L’Occidentale, 25 Febbraio 2008
di Giovanni Formicola
È davvero irritante sentire il presidente del PD – in compagnia cantante di qualche attardato e tardo corifeo – dichiarare soddisfatto, sfoggiando il solito sorriso sdentato ed un po’ ebete, che il suo governo «lascia una bella eredità», perché «ha risanato i conti pubblici».
È irritante com’è irritante ogni menzogna sfacciata ed impudente. Con sicumera tipica dei mentitori di professione, si evocano pretesi «dati oggettivi», che anche uno studioso qualificato ed intellettualmente onesto come il professor Luca Ricolfi ha radicalmente messo in dubbio.
Così come a suo tempo aveva riconosciuto con la stessa onestà l’esistenza del «buco» di bilancio lasciato in eredità dal centrosinistra edizione ’96-2001 al governo Berlusconi, e come aveva riconosciuto che questi aveva rispettato in larga parte il contratto con gl’italiani da lui solennemente sottoscritto.
E tutti sanno che il prof. Ricolfi, oltre ad essere uno stimato analista dei processi sociali ed economici, è un uomo dichiaratamente di sinistra ed orgoglioso di esserlo. Il tanto vantato «risanamento» dei conti pubblici, anche per il citato accademico, è in realtà il risultato della furbesca combinazione di qualche volgare «trucco» contabile (sopravvalutazione del dato del deficit di partenza e contabilizzazione differita di uscite, che peseranno sul prossimo governo), con gli effetti virtuosi dell’ultima finanziaria del governo Berlusconi e di un’oggettiva congiuntura economica favorevole, mentre il ricupero dell’evasione è solo un gran bluff mediatico, mancando ogni seria verifica delle cifre sbandierate.
Tanto che il peggior ministro dell’economia della storia ha dovuto ammettere che il famoso (rectius, famigerato) e sbandierato «tesoretto» in realtà non esiste.
Ma c’è qualcosa di più irritante della menzogna recitata con disinvoltura. È la celebrazione – ideologicamente perversa o semplicemente idiota, non si sa; ma secondo Voegelin l’homo ideologicus è inevitabilmente sia farabutto che stupido – della catastrofe. È come se – servata distantia – Hitler prima di congedarsi si fosse ascritto il merito di aver lasciato in eredità all’Europa, minacciata dalla temuta sovrappopolazione, il risanamento demografico.
Infatti, il vantato «riequilibrio dei conti pubblici», seppure fosse reale, sarebbe stato ottenuto talmente contro quelli privati e delle famiglie da costituire un’autentica catastrofe, e non solo economica.
Con il pretesto del bilancio da riequilibrare, il governo, in odio alla classe produttiva, alla proprietà ed al profitto, ha agito – come lo stesso presidente del PD fece una decina d’anni fa «per entrare in Europa» – sul versante delle entrate, incrementandole mediante l’aumento della pressione e della vessazione (travestita da «lotta all’evasione», di cui per ragioni di spazio mi occuperò in un prossimo articolo) fiscali contro le famiglie, contro chi lavora e contro le imprese.
Ma se le entrate aumentano non per effetto dell’aumento del reddito prodotto, ma in misura più che proporzionale a questo, allora, e va detto senza timori ed ossequi statalistici, questo è male. Un male che deprime risparmio, consumi, quindi la produzione, e cioè l’economia.
Ma, quel che è peggio, deprime e riduce anche e soprattutto la libertà. E non solo la naturale libertà di godere dei frutti del proprio lavoro, di spenderli o risparmiarli secondo il proprio autonomo giudizio. Non solo la libertà è minacciata perché l’aumento della pretesa fiscale rende eroico l’adempimento spontaneo, ed impone un’intensificazione di coazione e controlli da parte dell’apparato di polizia e sorveglianza fiscali.
Quella che viene erosa è specialmente la base materiale della libertà, senza la quale essa è solo un’astrazione, una pura petizione di principio. Non posso dimenticare – sebbene non abbia alcuna intenzione di evocare scenari anacronistici – la nota frase di Trotzsky, secondo la quale dove alla proprietà privata è sostituita quella pubblica, al vecchio principio «chi non lavora non mangia», va sostituito il nuovo «chi non obbedisce non mangia».
E quindi ogni riduzione della proprietà e del diritto di disporne è una riduzione della libertà. Se la tassazione raggiunge il cinquanta, il sessanta per cento ed oltre di quanto prodotto, vuol dire che si lavora forzosamente per la collettività per sei mesi e più all’anno. E se la spesa pubblica raggiunge e supera il cinquanta per cento del reddito nazionale, vuol dire che la società è espropriata per una percentuale corrispondente delle sue risorse e della sua libertà. È questa la vera eredità del governo del professore.
È innegabile che è giusto e doveroso offrire alla collettività parte delle proprie ricchezze, del proprio tempo e della propria libertà. Ma se la pretesa fiscale raggiunge i livelli sopra indicati, e soprattutto è mal distribuita, allora la giustizia è violata, la libertà è limitata, l’economia crolla.
È questa la catastrofe di cui si vanta il presidente del PD.
E se pure fosse servita a «risanare i conti pubblici», sarebbe stata comunque un prezzo troppo alto da pagare.
Naturalmente, poiché le spese sono aumentate in misura almeno proporzionale all’incremento delle entrate, abbiamo avuto solo la catastrofe senza ombra di risanamento.
E lo dimostrano i dati relativi ai fondamentali dell’economia: il PIL, i consumi, la produzione industriale, il risparmio sono tutti in calo. Solo l’inflazione è in aumento. E non poteva andare altrimenti. Non occorreva avere occhio troppo lungo e grande competenza economica per temere il peggio mentre venivano trionfalisticamente annunciati gli straordinari incrementi delle pubbliche entrate, che non dipendevano, come si è detto, dalla crescita del PIL.
Il danaro così ulteriormente «sottratto» a chi lo guadagna lecitamente, anziché sostenere il ciclo economico, è finito nel buco nero delle finanze pubbliche, risucchiato da sprechi e inefficienza. In questo modo esso non alimenta, non «fertilizza» il tessuto sociale, ma lo atrofizza.
Ed anche quel poco che residua dalla spesa improduttiva e viene destinato alla redistribuzione – secondo una logica più da allevamento umano che da governo di una comunità di persone libere e responsabili, messe in condizione di provvedere da sé a sé stesse – genera inflazione. I prezzi, infatti, sono condizionati da tanti fattori, ma risultano anche dal quoziente del rapporto tra massa monetaria circolante e prodotti o servizi.
L’aumento del numeratore (danaro circolante), senza che aumenti il denominatore (prodotti e servizi) di questo rapporto, cioè se il governo pretende di distribuire danaro sottraendolo all’economia reale senza che vi sia un corrispondente aumento di produzione o erogazione di servizi, comporta un ovvio aumento del quoziente, cioè dei prezzi.
Questo è il costo del (falso) «risanamento» di cui si vantano il presidente del PD ed i suoi seguaci. È un’eredità che purtroppo non consente beneficio d’inventario, e peserà non poco sul prossimo governo. Quanto sono costati agl’italiani quei ventiquattromila voti di differenza e l’ultimo colpo di coda del comunismo nazionale, sotto la bandiera del «tassa (perseguita) e spendi»! Siamo tutti più poveri, ma soprattutto meno liberi, neppure liberi di pagare o farci pagare come preferiamo…
P.S. Avevo già scritto queste righe, quando anche il commissario «amico» (del professore e della famiglia del socialismo europeo) Almunia ha dovuto riconoscere che l’economia italiana frena, anzi è ferma, e l’inflazione galoppa. Come volevasi dimostrare. Questa è l’eredità del presidente del PD. Tanto bella quanto è stato serio il suo governo.
(A.C. Valdera)