talora espressi senza neppure rendersene conto» (Stark 2003, 12-13).
Così, «benché molti storici viventi oggi probabilmente non abbiano pregiudizi contro la religione cattolica, o almeno non più di quanti ne abbiano contro la religione in generale, spesso mantengono idee false senza rendersi conto che sono il prodotto dell’anticattolicesimo di passate generazioni» (ibid., 13).
Stark sente perfino il bisogno di precisare: «Non sono, e non sono mai stato, cattolico» (ibid., 14) e «nego di scrivere in qualità di apologeta» (ibid., 14); in effetti, alcune delle sue conclusioni (una per tutte: la presenza di una valida successione apostolica nella Chiesa d’Inghilterra) non sono in armonia con la dottrina cattolica. Ma, nell’esaminare la letteratura storica in funzione di un’interpretazione sociologica, Stark si imbatte nell’ostacolo che deriva da un pregiudizio anticattolico spesso estremo da parte di storici antichi e moderni, e non ha paura di denunciarlo in nome non della fede ma del corretto metodo scientifico.
La prima parte del volume è consacrata alla storia delle eresie cristiane, dal montanismo alla Riforma protestante. Stark si serve di questi esempi per ritornare ancora una volta su un elemento centrale della teoria dell’economia religiosa: un monopeolio protetto dallo Stato genera un clero pigro, che perde lo zelo missionario. In questa chiave, quello che per altri versi è il miracolo di Costantino (274-337) sarebbe nello stesso tempo «la “maledizione” di Costantino» (ibid. 33): garantito dallo Stato, lo zelo cristiano a poco a poco si affievolisce.
La teoria dell’economia religiosa postula che un monopolio centrale impigrito generi alla sua periferia forme di dissenso: sono da una parte le varie eresie medievali, dall’altra i movimenti riformatori che la Chiesa cattolica riesce a tenere al suo interno (e non si tratta, secondo il sociologo americano, di un piccolo risultato).
Il secondo fenomeno è quello che Stark chiama della «Chiesa della pietà», rappresentala principalmente dai monaci e dagli ordini religiosi, spesso critica nei confronti della «Chiesa del potere» che mostra non solo mancanza di zelo missionario, ma anche immoralità, simonia e intrighi. Stark nega risolutamente la teoria di origine marxista secondo cui sia la «Chiesa della pietà» sia le eresie rappresentino una forma primitiva di protesta sociale: i movimenti ascetici e quelli ereticali, nella stragrande maggioranza dei casi, non sono guidati da poveri ma da ricchi, ed e la nobiltà a fornire statisticamente alla Chiesa il maggior numero di santi asceti (in seguito canonizzali) nel Medioevo.
Alcune tesi della vulgata marxista in tema di eresie sono denunciate come semplicemente ridicole: così, Friedrich Engels (1820-1895) considerava il movimento valdese come la reazione di “pastori patriarcali delle Alpi contro il feudalesimo che avanzava verso di loro» (cit. ibid., 61), in apparenza ignorando completamente che i valdesi nascono nelle grandi città, sono guidati da borghesi cittadini, e si rifugiano nelle Alpi, sospinti dalla persecuzione, solo secoli più tardi, quando il feudalesimo, è già in crisi.
Conformemente alle idee già espresse in One True Godi, Stark afferma che l’eresia gode di una relativa tolleranza nei momenti di relativa stabilità, mentre è perseguitata quando la cristianità si trova di fronte a minacce esterne, principalmente a quella islamica.
Nonostante la repressione, sia la «Chiesa della pietà» vince finalmente la sua battaglia con il Concilio di Trento e la Riforma cattolica, sia la Riforma protestante si afferma in vaste zone d’Europa. Una teoria sociologica, nota Stark, deve spiegare perché il protestantesimo ha avuto successo in alcune zone dei continente europeo e non in altre. La risposta che propone è che -oltre all’interesse dei sovrani e al tipo di governo – il fattore decisivo è rappresentato dall’assenza di una opposizione popolare cattolica al protestantesimo, opposizione che è tanto più forte quanto più ogni singola area geografica è stata cristianizzata da più antica data e più in profondità.
Così nell’Europa del Nord scandinava, cristianizzata relativamente tardi e più o meno superficialmente, l’opposizione alle scelte protestanti dei re è minima: mentre nell’Europa mediterranea un vigoroso cattolicesimo popolare si oppone – spesso in armi, anche contro le preferenze dei principi – alla protestantizzazione. La seconda parie del volume è dedicata alla nascita della scienza moderna. La scienza nasce, nota Stark, per una serie di concause, in parte legate a fattori economici e allo sviluppo tecnologico. Queste ultime cause tuttavia, secondo il sociologo americano, sono necessarie ma non sono sufficienti.
La scienza nel senso moderno del termine può nascere solo in determinate condizioni religiose: solo una cultura persuasa che il mondo sia stato creato da un Dio personale benevolo, e non capriccioso, le cui leggi sono immutabili, sarà spinta a cercare di scoprire queste leggi.
Così, nonostante un’avanzata tecnologia, la scienza non nasce in Cina, dove manca la nozione di un Dio personale, e si spegne nel mondo islamico quando la teologia prevalente comincia a insegnare che Dio e imprevedibile e non opera tramite leggi costanti, così che «condanna tutti i tentativi di formulare leggi della natura come bestemmie che negano la libertà di azione di Allah»: «Se Dio fa quel che gli piace, e quel che gli piace è sempre variabile, l’universo non opera secondo leggi regolari» (ibid., 154-155).
È un tema, come vedremo, che Stark riprende e sviluppa nel terzo volume della sua trilogia. Naturalmente, l’idea secondo cui il cristianesimo ha generato la scienza moderna appare agli antipodi della vulgata secondo cui questa sarebbe emersa da una lunga lotta contro le pastoie religiose che cercavano di soffocarla.
Questa idea è però, secondo Stark, interamente mitologica e deriva dai già citati pregiudizi anticattolici: in effetti già nelle cosiddette «età oscure» dell’Alto Medioevo «la tecnologia dell’Europa era avanzata ben al di là di quanto si conosceva dell’antichità» (ibid., 133), come il sociologo documenta facendo riferimento a numerosi storici della scienza contemporanei.
Smentendo a uno a uno i miti di una «leggenda nera» sulla presunta lotta del cristianesimo contro la scienza, questi storici hanno tra l’altro dimostrato che la maggioranza dei filosofi cristiani medievali sosteneva che la terra era rotonda, non piatta; che l’anatomia avanzava tramite la dissezione di cadaveri che, con alcune cautele e limitazioni, era permessa dalla Chiesa; che l’ipotesi eliocentrica era stata pacificamente formulata ben prima di Niccolo Copernico (1473-1543); e che semmai Galileo Galilei (1564-1642), ben lungi dall’essere «solo una vittima innocente» di abusi di potere, «mise a rischio sconsideratamente l’intera impresa scientifica» presentando le sue teorie scientifiche come certe anziché come ipotetiche e deducendone conseguenze teologiche: «I suoi guai derivarono dalla sua arroganza e non solo dalle sue idee scientifiche» (ibid., 163-165).
Ugualmente falsa è l’idea secondo cui i grandi scienziati dell’epoca formativa della scienza moderna erano principalmente liberi pensatori scettici, o almeno protestanti anticattolici. Stark costruisce una tabella sulla base di cinquantadue scienziati le cui biografie appaiono in diverse enciclopedie della scienza e che sono stati attivi tra il 1543 e il 1680 (l’epoca d’oro della scienza moderna nascente secondo gli storici specializzali): conta venticinque cattolici, venticinque protestanti e solo due liberi pensatori.
All’obiezione secondo cui gli scienziati dovevano fingersi religiosi per evitare persecuzioni, Stark risponde che lo studio della vita privata dei cinquantadue scienziati mostra che il 61,7% di essi erano «devoti», nel senso che documenti personali quali lettere e diari ne provano una religiosità che andava al di là della semplice pratica «convenzionale» (ibid., 362).
Questo rimane vero anche nel Settecento e nell’Ottocento. Stark racconta la storia davvero poco edificante di come, una volta creato il mito di sir Isaac Newton (1642-1727) come presunto illuminista, l’establishment degli storici inglesi abbia impedito, contro il suo volere esplicito, la pubblicazione postuma delle sue opere sulla religione da cui il grande scienziato emerge come un uomo profondamente religioso (sebbene alquanto eterodosso) e nello stesso tempo interessato all’esoterismo, all’astrologia e all’alchimia.
La pubblicazione di questi scritti è stata possibile solo dopo la Seconda guerra mondiale, grazie al fatto che molti manoscritti di Newton erano stati acquistati dall’economista John Maynard Keynes (1883-1946), grande collezionista dì cimeli newtoniani, che (a prescindeìre dalle sue idee personali) permise finalmente la pubblicazione di molti inediti dello scienziato.
Infine, secondo Stark, che la maggior parte degli scienziati sia religiosa è vero anche oggi. Nella grande inchiesta della Carnegie Commission condotta nel 1969 su un campione straordinariamente elevato (oltre sessantamila docenti universitari) si dichiaravano credenti il sessanta per cento dei matematici, e il cinquantacinque per cento dei fisici, chimici e biologi. Altre indagini hanno confermato questi dati, Se spesso si citano dati diversi è solo – nota Stark – perché ci si dimentica di separare i dati sugli scienziati naturali da quelli relativi agli scienziati sociali (storici, psicologi, antropologo, che sono invece in maggioranza irreligiosi (cfr. ibid., 194).
Infine, all’obiezione secondo cui la Chiesa o almeno i «fondamentalisti» hanno lottato contro l’evoluzionismo, Stark risponde che, al di là dell’immagine letteraria e cinematografica del processo Scopes del 1925 – nel corso del quale gli evoluzionisti si scelsero ad arte i loro oppositori per creare un caso pilota in cui contestare le leggi (peraltro mai veramente applicate) che ostacolavano l’insegnamento dell’evoluzionismo in alcuni Stati degli Stati Uniti -, le cose sono assai più complicate.
Le teorie evoluzioniste furono inizialmente accolte con benevola neutralità dalle denominazioni cristiane, le quali reagirono solo quando l’evoluzionismo fu utilizzato per promuovere l’ateismo e il socialismo: «I primi e più militanti propagandisti del darwinismo costituiscono un vero elenco del telefono del socialismo» (ibid.. 185).
D’altro canto, Stark nota freddamente che i problemi legati alla teoria darwiniana dell’evoluzione «non sono stati risolti dopo oltre 150 anni di sforzi», e che «le aggressive proclamazioni pubbliche delta certezza della teoria da parte dei darwinisti sono state quasi direttamente proporzionali alle loro difficoltà» (ibid., 176).
Nonostante queste difficoltà – che Stark passa brevemente in rassegna -darwinisti militanti come Richard Dawkins scrivono frasi come: «Si può dire con assoluta certezza che, se si incontra qualcuno che afferma di non credere nell’evoluzione, si tratta o di un ignorante o di uno stupido o di un pazzo » (ibid., 177): frasi di grande interesse per il sociologo perché mostrano un atteggiamento di tipo, questo sì, «fondamentalista», che non è però un sostituto per la prova scientifica.
Stark nota pure: «Diversi colleghi mi hanno ammonito che criticare la teoria evoluzionista avrebbe rovinato la mia “carriera”. Questo ha solo reso più forte la mia determinazione di non sopportare più oltre questa arrogante forma di occultismo» (ibid., 394). Venendo a temi che hanno qualche cosa a che fare con l’occultismo vero nomine (ma la parola compare nelle lingue europee solo nel XIX secolo e applicarla a fenomeni precedenti è in qualche modo anacronistico), la terza parte dell’opera di Stark esamina la caccia alle streghe.
Anche in questo caso, il sociologo americano esamina anzitutto la letteratura storica – e, in questo contesto, anche quella divulgativa -, notando che la storiografia più recente ha ridimensionato i «nove milioni di vittime», ancora citati in qualche opera meno scientifica, a una più realistica cifra di «circa sessantamila» (ibid., 202-203), il che non toglie nulla alle tragedie individuali ma mostra con quanta poca accuratezza una letteratura propagandistica ipotizzasse dati e cifre.
In seguito, Stark ribadisce dati comuni nella sociologia delle religioni in merito alla distinzione fra religione (in cui si invoca l’intercessione di Dio) e magia (in cui si pensa di manipolare e mettere al proprio servizio forze soprannaturali o preternaturali). Osserva che la magia è sempre coesistita con la religione e che questa forma di «dissenso» almeno implicito ha in comune con l’eresia l’essere tollerata in epoche «normali» e l’essere perseguitata in epoche di crisi.
Inoltre, la magia occasionalmente «funziona» (se non altro per ragioni statistiche, un incantesimo per la pioggia ha un certo numero di possibilità di «riuscire»), il che richiede a persone abituate a ragionare in modo logico e coerente una spiegazione del perché sia così. In questo senso, la spiegazione demoniaca – per cui la magia funziona grazie all’intervento del demonio – appare secondo Stark non particolarmente illogica nel contesto della teologia medievale.
Il sociologo americano esamina alcune spiegazioni della caccia alle streghe che considera insufficienti, tra le quali l’esistenza di una religione pagana clandestina perseguitata dal cristianesimo come stregoneria (una teoria popolare negli ambienti della neo-stregoneria contemporanea, ma storicamente falsa); la malattia mentale degli accusati (molti dei quali si difendono con un’abilità certamente incompatibile con la schizofrenia); il «ginocidio» (neologismo che vorrebbe indicare un genocidio rivolto contro le donne), di cui la storiografia femminista accusa una cultura maschilista e patriarcale (molti dei condannati erano uomini, e le pene per gli uomini erano semmai più severe di quelle per le donne); il desiderio di impadronirsi dei beni degli accusati (spesso invece poveri); il presunto fanatismo del clero (che molto spesso cercava piuttosto di frenare le campagne contro la stregoneria, che nascevano «dal basso»).
Anche le spiegazioni più popolari fra i sociologi – la costruzione di una solidarietà locale attraverso la designazione di un nemico, e la reazione a periodi di crisi economica o sociale – non spiegano, secondo Stark, perché la caccia alle streghe abbia una sua geografia precisa, si diffonda in alcune aree e non in altre. Il sociologo propone una nuova teoria secondo cui gli caccia alle streghe nascono dalla presenza concomitante di tre fattori: la pratica diffusa della magia (e la sua interpretazione demonologica da parte della teologia dominante), una situazione di conflitto religioso che rende più difficile tollerare il dissenso e la debolezza dell’autorità centrale che non riesce a opporsi con successo alle proposte locali di perseguire le streghe. Ciascuno di questi tre elementi è necessario, ma non è sufficiente.
La presenza della magia popolare nel tardo Medioevo è forte in aree di lingua tedesca come la Svizzera, dove ci sono fra il XIV e il XVI secolo 376,9 imputati di stregoneria per milione di abitanti; ma è forte anche in Italia, dove questo tasso nello stesso periodo scende a 14,4 (ibid., 253). Una prima differenza fra l’Italia e la Svizzera (o l’area di Norimberga, dove il tasso è di 956,5 imputati per milione di abitanti) è la presenza di conflitti armati e di anarchia politica (in seguito, di un forte conflitto tra cattolici e protestanti).
Cruciale è poi la debolezza dell’autorità centrale, politica e religiosa. In effetti, le autorità della Chiesa cattolica si oppongono alla caccia alle streghe, con tanto più successo dove il loro potere è forte e centralizzato: in Spagna il tasso di imputati di stregoneria è di 0,2 per milione di abitanti, il più basso d’Europa.
A proposito della Spagna, Stark riprende da autori come Henry Kamen e Gustav Henningsen (Kamen 1998; Henningsen 1980) il dato secondo cui l’Inquisizione spagnola in effetti impedisce una caccia alle streghe in Spagna, reprimendo duramente non le streghe ma gli aspiranti cacciatori di streghe; una tabella mostra pure come fra il 1540 e il 1700 su 44.701 imputati processati dall’Inquisizione spagnola, 826 (cioè l’1,8%: Stark 2003, 257) siano stati condannati a morte e giustiziati, il che potrebbe mettere a tacere la relativa «leggenda nera» se potenti interessi ideologici non spingessero invece a tenerla in vita.
Di fatto, non sono i liberi pensatori a porre fine alla caccia allo streghe, ma teologi e autori ecclesiastici che a poco a poco aiutano le grandi denominazioni cristiane e gli Stati a riprendere il controllo della situazione nell’epoca di minore conflitto inaugurata nel 1648 dalla Pace di Westfalia.
La quarta parte dell’opera di Stark è consacrata alla schiavitù, un altro campo dove la propaganda anticattolica ha seminalo falsità solo faticosamente smentite dagli storici più recenti. Stark inizia con il riferire che la schiavitù è un dato pressoché universale, diffuso nelle sue versioni più brutali anche in culture unanimemente ammirate per il loro alto livello dì civiltà, come la Grecia e Roma, o per il loro presunto idilliaco rapporto con la natura, come gli indiani dell’attuale America del Nord.
Solo alcune (piccole) comunità nel mondo ebraico antico trovano nella loro religione ragioni di ostilità alla schiavitù, e solo il cristianesimo la abolisce, per quanto sacche di schiavitù rimangano nelle zone di frontiera più lontane dal centro romano della cristianità. Si deve comunque a san Tommaso d’Aquino (1225-1274), nota Stark, la più rigorosa dimostrazione del carattere sempre peccaminoso e illecito della schiavitù, regolarmente citata in numerosi documenti del successivo magistero pontifìcio (ibid., 329-330).
La schiavitù rimane nel frattempo praticata fino al secolo XX (e oltre), dall’islam. Con la conquista del Nuovo Mondo le potenze coloniali iniziano ad acquistare schiavi da mercanti musulmani africani e a importarli nelle Americhe, dopo avere tentato con scarso successo di rendere schiavi gli indiani locali, poco abituati alle fatiche del lavoro agricolo e inclini a morire rapidamente di malattia. La reazione pontificia è durissima: il papa Paolo III (1468-1549) dichiara Satana il padre della schiavitù e ne vieta assolutamente ogni forma di pratica (ibid., 331).
Le condanne pontificie sono continuamente reiterate; si può solo lamentare che non sono osservate. Tuttavia, osserva Stark, la continua pressione della Santa Sede porta almeno all’emanazione nel XVIII secolo di codici sul modo di trattare gli schiavi, come il Code Noir francese e il Código Negro Espanol, che Stark compara utilmente con il coevo Code of Barbados inglese, adottato in tutti i Caraibi britannici.
Le leggi francesi e spagnole dichiarano gli schiavi persone umane con un’anima immortale che devono essere battezzate, catechizzate, fatte sposare con rito cattolico, e non separate dal coniuge o dai figli piccoli; nulla di simile si trova nel Code of Barbados, tutto costruito sull’equiparazione giuridica dello schiavo al capo di bestiame.
Naturalmente, Stark nota che nulla giustifica alcuna forma di schiavitù: tuttavia, è cattiva storia ignorare che mentre il Code of Barbados non parla di giorni di vacanza il Código Negro Espanol, sommando domeniche e feste religiose di ogni genere, garantisce agli schiavi ottantasette giorni di riposo l’anno (ibid., 311). Beninteso, la storiografia più anticattolica si e compiaciuta di notare le frequenti violazioni delle leggi.
Tuttavia le statistiche mostrano, per esempio, che a New Orleans (città a maggioranza cattolica e a lungo sotto amministrazione francese) il 41,7% degli afroamericani nel 1830 erano liberi, non schiavi, il che mostra come gli incentivi del Code Noir all’emancipazione avessero funzionato, contro il solo 3,9% della non troppo lontana città protestante di Nashville, nel Tennessee.
Quanto ai rigori della schiavitù sotto il Code of Barbados, è sufficiente a Stark ricordare che dal 1626 al 1808 (quando diventa illegale importare nuovi schiavi in territorio britannico) entrano negli attuali Stati Uniti circa 400.000 schiavi contro 340.000 nelle piccole Barbados e 750.000 in Giamaica. Questo non significa che negli Stati Uniti ci fossero meno schiavi che nelle isole amministrate dalla Gran Bretagna: il fatto è che la maggioranza degli schiavi americani lo era per nascita, mentre in Giamaica o nelle Barbados il regime (certo accompagnato da condizioni climatiche particolarmente sfavorevoli) era tale per cui la maggioranza degli schiavi moriva prima di procreare, i figli degli schiavi non raggiungevano l’età adulta, ed era quindi necessario importarne continuamente di nuovi (ibid., 318).
Così come è falso che la Chiesa abbia favorito la schiavitù, è falso che siano stati gli illuministi a operare per la sua abolizione. La crema degli illuministi, da John Locke (1632-1704) a Voltaire (1694-1778), da David Hume (1711-1776) a Denis Diderot (1713-1784), «ha pienamente accettato la schiavitù», quando non ha addirittura investito i suoi risparmi nel commercio degli schiavi (ibid., 359).
E stata invece l’autorità ecclesiastica cattolica, insieme a un possente movimento protestante passato dai quaccheri ad altre denominazioni, a far trionfare la causa abolizionista in tutto il mondo cristiano (non in quello islamico). L’idea marxista secondo cui le ragioni religiose dell’abolizionismo mascheravano bassi interessi economiciè fondata su calcoli dell’economista Adam Smith (1723- 1790) – paradossalmente una bestia nera dei marxisti – secondo cui il lavoro di uomini liberi pagali adeguatamente poco sarebbe stato in realtà più a buon mercato di quello degli schiavi, calcoli considerati oggi unanimemente sbagliati dagli storici dell’economia.
No: «La schiavitù non morì della sua stessa inefficienza, e l’emancipazione non fu un complotto capitalista»; l’abolizione della schiavitù ebbe cause anzitutto religiose e fu «uno di quegli straordinari episodi di fede che hanno dato forma alla civiltà occidentale» (ibid., 365).
Massimo Introvigne Il dramma dell’Europa senza Cristo. Il relativismo europeo nello scontro delle civiltà Sugarco Edizioni pag. 190