di Evandro Agazzi
Il paradosso del nostro Risorgimento consiste nel fatto che l’unità nazionale si è realizzata secondo un modello molto diverso, e quasi antitetico, rispetto a quello che avevano teorizzato nei secoli i pensatori che si erano più direttamente occupati del problema di come garantire all’Italia unità e indipendenza dallo straniero.
Il raggiungimento dell’unità appariva quindi come la condizione necessaria per conquistare l’indipendenza e (come abbiamo già spiegato nel terzo editoriale di questa annata) i due maggiori pensatori politici del Rinascimento sostennero tesi opposte circa il modo per realizzare la suddetta precondizione.
Machiavelli auspicava che un forte condottiero del tipo del suo “Principe” potesse farsi carico vittoriosamente di questa impresa. Guicciardini invece (che accusava il Machiavelli di “utopia”) riteneva tale progetto non solo irrealizzabile, ma neppure auspicabile, e ciò per una più acuta consapevolezza delle condizioni storiche del suo tempo.
Esse mostravano indubbiamente un panorama disomogeneo di stati e staterelli in perenne contesa, ma questo era nello stesso tempo il panorama di una splendida e variegata fioritura di arti, scienze, lettere, raffinatezza di costumi, cui faceva da terreno di coltura l’indole individualista degli italiani.
Costoro, di fatto, non erano mai stati storicamente sottoposti a un dominio unitario se non all’epoca dell’antica Roma, quando per altro tale unità veniva garantita dalla forza militare. Realizzare una simile impresa nel Cinquecento avrebbe significato che “una città avrebbe prevalso sulle altre”, soffocando con ciò stesso la ricchezza costituita dalla variegata civiltà rinascimentale. Non esisteva dunque altra via? Esisteva e Guicciardini la propose nella realizzazione di una federazione di stati.
Analoga sensibilità storica dominava il pensiero politico di Vincenzo Cuoco, giustamente considerato un precursore del Risorgimento, il quale criticò l’astrattezza dei progetti rivoluzionari di tipo illuministico diffusi alla fine del Settecento, che pretendevano di instaurare stati basati su principi ideali e istituzioni razionali senza rendersi conto che nessuna forma politica riesce a reggersi se non si radica nel «carattere della nazione».
Per questo era tragicamente fallita la Repubblica Partenopea del 1799, «troppo francese e troppo poco napoletana». Infatti «una costituzione è buona,per tutti gli uomini? Ebbene: ciò vuoi dire che non è buona per nessuno». Questo necessario riferimento alla realtà storica, combinato con un forte senso dell’identità italiana, venne raccolto da coloro che si posero in concretezza il problema di come conseguire l’unità e indipendenza d’Italia, dopo i tragici fallimenti dei “moti” carbonari e mazziniani del primo Ottocento, che si proponevano di cambiare la situazione storica mediante rivoluzioni unicamente fondate sul fascino di ideali generosi, ma senza neppure programmi definiti circa la struttura del futuro stato che avrebbe dovuto realizzarsi.
IL PRIMO PROGRAMMA POLITICO CONCRETO fu di tipo esplicitamente federalista e fu esposto da Vincenzo Gioberti nell’opera Del primato civile e morale degli Italiani, uscita a Bruxelles nel 1843. Sorvolando sull’aspetto di esaltazione dell’italianità che si sforzava di ricostruire anche storicamente l’identità nazionale (di cui già abbiamo detto in precedenza), ribadiamo ora che la forma politica, che questa unità culturale e civile era chiamata a darsi, veniva indicata in una federazione dei vari stati italiani, presieduta dal papa.
Era il “programma neoguelfo” (così battezzato in senso spregiativo dai suoi avversari), la cui forza ideale consisteva nel proposito di conservare tutta l’eredità storica della nazione italiana, ivi compresa la sua fondamentale componente cristiana, senza attribuire a nessuno stato la preponderanza politica. Veniva in tal modo spiazzata la tesi del Machiavelli, secondo cui la divisione dell’Italia era imputabile alla presenza dello stato della Chiesa, che non era tanto forte da realizzare lei l’unità, ma era tuttavia sufficientemente forte da impedire che altri la realizzassero.
Era una tesi impeccabile nell’ottica machiavellica di un’unità ottenuta per “conquista” dell’intero territorio nazionale da parte di un solo stato più forte degli altri, ossia proprio secondo quell’ottica che Guicciardini respingeva. La soluzione alternativa era quella di un’unità in cui nessuno dominasse sugli altri, in quanto lo stesso pontefice avrebbe presieduto la federazione secondo un’autorevolezza morale ma non politica.
Non si trattava di velleità o sogni, bensì di una proposta che incontrò enorme favore negli ambienti più diversi (ma anche ostilità negli ambienti anticlericali e in quelli cattolici reazionari) e che trovò l’adesione di un grande pensatore come Antonio Rosmini il quale, nello scritto Sull’unità d’Italia apparso in appendice a La costituzione secondo la giustizia sociale del 1848, riprendeva la idee giobertiane di una confederazione con dieta in Roma, presieduta dal pontefice, e con un’Italia settentrionale sabauda.
In un primo tempo parve che il progetto prendesse corpo quasi spontaneamente, includendo addirittura l’obiettivo di eliminare militarmente la dominazione austriaca sul Lombardo-Veneto. Tant’è vero che, quando Carlo Alberto dichiarò guerra all’Austria dopo le cinque giornate di Milano del marzo 1848, truppe regolari vennero inviate a sostenerlo da parte dello stato pontificio, del Granducato di Toscana, del Regno delle Due Sicilie.
Questi appoggi vennero meno, tuttavia, dopo la famosa allocuzione del 29 aprile 1848 pronunciata da Pio IX: il “papa giobertiano” si rendeva conto che non poteva partecipare a una guerra contro una potenza cattolica come l’Austria (con le temute possibili conseguenze scismatiche) e ritirava le sue truppe, subito seguito in ciò dal re di Napoli e dal granduca di Toscana.
Carlo Alberto (che frattanto aveva accolto Gioberti a Torino e lo aveva nominato primo ministro) inviò a Roma proprio Rosmini per tentare di recuperare il Papa alla causa italiana, e nel corso di tale missione il Rosmini (accolto con grande favore da Pio IX che gli annunzio la porpora cardinalizia) ebbe modo di promuovere un “progetto di Lega italiana” di cui si è conservata la bozza predisposta da Pellegrino Rossi, il noto giurista che Pio IX aveva nominato suo ministro dell’interno.
In tale documento si sancisce che la Lega avrà sede in Roma, che «gli affari della Lega saranno proposti e trattati da un Congresso di Plenipotenziari delegati da ogni parte contraente» (intendendosi per parte contraente ciascuno degli stati italiani che avrebbero aderito alla Lega). Infine si afferma che il Congresso è presieduto dal Papa e che «le alte Parti contraenti promettono di non conchiudere con altri Stati e Governi trattati, convenzioni ed accordi particolari che siano incompatibili con patti e risoluzioni della Lega Italiana».
Da un punto di vista tecnico possiamo dire che questo era un progetto di “confederazione”, piuttosto che di “federazione”, ma già abbiamo avvertito che queste terminologie sono più recenti e, ad ogni modo, ciò che qui interessa è che un effettivo progetto federalista apparve come primo modello per la realizzazione dell’unità d’Italia, mentre l’idea di realizzare tale unità mediante la costituzione di un unico Regno non era ancora stata esplicitamente elaborata (anche se circolava in vari ambienti, tant’è vero che Carlo Alberto venne acclamato dalle sue truppe “Re d’Italia” sul campo di battaglia dopo la vittoria di Coito del 30 maggio 1848).
GLI EVENTI, TUTTAVIA, PRESERO UN’ALTRA PIEGA, per ragioni che qui non interessa esporre, e il programma giobertiano tramontò. Ma non fallì per il fatto di essere di tipo federalista. Infatti Cesare Balbo, egli pure “neoguelfo” in quanto cattolico liberale, che aveva dedicato al Gioberti le Speranze d’Italia uscite l’anno dopo il Primato, ne aveva criticato il carattere utopistico poiché riteneva che condizione preliminare per la realizzazione dell’unità d’Italia fosse la cacciata dell’Austria, ribaltando così l’ordine delle priorità da molti sostenuto (basti pensare che nel progetto giobertiano di Lega italiana non si prevedeva l’inclusione del Lombardo-Veneto, sotto dominazione austriaca).
Balbo affermava che tale obiettivo non poteva essere raggiunto né per una inimmaginabile iniziativa concorde dei sovrani italiani, né per via di insurrezioni popolari, né grazie ad un intervento straniero, ma solo sfruttando occasioni propizie (in sostanza egli “sperava” in una progressiva disponibilità ad abbandonare l’Italia da parte dell’Austria conseguente ad un suo progressivo “inorientamento” verso i Balcani).
La guida di questo risorgimento avrebbe dovuto essere affidata alla casa Savoia che avrebbe dovuto riunire i principi italiani in un regno confederale di tipo costituzionale in cui anche le singole regioni avrebbero dovuto ricevere le loro costituzioni. Non guerre, ma trattative fra i governi venivano indicate come i mezzi per il conseguimento di questo fine.
La morte del neoguelfìsmo fu decretata, in certo senso, dallo stesso Gioberti quando pubblicò nel 1851 il Rinnovamento civile d’Italia, in cui ormai l’unità d’Italia è vista come una missione della casa Savoia, il Papa senza più domini temporali e la Chiesa viene considerata, accanto al potere politico, con un ministero di purificata spiritualità.
Non l’abbandono della presidenza papale della Lega, bensì l’abbandono del federalismo è il vero punto di svolta. Infatti lo stesso Gioberti, nell’opera Prolegomeni al Primato pubblicata nel 1845 per ribattere varie critiche che erano state rivolte al Primato, aveva scritto: «II primato aveva la funzione di propagandare il progetto federativo e quello che importava era la lega […] chiunque ne fosse poi il presidente, o il papa o il re di Sardegna».
Nel Rinnovamento si preconizza il programma politico secondo cui si sarebbe poi svolta la vicenda risorgimentale: l’unità d’Italia realizzata come impresa politico-militare centralistica ad opera della casa di Savoia. Si tratta del programma cavouriano, la cui prima tappa fu la seconda guerra d’indipendenza del 1859, seguita dalla spedizione dei Mille del 1860, dalle repressioni nelle terre del Mezzogiorno durate una dozzina d’anni, dalla terza guerra d’indipendenza del 1866 e coronata con la prima guerra mondiale del 1915-18.
DOPO IL 1860 IL FEDERALISMO CESSÒ DI ESSERE UN programma politico concretamente perseguito e divenne, specialmente nelle lucide pagine di Carlo Cattaneo e di pochi altri, una riflessione teorica e una denuncia dei limiti e dei danni del modello centralista. Scriveva Cattaneo già nel numero IX del Politecnico (1860): «In tutte le popolazioni nostre si è destata la coscienza che l’attuale ordinamento, fatto già per uno Stato e non per più Stati uniti, non basta ad appagare i loro bisogni, i modestissimi loro voti».
Sembra il riecheggiare di parole di Vincenzo Cuoco che abbiamo già citato: non si accusano gli ordinamenti piemontesi di essere scadenti o arretrati, bensì di non essere adeguati ad una realtà multiforme cui sono stati estesi senza rispetto delle peculiarità storico-culturali. Naturalmente, anche perché ciascuna di queste realtà regionali aveva i suoi punti di eccellenza che avrebbero potuto molto più proficuamente essere ripresi ed integrati nella disciplina del nuovo stato.
Sempre nel medesimo luogo leggiamo infatti: «Ma il Piemonte, anche addensando in sei mesi i progressi di un secolo, si trovò inferiore in diritto penale alla Toscana, in diritto civile a Parma, in ordini comunali alla Lombardia; ebbe la disgrazia di apportare ai popoli come beneficio nuove leggi che essi accolsero come un disturbo e un danno. Li assennati riputarono un vituperio che il popolo preferisse le leggi austriache alle italiane e non si avvidero che il vituperio era che le leggi italiane potessero apparire peggiori delle austriache».
Giudizi nettissimi, che in particolare aiutano a non scambiare il federalismo con un semplice decentramento (come non pochi anche oggi pensano, indotti in equivoco dalla stessa contrapposizione tra federalismo e “centralismo”). Ecco, in proposito, un’ultima lapidaria citazione di Cattaneo: «Non si tratta di decentrare (…) ma di coordinare la vera e attuale vita legislativa degli Stati italiani».
SE CI CHIEDIAMO PERCHÉ QUESTO MODELLO NON ebbe forza di attecchimento nell’Italia risorgimentale, possiamo suggerire la tesi che esso non risultava ispirato da quel “problema massimo” (realizzare l’unità e indipendenza d’Italia) di cui abbiamo già parlato. Esso si ispirava piuttosto ad un’ideale di libertà intesa individualisticamente. Da Cattaneo, e in modo ancor più netto da Giuseppe Ferrari, il federalismo è visto come una difesa della libertà, e non per nulla il loro riferimento privilegiato sono gli Stati Uniti d’America e la Confederazione svizzera.
La pluralità degli organismi elettivi distribuiti su vari livelli e l’esercizio del diritto di voto dei cittadini fino ai livelli più alti, appaiono come un meccanismo efficace per evitare politiche autoritarie e liberticide anche in regimi democratici. Infatti, notava ancora Cattaneo, quando sono in gioco ingenti forze e ingenti ricchezze, è troppo facile per queste costruire o acquistare la maggioranza di un unico parlamento. Sono riflessioni la cui indubbia attualità non può che colpire.
Da quanto detto in precedenza risulta che la ragione fondamentale, per la quale il modello centralistico della costruzione di un unico regno finì col prevalere, fu quella di dover contare sulla forza militare di una dinastia per giungere alla soluzione del “problema massimo”. Nel prossimo editoriale analizzeremo un poco tale questione, ponendola a confronto con le vicende di un Paese (la Germania) che realizzò nei medesimi decenni la sua unità nazionale sotto la guida di una monarchia militarista come quella prussiana, eppure adottò un modello federale.