La nascita delle Nazioni Unite, le cause della loro inerzia in occasione delle crisi internazionali e come esse conducono la loro azione “umanitaria”, anche attraverso le proprie agenzie, in sostanziale disprezzo dei diritti umani da loro stesse solennemente sanciti
di Agostino Carloni
Nel 2005 cadono due importanti anniversari: il sessantesimo della costituzione dell’ONU, l’Organizzazione delle Nazioni Unite, e il cinquantesimo dell’ingresso nella stessa dell’Italia. Si tratta di ricorrenze che offrono l’opportunità per una riflessione sull’operato dell’ONU e delle sue agenzie specializzate. Il bilancio che si può tracciare sulla base dei fatti noti e accertati non lascia dubbi: le Nazioni Unite hanno fallito la propria missione.
L’ONU nasce sulle ceneri della Società delle Nazioni, costituita nel 1919 – e sciolta formalmente nel 1946 – all’indomani della Prima Guerra Mondiale (1914-1918) con lo scopo di conservare la pace internazionale dopo l’inutile carneficina fratricida (1). Lo storico francese naturalizzato statunitense René Abrecht-Carrié (1904-?) ricorda, nella sua Storia diplomatica d’Europa. 1815-1968, che la «[…] Società poteva intraprendere qualsiasi azione ritenesse consigliabile (art.11), ma per così dire, non aveva denti» (2).
Gli esiti della debolezza strutturale della SdN sono noti, alla Prima seguì la Seconda Guerra Mondiale (1939-1945), entrambe definibili come guerre civili europee «[…] che hanno tentato e sono ampiamente riuscite, a interessare grosso modo il mondo tutto, sia come spazio che – ecco un secondo significato di “mondiale” – come partecipazione umana» (3).
La Conferenza di San Francisco – preparata dalla Carta Atlantica, concordata dal presidente degli Stati Uniti Franklin Delano Roosevelt (1882-1945) e dal primo ministro britannico Winston Churchill (1874- 1965) nell’agosto del 1941, dalla Declaration by the United Nations firmata dal fronte anti-Asse nel 1942 e dalla Conferenza di Dumbarton Oaks, a Washington, nell’autunno del 1944 – inizia i propri lavori il 25 aprile del 1945 per concluderli il 26 giugno quando viene definita la nuova Carta delle Nazioni Unite. Questa entra formalmente in vigore quattro mesi dopo, il 24 ottobre, ancor oggi giorno dedicato alle Nazioni Unite (4).
Il Regno d’Italia, potenza sconfitta, e quindi sotto osservazione, entra a farne parte come membro di pieno diritto solo dieci anni dopo, quando è Repubblica Italiana. Si tratta di un’attesa che contribuisce alla nascita nel paese del mito dell’ONU (5).
L’articolo 1 della Carta delle Nazioni Unite fissa fini e principi dell’ONU. Essi «[…] possono essere così riassunti:
– rispetto dei diritti dell’uomo, della dignità della persona umana, e dei principi di eguaglianza e di non discriminazione;
– impegno ad adempiere in buona fede gli obblighi assunti in conformità alla Carta di San Francisco e a prestare la necessaria assistenza alle Nazioni Unite;
– divieto di interferenza negli affari interni di uno Stato;
– obbligo di soluzione delle controversie con mezzi pacifici;
– divieto di ricorrere alla forza, o di minacciarne il ricorso, nelle relazioni internazionali, sia contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato, sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite» (6).
2. Inerzia politica dell’ONU nelle principali crisi mondiali
L’elencazione di tali finalità appare talmente generica da far esprimere così l’internazionalista Benedetto Conforti: «Una analisi dettagliata dei fini dell’Onu non potrebbe che essere sterile, data la loro indeterminatezza. […] È più facile individuare le materie di cui l’Organizzazione non può occuparsi che quelle oggetto delle sue competenze» (7). E appunto «[…] rilievo fondamentale a tal riguardo assume la norma dell’art. 2, par. 7 della carta, in base alla quale le Nazioni Unite non devono intervenire in questioni “che appartengono essenzialmente alla competenza interna di uno Stato”» (8).
In realtà, il fallimento dell’ONU sta nella sua stessa struttura che vede l’Assemblea Generale rispettare il principio, utopico, dell’eguaglianza giuridica e politica degli Stati membri, che fa sì che il voto degli Stati Uniti d’America conti quanto quello di qualsiasi altro Stato, a prescindere dalla dimensione territoriale e dal peso politico, economico o demografico: «Dei due organi di governo, invece, il Consiglio di Sicurezza si fonda sul principio orwelliano che le cinque potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale [Stati Uniti d’America, Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord, Repubblica Francese, URSS e Repubblica Popolare Cinese] – le sole chiamate a decidere con effetti operativi – sono “più eguali” delle altre» (9).
Con un limite non da poco: la necessità di deliberare all’unanimità, «[…] e siccome sono sempre state radicalmente divise su natura e fini di uomo, società e storia […] l’unanimità non l’hanno mai raggiunta» (10) sino al crollo dell’Unione Sovietica. Lo stesso problema si presenta a proposito del secondo organo esecutivo delle Nazioni Unite, il Segretario Generale, che, eletto dall’Assemblea Generale, non può imporsi ai cinque grandi. «Il risultato è dunque quella paralisi che dura dal 27 giugno 1945» (11).
Così, «[…] l’Onu nacque già bell’e morta» (12).
Il giornalista Christian Rocca analizza Il fallimento delle Nazioni Unite e la formidabile idea di un’alleanza tra le democrazie (13) attraverso i fatti che ne hanno caratterizzato la storia, a partire dal congelamento causato dalla Guerra Fredda (1945-1989) che le ha fatto «[…] perdere ogni funzione vitale» (14).
«L’elenco dell’irrilevanza e dei disastri dell’Onu è – secondo Rocca- lungo, quasi infinito» (15). Inizia nel 1948, quando l’ONU non difende la propria risoluzione sullo Stato di Israele e su Gerusalemme, arrivando nel 1970 a riconoscere de facto il terrorismo con la risoluzione n. 2708 del 1970 che autorizza, in materia di autodeterminazione dei popoli, a combattere con «ogni mezzo necessario a disposizione» (16). Si tratta di un input fatto proprio dalle organizzazioni terroristiche palestinesi con gli attentati che insanguinano quelle terre da più di trent’anni.
Quando la Repubblica Democratica Popolare di Corea o Corea del Nord invade nel 1950 la Repubblica di Corea o Corea del Sud l’unico contributo dell’ONU è quello di porre una bandierina sui mezzi USA intervenuti a difesa della libertà. «L’Onu non ha mosso un dito quando l’Unione Sovietica si è presa prima l’Ungheria, poi la Cecoslovacchia e infine l’Afghanistan. Nel 1956, subito dopo il silenziamento dell’ultima richiesta d’aiuto via radio da Budapest, l’Onu se la cavò con un documento che invitava il Segretario Generale a “indagare sulla situazione in Ungheria causata da un intervento straniero”» (17).
La situazione non muta con il passare dei decenni. Quando il Consiglio di Sicurezza delibera a favore di un intervento nel 1991 in Kuwait e nel 1994 a Haiti si limita ad autorizzare gli Stati Uniti d’America a muovere le proprie forze. A fare cioè il lavoro di mobilitazione che spetterebbe all’ONU.
Rocca ricorda anche che, se l’Occidente vive cinquant’anni di relativa tranquillità, seppure in stato di guerra fredda, lo si deve alla NATO – la North Atlantic Treaty Organisation, l’Organizzazione del Patto dell’Atlantico Settentrionale – e agli Stati Uniti d’America. Nei casi di crisi internazionale, nei quali l’una e gli altri non sono intervenuti, il sangue scorre sotto gli occhi delle Nazioni Unite. Così avviene in Bosnia nel luglio del 1995, quando gli ufficiali ONU invitano i bosniaci a raggrupparsi in alcune città, fra cui Srebenica, per difenderli meglio. Il risultato è il massacro, proprio a Srebenica, di settemila bosniaci a opera delle milizie serbe guidate dal generale Ratko Mladic.
Il comportamento dei caschi blu olandesi sotto comando francese durante il conflitto è splendidamente descritto nel film No man’s land, girato dal regista bosniaco Danis Tanovic (18) e premiato con l’Oscar nel 2002 come miglior film straniero. Ai soldati della forza di pace dell’UNPROFOR, la United Nations Protection Force, che si muovono contro le direttive dei propri superiori per salvare tre militi – due bosniaci e un serbo – bloccati in una trincea non controllata da nessuna delle due forze – appunto una no man’s land, una «terra di nessuno» -, una reporter statunitense accorsa sul posto chiede perché lo abbiano fatto.
La risposta del casco blu è: «Perché sono stufo di non fare niente». E poi, alla provocazione della giornalista che dichiara «Credevo foste neutrali», il sottufficiale risponde: «È in corso un massacro e non fare nulla per fermarlo è già una scelta». Il film si chiude con l’intervento dei superiori del casco blu che ordinano l’allontanamento immediato della stampa e l’abbandono al proprio destino di morte dell’unico superstite.
La stessa colpevole scelta di non intervento da parte dei burocrati dell’ONU si registra in Ruanda nel 1994, quando il generale canadese Romeo Dallaire, comandante del contingente dell’ONU nel paese, informa via fax l’allora responsabile delle operazioni di peacekeeping -oggi segretario generale delle Nazioni Unite -, il ghanese Kofi Annan, del rischio di massacro dei tutsi per mano degli hutu. Dallaire avverte che gli hutu potrebbero uccidere mille persone in venti minuti. Kofi Annan in risposta al fax, passato alla storia come il fax del genocidio, impone a Dallaire di non intervenire per «[…] non andare oltre il mandato dell’Onu» (19).
Si tratta di una decisione di coerenza formale al mandato costata la vita a ottocentomila persone in venti giorni (20).
Infine, per avere un’immagine istantanea dell’inettitudine delle Nazioni Unite a garantire la pace e la sicurezza nel mondo può essere utile soffermarsi sulla cartina che apre il piccolo volume dell’Istituto Geografico De Agostini sulla situazione dei conflitti e delle aree di crisi nel mondo (21). Il planisfero è per una buona metà interessato da conflitti noti e meno noti, ivi compreso naturalmente quello scatenato dal terrorismo islamico, che si configura come una vera e propria quarta guerra mondiale (22).
Rocca ricorda anche l’esclusione nel 2002 degli Stati Uniti d’America dalla Commissione dei Diritti Umani delle Nazioni Unite, grazie a un’alleanza fra regimi dispotici e Stati europei contrari alla politica del presidente degli Stati Uniti d’America George Walker Bush. La Commissione conta oggi 53 membri fra i quali la Repubblica del Sudan, entrata a farne parte nel 2004, il Regno dell’Arabia Saudita, la Repubblica di Cuba e la Repubblica dello Zimbabwe che decidono «[…] quali violazioni dei diritti condannare» (23). Sulla capacità di giudizio della Commissione basti qui ricordare che né la Repubblica Popolare Cinese, né il Regno dell’Arabia Saudita sono mai stati criticati od oggetto di sanzioni per aver violato i diritti umani (24).
Eppure, per avere un’idea di quanto succede in questi due Stati, così come nella Repubblica del Sudan e nella Repubblica dello Zimbabwe, sotto il solo profilo del rispetto del diritto di praticare la propria fede senza persecuzioni, è sufficiente scorrere, anche distratta mente, il Rapporto sulla libertà religiosa, curato dall’Aiuto alla Chiesa che Soffre (25).
3. Ruolo sovversivo dell’attività «umanitaria» dell’ONU e delle sue agenzie
L’opera di Rocca – che è ricca pure di dettagli sugli scandali collegati all’operazione Oil for food nella Repubblica dell’Iraq e alle violenze sessuali operate dai caschi blu impegnati in operazioni di peacekeeping – presenta un limite quando l’analisi passa dall’azione delle Nazioni Unite in campo politico a quella delle sue agenzie specializzate.
In esordio, infatti, Rocca sostiene che «le Nazioni Unite andrebbero salutate, poi chiuse e infine sostituite con qualcosa di diverso, magari con un’alleanza delle democrazie […]. Non va cestinato tutto, ovviamente. Ci sono agenzie, fondi e programmi umanitari che funzionano. Non tutti e non sempre, ma vanno rafforzati, sostenuti, finanziati e soprattutto meglio gestiti» (26). Il concetto è poi meglio ripreso e approfondito nel capitolo Le agenzie che funzionano e quelle che no (27), nel quale si legge che «ci sono l’Alto Commissariato per i rifugiati, il World Food Program (programma mondiale per l’alimentazione) e l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) e altri enti che forniscono aiuti e assistenza contro la povertà, l’Aids, la Sars, la polio ecc» (28).
Una tesi che è propria di Joshua Muravchik – esperto di politica internazionale e figura emblematica del neoconservatorismo statunitense -, il quale la espone nell’opera The Future of the United Nations: Understanding the Past to Chart a Way Forward (29). La proposta di Muravchik è semplice: chiudere Consiglio di Sicurezza e Assemblea Generale delle Nazioni Unite, ossia il «ramo politico», e lasciare in vita le agenzie che svolgono un ruolo utile, anzi necessario, in campo appunto umanitario. Ora, mentre la prima parte della proposta trova conferme nei fatti esposti e noti, la seconda lascia perplessi. Anzi un’analisi attenta dell’attività svolta dalle agenzie specializzate delle Nazioni Unite spingerebbe a chiederne l’immediata e contemporanea chiusura insieme agli organismi politici (30).
E questo perché non solo assorbono gran parte del budget dell’ONU, ma anche e, soprattutto, perché svolgono le loro attività umanitarie con un’impostazione ideologica lontana da ogni rispetto dei diritti naturali e, a ogni buon conto, lontana anche dai principi che animano la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo delle Nazioni Unite del 1948 (31).
La realtà sull’impegno in favore delle aree disagiate del mondo viene proposta in due studi (32) prodotti da fonti diverse, quella chiaramente cattolica di monsignor Michel Schooyans, membro dell’Accademia Pontificia delle Scienze Sociali, professore emerito dell’università di Lovanio, in Belgio, e autore di una ventina di opere di fama internazionale, e quella «neofemminista» di Eugenia Roccella – giornalista e, negli anni 1970, leader del Movimento di Liberazione della Donna – e di Lucetta Scaraffia, docente di Storia Contemporanea all’Università di Roma La Sapienza.
Le due opere procedono, entro certi limiti, in parallelo affrontando il tema dell’ONU, della sua azione di diffusione dei «nuovi diritti» e dell’odio che sembra muoverne i passi contro la Chiesa Cattolica. Sembra opportuno nel seguito articolare il discorso lasciandosi guidare più dall’opera di Roccella e Scaraffia che da quella di monsignor Schooyans sia perché più recente – e quindi più aggiornata -, sia per l’impossibilità di considerarla pregiudizialmente favorevole alla Chiesa Cattolica e contraria all’ONU. Va aggiunto anche che l’opera di Roccella e Scaraffia ha scatenato nell’area laicista fortissime reazioni (33).
Scaraffia, nella parte prima dedicata a I diritti dell’uomo: realtà e utopia (34), nota che la critica femminista «[…] aveva denunciato come i naturali “fruitori” dei diritti dell’uomo fossero solo gli uomini, perché le violazioni di cui le donne erano vittime, essendo private, non erano quasi mai prese in considerazione sul piano giuridico. […] Era necessario quindi dedicare alle donne un’attenzione particolare, e questa richiesta ha cominciato a prender forma organizzata a partire dal 1975, dichiarato dall’Onu anno internazionale delle donne» (35).
In realtà, la campagna antinatalista inizia nei primi anni 1950 (36) con finanziamenti e risorse notevolissime. Negli anni 1970 poi, una volta preparato adeguatamente il terreno, le tesi delle organizzazioni antinataliste – prima fra tutte l’IPPF, l’International Planned Parenthood Federation, Federazione Internazionale per la Pianificazione Familiare (37) – trovano ampia udienza e accoglienza presso le Nazioni Unite e le sue agenzie specializzate. Così il pensiero socialcomunista e femminista radicale, secondo il quale la famiglia è il «[…] luogo della riproduzione e di produzione del lavoro femminile non salariato, quindi il luogo dove ha origine l’oppressione della donna» (38) diviene Leitmotiv e linea guida dell’azione internazionale delle Nazioni Unite.
Scaraffia analizza lucidamente in questo contesto la posizione della Chiesa Cattolica, che dovrebbe in tesi essere considerata dall’ONU fra i principali alleati nella tutela dei diritti dell’uomo. Così non è per divergenze – di fatto inconciliabili – sui temi della libertà religiosa e dei cosiddetti diritti riproduttivi. Infatti la Santa Sede – rappresentata dalla Stato della Città del Vaticano – è da sempre «Stato non membro con lo status di osservatore permanente» (39).
Tale status, che non prevede il diritto di voto, consente la partecipazione a importanti convenzioni internazionali e ai lavori di numerose agenzie specializzate. Proprio in tali sedi la Santa Sede ha contrastato la concezione fortemente antinatalista e contraria ai diritti naturali dell’uomo avviata dalle Nazioni Unite con l’appoggio di potenti organizzazioni non governative nel settore umanitario.
La reazione non si fa attendere (40) e nel corso degli ultimi decenni essa è attaccata in maniera sempre più forte sino al tentativo di estrometterla dall’ONU partito nel 1999 con una campagna internazionale all’insegna See ch’ange – slogan che gioca sulla denominazione inglese della Santa Sede, Holy See – condotta dall’Associazione Catholics for a Free Choice.
Si tratta di un’associazione, impegnata a partire dal 1973 nella battaglia abortista, che può contare su un bilancio annuo «[…] di due milioni di dollari, ottenuto soprattutto dalla Ford Foundation e dalla Packard Foundation, interessate alle campagne antidemografiche nell’America latina» (41). Monsignor Schooyans non esita a definirla «[…] una ONG violentemente anticristiana dalle svariate ramificazioni che sfruttano in maniera ingannevole il riferimento al cattolicesimo per adescare le anime semplici o che tali vogliono apparire» (42).
La campagna però, per quanto bene orchestrata, non ha il seguito sperato. Infatti, nel 2004 l’Assemblea Generale adotta all’unanimità una risoluzione che conferma e rafforza, riconoscendole il diritto a una più attiva partecipazione ai lavori dell’Assemblea, lo status di Osservatore Permanente per la Santa Sede.
I punti di maggiore contrasto fra Chiesa Cattolica e ONU stanno quindi nel concetto di tolleranza da una parte e nei cosiddetti diritti riproduttivi dall’altra. Per quanto concerne il concetto di tolleranza monsignor Schooyans nota che «[…] il laicismo si presenta come il custode della tolleranza, di una tolleranza insidiosa tuttavia […]. In realtà ciò che questo atteggiamento ideologico si propone in nome di detta tolleranza è di soffocare la voce della Chiesa con il pretesto della sua “intolleranza”, e ciò perché essa annuncia un messaggio veritiero ed accetta di aprirsi alla Rivelazione di Dio nel tempo» (43). In definitiva, la tolleranza così definita diviene «”religione civile”, sistema di pensiero unico» (44).
Scaraffia, da parte sua, rileva come «più volte nei documenti ufficiali è ribadito […] che chi considera vera la propria religione a discapito delle altre è colpevole di fanatismo, e ricade quindi in quello che viene considerato “odio religioso” anche se il suo atteggiamento non contempla il ricorso alla discriminazione e alla violenza. La religione più penalizzata a causa di questi provvedimenti è quella cristiana, e in particolare la Chiesa cattolica, data la sua tradizione missionaria» (45).
Nel 2003, l’allora responsabile della politica internazionale della Santa Sede, l’arcivescovo Jean Louis Tauran, dichiara: «È un mondo [quello dell’ONU] che talora fa della tolleranza la sua bandiera laica e che rifiuta a volte i valori della cultura cristiana in nome della asserita parità di ogni convinzione» (46). Si tratta di una posizione che spinge l’ONU a essere molto ben disposta verso tutte le organizzazioni interreligiose, in particolare verso quelle che puntano alla creazione di una nuova religione mondiale che sostituisca tutte le altre (47).
Fra queste sia monsignor Schooyans sia la Scaraffia citano la URI, la United Religions Iniziative, che fa parte del Comitato, istituito nel 1994, chiamato a stendere la Carta della Terra, considerata come Gaia, nuova dea di un «[…] paganesimo intinto di New Age, che si preoccupa soprattutto d’impedire la crescita della popolazione umana sulla terra» (48).
Roccella, nella seconda parte dell’opera, intitolata Non crescete, non moltiplicatevi (49), sviluppa in particolare la genesi dei diritti riproduttivi e le conseguenze nefaste della loro diffusione nelle aree più disagiate del mondo. Il passaggio più significativo si ha alla Conferenza di Pechino del 1995, nella quale i cosiddetti diritti riproduttivi trovano una compiuta definizione.
Si tratta di una definizione che «[…] riflette clamorosamente la filosofia pianificatrice che l’ha generata. Dopo aver insistito in linea di principio sul diritto delle coppie e dei singoli a stabilire se e quando avere figli […] l’ultimo paragrafo pone le condizioni per rovesciare tutto quello che si è affermato in precedenza» (50). Infatti, nei documenti finali della Conferenza si legge «Nell’esercizio di questo diritto essi [i singoli e le coppie] dovranno tenere conto dei bisogni dei loro attuali e futuri figli, e delle proprie responsabilità nei confronti della comunità. La promozione dell’esercizio responsabile di questi diritti sarà la base fondamentale delle politiche e dei programmi sostenuti dalle comunità e dai governi nell’ambito della salute riproduttiva, includendo la pianificazione familiare» (51).
Ora, per capire come le cose funzionino e come l’ONU sostenga i nuovi diritti riproduttivi, Roccella descrive il caso cinese. Nel 1979 nella Repubblica Popolare Cinese viene introdotto il divieto di avere più di un figlio. Per sposarsi e per avere figli è necessaria l’autorizzazione dello Stato e quindi del partito comunista. Le donne in attesa di un secondo figlio sono costrette ad abortire.
Le sanzioni, poi, per chi contravviene sono pesantissime: i figli vengono sottratti ai genitori e chiusi in orfanotrofi simili a campi di concentramento e con la medesima percentuale di sopravvivenza. La coppia che ha tradito la Rivoluzione viene isolata e la loro casa distrutta. Si registrano anche casi di uccisione del neonato. Così, grazie al terrore, «la disobbedienza procreativa» (52) viene ridotta quasi a zero.
La Repubblica Popolare Cinese vince la sua battaglia contro la sovrappopolazione, merita quindi l’appoggio dell’UNFPA, l’United Nations Fund for Population Activities, oggi United Nations for Population Fund, che per anni finge di non sapere e di non riconoscere quanto le associazioni per la tutela dei diritti umani – ovviamente non onusiane – denunciano. Anzi, «secondo un rapporto pubblicato nel 1990 dall’American Enterprise Institute, una nota dell’UNFPA per l’USAID (l’agenzia americana per lo sviluppo, che è la maggiore fonte di finanziamento per l’UNFPA) sosteneva che la politica cinese del figlio unico si basava sull’assenso volontario, e che nessuna forma di coercizione era tollerata » (53).
L’allora direttrice dell’UNFPA, la pachistana Nafis Sadik, nel 1991 arriva a dichiarare che la sua organizzazione avrebbe propagato l’esperienza cinese in materia di pianificazione (54).
Per comprendere ancora meglio le caratteristiche dell’attività «umanitaria» dell’ONU è senz’altro opportuno affrontare la questione delle sterilizzazioni di massa, operate su donne inconsapevoli, senza i necessari standard igienico-sanitari e, soprattutto, senza spiegare adeguatamente che cosa quell’intervento avrebbe significato per la loro vita futura.
Roccella nota che «la mortalità varia a seconda del luogo in cui l’operazione viene effettuata: negli Stati Uniti muore una donna su 70.000, ma in paesi come India o Bangladesh […] si può immaginare molto più alta […]. Nonostante i rischi, però, alle donne la cosa viene presentata come una piccola operazione di routine, semplice e veloce: la Planned Parenthood, per esempio, la definisce “Band Aid surgery”, chirurgia da cerotto, benché richieda un buon grado di competenza da parte del chirurgo» (55).
In particolare, «il Bangladesh è forse l’esempio che meglio illustra come la convergenza delle organizzazioni internazionali sui programmi nazionali di pianificazione demografica, e l’insistenza sul raggiungimento, in pochi anni, di alte percentuali di decremento abbia creato situazioni mostruose, un crescendo di accanimento antinatalista che si traduce in accanimento sul corpo delle donne più indifese» (56).
Elemento altrettanto importante per comprendere le vere finalità della politica di pianificazione dell’ONU è la sua «moderata» capacità di tutelare la maternità. Roccella nota come vi sia «[…] una sproporzione evidente, nelle politiche internazionali sulla salute riproduttiva, tra l’intensità dell’intervento per il controllo delle nascite, e quello per la tutela della maternità. Mentre ormai in tutto il mondo il tasso di fertilità continua a scendere, quello di mortalità da parto rimane sostanzialmente invariato» (57), fermo cioè a circa 529.000 donne morte l’anno, che potrebbero magari continuare a vivere con il loro bambino se i funzionari dell’ONU non fossero variamente occupati a far abbassare il numero di nascite nel mondo.
Le righe conclusive dello scritto di Roccella dimostrano come certe battaglie a tutela dei più elementari diritti naturali possano accomunare, se non totalmente almeno in buona parte, cattolici e «atei devoti» o femministe storiche. Persone che sono state «colpite dalla realtà» e che, abbandonate le lenti deformanti delle ideologie, l’hanno scrutata scoprendovi quelle verità che ogni uomo cerca nella propria vita.
Roccella scrive appunto: «Nella retorica della libera scelta sta per confluire tutto il nuovo mercato della procreazione, attraverso il quale si arriverà alla distruzione del senso stesso della maternità e dell’essere donna. «Se questo scenario desolato non si realizzerà, sarà in gran parte grazie alla resistenza del Vaticano, alla capacità di reggere alle pressioni internazionali e di mantenere il proprio radicale rifiuto di fronte a tutte le forme di manipolazione della maternità e dell’identità sessuale. L’immagine che si vuole diffondere, della Chiesa come “grande nemica” delle donne, andrebbe rivista, e forse andrebbe rovesciata in quella di una preziosa e fedele alleata» (58).
Forse l’ONU e le sue agenzie non chiuderanno a breve i propri battenti, ma è certo che segnali nuovi di speranza per un futuro meno aperto alla cultura della morte si percepiscono, negli Stati Uniti d’America, ma anche, grazie a Dio, in Italia.
Note
(1) Cfr. PAPA BENEDETTO XV (1914-1922), Lettera enciclica «Ad beatissimi Apostolorum Principis». Programma del pontificato, dell’1- 11-1914, in Enchiridion delle Encicliche, ed. bilingue, vol. 4, Pio X. Benedetto XV. (1903-1922), EDB. Edizioni Dehoniane Bologna, Bologna 1998, pp. 462-495, soprattutto pp. 466-467; e IDEM, Lettera «Dès le début» ai Capi dei popoli belligeranti, dell’1-7-1917, ibid., pp. 970-977.
(34) Cfr. L. SCARAFFIA, I diritti dell’uomo: realtà e utopia, in E. ROCCELLA e L. SCARAFFIA, op. cit., pp. 31-88.