21 Aprile 2016
di Carolina Mazzone
A partire dal secolo scorso, il processo di globalizzazione, che ha influenzato le economie e i mercati di diversi Paesi a livello globale, ha creato le condizioni favorevoli per la nascita del fenomeno della ‘rapina di terre’, altrettanto definito come land grabbing. La diffusione del modello economico capitalista e lo sviluppo di un sistema di delocalizzazione della produzione agricola hanno ulteriormente favorito la manifestazione di dinamiche di land grabbing in diverse regioni.
Per land grabbing si intende un recente fenomeno socio-economico per cui multinazionali estere e governi stranieri acquisiscono il controllo (tramite acquisto, leasing e utilizzo di fondi sovrani) di vasti terreni non coltivati in Paesi diversi da quelli di origine. I continenti più colpiti dal fenomeno sono America Latina, Africa, Asia Centrale e Sud-est asiatico. A partire dalla crisi finanziaria del 2008, con l’impennata dei prezzi dei beni alimentari essenziali, il land grabbing è cresciuto esponenzialmente.
La necessità di ottenere una grande quantità di terreno coltivabile per garantire la sicurezza alimentare della propria popolazione è diventata una delle preoccupazioni fondamentali per Paesi come la Russia, gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita, ma anche di altri importanti attori sulla scena economica mondiale quali Cina, India e Emirati Arabi. Inoltre, la crescita degli investimenti nel mercato dei biocarburanti ha ulteriormente contribuito alla diffusione del fenomeno. Infatti, i biocarburanti sono diventati fonti energetiche alternative di primaria importanza davanti alla riduzione della disponibilità di risorse non rinnovabili, come i combustibili fossili. La gestione di ampi terreni ha assunto, dunque, una rilevanza geopolitica fondamentale.
Nonostante il land grabbing si manifesti con maggiore o minore intensità in diversi continenti, l’Africa risulta attualmente una delle aree più interessate dal fenomeno. Sebbene ci sia una mancanza di dati ufficialmente riconosciuti, le informazioni più recenti riportano che un totale di 15,418,676 ettari di territorio africano sia gestita attraverso le discipline contrattualistiche tipiche del land grabbing. Ad oggi in tutto il continente africano risultano registrati 482 contratti rispetto ai 246 del 2015. SI tratta di dati che dimostrano come la ‘rapina delle terre’ stia crescendo in modo significativo.
Il fenomeno presenta un profondo impatto sulla vita economica e sociale delle popolazioni africane. Gli agricoltori locali spesso cedono per pochi dollari i propri terreni o vengono da questi espropriati mediante azioni di forza da parte del governo centrale. Altrettanto rilevante è il ruolo ricoperto dalle grandi compagnie nazionali che, con l’appoggio dei governi locali, investono in questo genere di attività.
Il caso dell’isola di Kalangala in Uganda è manifestazione di quanto appena detto. A partire dal 2002, la Oil Palm Uganda Limited (Opul) ha progressivamente acquisito 7.500 ettari per la coltivazione dell’olio di palma lasciando, senza alcun preavviso, molti degli agricoltori locali privati del proprio raccolto. A molti di loro sono stati offerti compensi che non ricoprivano il valore della terra acquisita.
Secondo le norme costituzionali ugandesi, l’espropriazione delle terre può verificarsi nel caso di previo atto giudiziario, ma la popolazione di Kalangala non ha ricevuto alcuna previa notifica. Ugualmente, nella regione di Gambella in Etiopia, a partire dal 2010, le Forze Armate etiopi hanno costretto molti abitanti locali ad abbandonare le proprie terre e reinsediarsi in villaggi prestabiliti secondo i piani di un progetto governativo per favorire l’accesso degli investitori stranieri alle terre coltivabili.
Oggi, infatti, nella regione risulta molto attiva la compagnia saudita Saudi Star, che controlla 15,000 ettari del territorio della regione per la produzione di zucchero e riso. Anche a livello ambientale l’impatto del land grabbing risulta essere particolarmente rilevante. L’elevato sfruttamento dei terreni per la creazione di vaste piantagioni contribuisce all’impoverimento del sottosuolo, le cui risorse minerarie vengono sostanzialmente ridotte.
Questo si traduce in un generale impoverimento della popolazione dei Paesi ospitanti, dove la terra costituisce, da sempre, una delle principali fonti di reddito. Gli introiti provenienti dalle piantagioni oggetto del land grabbing sono incamerati dalle società che controllano il terreno e, dunque, non garantiscono una forma adeguata di reddito per la popolazione locale.
Un’ulteriore problematica legata al land grabbing è costituita da investimenti falliti. Ci sono casi in cui gli investitori stranieri non riescono a valutare a pieno la poca fruibilità di alcuni terreni oggetto dei propri investimenti e, non hanno sufficienti finanziamenti per completare i progetti. Un caso di mancata realizzazione del progetto è quello della Sun Biofuels, compagnia britannica che ha investito in Tanzania. Nel 2008 l’azienda inglese aveva acquisito tramite leasing circa 8.000 ettari di terreni, nella zona di Kisarawe a sud ovest della capitale, destinati alla produzione di olio vegetale, biodiesel e più in generale biocarburanti per l’esportazione.
In occasione di questa acquisizione, la Sun Biofuels aveva manifestato la propria intenzione a favorire la creazione di posti di lavoro per la popolazione locale e lo sviluppo della zona. Tuttavia, il progetto non è stato poi portato a compimento a causa del fallimento dell’azienda stessa e la terra acquisita è rimasta sotto il controllo dell’impresa britannica lasciando la popolazione priva di ogni beneficio.
Dal punto di vista sociale, il land grabbing ha sollevato numerose questioni riguardo agli squilibri di potere che ci sono tra le compagnie straniere, governi dei Paesi ospitanti e popolazioni locali. Infatti, il problema principale è generato dalla mancanza di sicurezza sui diritti legali degli agricoltori sulle terre del proprio Paese. Spesso i Paesi in cui questi investimenti vengono avviati, sono privi di una disciplina legale e di un mercato strutturato riguardo alla compravendita di terreni che garantisca un’adeguata assistenza al cittadino.
Come si è visto nel caso ugandese, può capitare che queste dinamiche di land grabbing siano contrarie alle norme costituzionali. Ne risulta dunque che le attività di leasing e le attività contrattuali sono determinate da pratiche poco trasparenti che corrispondono anche alla mancata consultazione dei cittadini nell’attività negoziale. Il malcontento della popolazione locale in diversi Paesi africani è motivo di instabilità politica interna.
Nel distretto ugandese di Amuru, a nord del Paese, dove il gruppo Madhvani ha acquisito 40,000 ettari di terra per la coltivazione della canna da zucchero con l’appoggio del Presidente Mouseveni, c’è stata un ampia mobilitazione da parte di ONG e popolazione locale che hanno dato al caso risonanza internazionale.
Allo stesso modo le multinazionali estere e i governi locali sostengono che il land grabbing costituisca un importante occasione per favorire lo sviluppo locale e ottenere vantaggi a livello macroeconomico, incoraggiando l’occupazione, favorendo l’implementazione di nuove tecnologie e incrementando il PIL dei Paesi ospitanti. Alcuni di questi investimenti hanno infatti goduto dell’appoggio della Banca Mondiale.
Inoltre, il land grabbing è stato identificato come strumento politico utilizzato dai governi locali per mantenere il controllo territoriale, anche attraverso lo sviluppo di sistemi clientelistici posti in essere con il supporto delle aziende nazionali ed estere. A questo proposito sia il caso dell’Uganda (sia a Kalangala che Amuru) sia il caso etiope (nella regione di Gambella), potrebbero essere considerati come mezzi per il governo di Kampala e di Addis Abeba per controllare i propri territori e manipolare gli equilibri etnici e antropologici locali.
Tra il governo centrale e le grandi imprese come l’Opule la Madhvani in Uganda o la Saudi Star in Etiopia, si sono creati dei rapporti di fiducia che permettono allo Stato di gestire più facilmente le diverse aree territoriali. In particolare, nel caso etiope la logica del land grabbing risponderebbe all’ esigenza dello Stato federale di avere il controllo delle risorse agricole ed energetiche locali.
Alla luce di queste considerazioni e dei dati precedentemente esposti, è importante riconoscere come il land grabbing stia profondamente modificando gli assetti politici economici e sociali del continente africano. Proprio per la molteplicità degli interessi che ci sono dietro alla compravendita dei territori coltivabili in Africa, è necessario che i governi centrali degli Stati coinvolti sviluppino delle normative ad hoc che vadano a tutelare le diverse parti incluse nelle trattative.
Parallelamente a una maggiore trasparenza nella disciplina contrattualistica, dovrebbe essere favorita la creazione di regole di mercato che vadano a definire i termini in cui tali investimenti possono essere avviati. Inoltre è necessario che i governi intraprendano politiche pubbliche destinate a bilanciare la necessità di aumentare la produzione agricola e lo sviluppo con le esigenze dei contesti locali in cui si vuole avviare questo tipo di attività.
Ugualmente gli investitori stranieri dovrebbero condurre analisi dei rischi e dei benefici dei propri investimenti più complete e realistiche, in modo da limitare l’impatto negativo dei propri progetti di investimento sulla popolazione locale. Nel Continente africano, per frenare le problematiche legate alla crescita del land grabbing, è necessario garantire un quadro normativo adeguato e una considerazione della complessità sociale, affinché gli investimenti possano produrre sviluppo. In caso contrario, si rischia di generare un vortice di instabilità sociale e politica che potrebbe compromettere il funzionamento di molti Paesi africani con governi già deboli.