Sette supplemento de Il Corriere della Sera 16 maggio 1992
Per i seguaci è «il padre». Per gli avversari, il Gran Maestro di una «massoneria bianca», l’artefice di un’Opera che vuol legare potere e religione. Josemarie Escrivà de Balanguer che domani, a soli 17 anni dalla sua morte, sarà proclamato beato, continua a suscitare sentimenti opposti, dentro e fuori la Chiesa. A causa di un progetto: fare entrare anche i ricchi nel Regno dei Cieli
Testo di Vittorio Messori – Foto di Carlo Pisa
Santi «difficili», quelli spagnoli. Anche gli antichi – e grandissimi: Domenico di Guzmàn, Giovanni della Croce, Ignazio di Loyola – furono in vita come in morte segno di contraddizione ; divisero (e in qualche modo continuano a dividere) gli animi all’interno della Chiesa stessa.
Nella guerra civile degli anni Trenta, gli anarco-social-comunisti di tutta la Spagna uccisero 11 vescovi, 4.184 preti diocesani, 2.365 frati, 283 suore, oltre ad alcune decine di migliaia di laici, spesso rei soltanto di essere parenti di qualche religioso o di portare una medaglia al collo o un immagine di santo nel portafoglio. Eppure, occorse aspettare il coraggio di Giovanni Paolo II per vincere l’ostilità politica che aveva paralizzato Paolo VI il quale (timoroso di dispiacere alle «sinistre» minacciosamente rumoreggianti) aveva bloccato l’iter per la canonizzazione di un gruppo cospicuo di quei trucidati, pur già riconosciuti ufficialmente come «martiri della fede».
Papa Wojtyla: ruppe gli indugi solo il 22 marzo del 1986, beatificando tre carmelitane di Guadalajara, violentate e orribilmente massacrate per la sola colpa di essere monache: e monache di clausura. Sono poi seguite altre canonizzazioni, spesso di gruppo, ma qualche protesta continua a levarsi qua e là. Di recente è capitato a Isabella di Castiglia, la «regina cattolica», uno dei simboli stessi della hispanidad: e, qui, la levata di scudi è stata talmente virulenta che persino il «tosto» Giovanni Paolo II si è concesso una pausa di riflessione. Qualcuno, per questo indugio, ha protestato, come il postulatore della causa di beatificazione, padre Gutiérrez, il quale ha polemicamente definito «codardi» coloro che «intimoriti dalle pressioni di varie lobbies volessero rinunciare a riconoscere la santità di Isabella».
Domani domenica 17 maggio, tocca ad un altro spagnolo: questo ce l’ha fatta e, per giunta, a tempo di record ad avere il suo ritratto spiegato sotto il baldacchino berniniano di San Pietro (o sulla loggia della facciata della basilica, se il tempo sarà clemente), ma ha dovuto anch’egli affrontare un ostinato schieramento trasversale, dentro e fuori la Chiesa. È stata una lotta accanita, per vincere la quale l’Opus Dei ha messo in campo una determinazione e uno spiegamento di intelligenze e di mezzi tali da rischiare di confermare chi, al suo nome, aggiunge per un riflesso condizionato un aggettivo: «potente».
Per i contestatori, così, niente da fare: a soli 17 anni dalla sua morte, monsignor Escrivà de Balaguer, fondatore di quella che (dal 1983) è riconosciuta come «Prelatura della Santa Croce e Opus Dei») sarà proclamato beato. Per la sola fase iniziale del processo canonico, i tribunali ecclesiastici hanno tenuto 980 sessioni, ponendo a ciascuno delle decine e decine di testimoni qualcosa come 265 domande standard che scandagliavano praticamente ogni ora di ogni giorno della vita del candidato agli altari. Le deposizioni riempiono oltre 11.000 pagine di dattiloscritto. I tribunali ecclesiastici sono scesi in campo, raccogliendo ed esaminando un materiale quale mai si era visto nella storia della Congregazione per le cause dei santi, dopo che un terzo dell’episcopato mondiale -69 cardinali, 241 arcivescovi, 987 vescovi – aveva firmato un appello al Papa perché sanzionasse la «fama di santità» che in vita e in morte aveva accompagnato monsignor Escrivà.
A ulteriore, massiccio appoggio di questa richiesta della gerarchia, la Prelatura (che è una diocesi senza territorio, ma con un proprio clero e popolo e con giurisdizione sul mondo intero: una nuova figura canonica voluta dal Concilio e applicata per la prima volta all’Opus Dei), la Prelatura, dunque, ha messo a disposizione gli archivi della sede centrale, con oltre 70 mila segnalazioni di «favori» e «grazie» ottenuti in ogni continente da fedeli che avevano invocato l’intercessione del «Padre», come il Fondatore viene chiamato. Tutto questo era assai importante: stando alla dottrina cattolica, la Chiesa non «fa» i beati e i santi di sua iniziativa ma si limita a vagliare – e a sanzionare o a respingere – la vox populi, la «fama di santità» che attorno a certe figure si sviluppa nel «popolo di Dio».
Dopo avere ponderato con straordinaria accuratezza la vita e le opere del «candidato» popolare e averne riconosciuto (se del caso) la conformità al Vangelo e alla Tradizione, la Chiesa affida la causa a Dio, aspettandone un «segno», una «approvazione», sotto forma di un miracolo. Abitualmente, una guarigione inspiegabile secondo le conoscenze mediche. Solo dopo questa sorta di ok divino, il «venerabile» può essere proposto come beato e poi santo alla imitazione e alla venerazione dei fedeli.
Ma perché tanti contrasti nel caso di monsignor Escrivà, malgrado la «fama di santità» fosse stata accertata con un’ampiezza raramente vista; malgrado l’imprimatur divino fosse giunto regolarmente sotto forma di una guarigione prodigiosa; malgrado il materiale probatorio delle «virtù cristiane vissute in modo eroico» fosse imponente.
Il fatto è che attorno all’Opus Dei e al suo fondatore è nata e si è consolidata negli anni una sorta di leyenda negra, una «leggenda nera». Le voci e i sospetti di «massoneria bianca», di «segreti», di «trame oscure», di «volontà di potenza», sembrano ricalcare le stesse voci, gli stessi sospetti che per secoli accompagnarono la Compagnia di Gesù. Sia nel caso dei gesuiti che in quella dei 1.500 sacerdoti e dei 75.000 aderenti dell’Opus, molti equivoci si devono alla novità per i tempi delle due istituzioni. L’opera di sant’Ignazio stupì e poi inquietò per l’efficacia e la flessibilità di religiosi che, formati a lunghi e severi studi, vivevano l’ascetismo dei monaci non nel chiuso dei conventi ma sulle strade del mondo, frequentando con lo stesso impegno le corti reali e le tribù sudamericane.
Quanto all’opera fondata già nel 1928, a 26 anni, dal giovane sacerdote di Barbastro, in Aragona, leggende nere e sospetti nascono anch’essi da una novità: dal fatto, cioè, che l’Opera agisce soltanto come una sorta di «distributore di benzina» spirituale. La sua funzione, cioè, è unicamente quella di offrire una formazione religiosa agli aderenti, di sostenerli spiritualmente, senza in alcun modo interferire o essere coinvolta nelle loro scelte politiche, sociali, economiche. Così, ad esempio, non ci sono, come si favoleggia, banche, industrie, giornali, case editrici, imprese di ogni tipo «dell’Opus Dei»: ci sono cristiani che per la loro formazione spirituale, fanno capo ai sacerdoti e ai laici celibi e laureati (i «numerari» dell’Opera), ma che agiscono poi in piena libertà e autonomia nelle loro attività temporali, pur ispirandosi ai principi religiosi appresi e coltivati in quell’ambiente.
E si tratta di principi semplicemente «cattolici», di piena ortodossia, così come insegnati dalla Chiesa. È proverbiale, in effetti, lo scrupolo con cui la Prelatura professa fedeltà al magistero del Papa, non avendo dottrine proprie da proporre, ma solo quel modo caratteristico per apprendere e vivere la sequela del Vangelo che è esposto nei libri del Fondatore (primo tra tutti il celebre Cammino, con 250 edizioni in 40 lingue, pubblicato in Italia ora anche da Mondadori).
Per dirla con le parole del successore di Escrivà, l’attuale Prelato, Alvaro del Portillo: «Alcuni ragionano così: non vedo l’attività dell’Opus Dei in politica e nel mondo economico. Dunque, agisce occultamente, in silenzio. La verità è tutt’altra: il lavoro dell’Opus Dei in questi campi non si vede per il semplice motivo che non esiste. Non c’è, e non può esserci, alcuna “linea” della Prelatura, perché la sua giurisdizione non riguarda campi che sono oggetto solo delle libere scelte di cristiani responsabili, in sintonia col magistero ecclesiale. Chi bussasse alla porta dell’Opus Dei con scopi politici o temporali si renderebbe immediatamente conto di avere sbagliato indirizzo. Per sua natura, e perché così volle il suo Fondatore, l’Opera non può possedere né controllare alcuna attività che abbia finalità diverse da quelle strettamente religiose, di formazione spirituale dei membri».
Favorisce, poi, il sospetto di chissà quali segreti la discrezione con la quale conducono la loro vita cristiana coloro che si formano nella spiritualità di Escrivà de Balaguer, fermo assertore della «normalità», della «quotidianità». La Chiesa ha sempre insegnato che ogni battezzato è chiamato alla santità, è tenuto a prendere sul serio il Vangelo in ogni sua esigenza. In pratica, però, questa consapevolezza era andata attenuandosi: da un lato i «vocati» alla perfezione, i religiosi con i loro voti; dall’altro lato i «semplici» laici, quasi cristiani di seconda serie, dovendo innanzitutto occuparsi di cose «profane», immersi nei loro mestieri e professioni. Merito di Escrivà (autentico precursore – qui, come altrove – del Concilio Vaticano II) è stato il rimettere vigorosamente in luce il tesoro spirituale presente nella vita quotidiana, a cominciare dal lavoro. Il quale, per membro dell’Opus, è la via alla santità, se compiuto con gioia e generosità, nella consapevolezza che proprio nel lavoro la creatura agisce «ad immagine e somiglianza» del suo Creatore.
Paradossalmente, proprio da questa prospettiva di ascetismo spirituale viene il «successo» anche umano che sembra caratterizzare tanti membri dell’Opus Dei: il loro apostolato è vissuto innanzitutto come esempio di serietà professionale; il lavoro fatto al meglio delle proprie possibilità è per essi un modo privilegiato per mostrare che il cristianesimo non è «alienazione» ma, al contrario, pienezza di vita. Prima di passare all’annuncio del Vangelo con le parole, tentano di rendersi credibili attraverso i fatti della vita quotidiana.
Anche da questo non cominciare dalla «predicazione» orale ma da quella concreta, dell’esempio, vengono i sospetti di un loro mimetizzarsi, di un agire senza rivelare la loro appartenenza. In realtà, il Fondatore ha parole di fuoco contro quelle che chiama «le maledette società segrete», delle quali ebbe esperienza durissima nella Spagna pre-rivoluzionaria, e ammonisce i suoi dallo stare ben lontani da ogni spirito di setta. A questi suoi, tuttavia, Escrivà dà come modello, più che il Gesù della vita pubblica, quello dei trent’anni di vita appartata nella bottega di carpentiere a Nazareth.
Gli elenchi degli aderenti all’Opus Dei sono comunque pubblici e ogni membro è tenuto a dichiararsi, se richiesto. Le case di formazione dell’Opera in tutto il mondo poi sono aperte a chiunque volesse meglio conoscere l’istituzione per magari accostarvisi. Della «leggenda nera» fa poi parte un’altra persuasione: che dell’Opus (come avviene per la massoneria o per certi club esclusivi) facciano parte soltanto persone ragguardevoli, che si tratti di una istituzione elitaria sul piano sociale. In realtà, soprattutto nei luoghi di maggiore diffusione, come in Spagna e nell’America Latina, la creazione di Escrivà ha caratteri di massa: operai, contadini, lavoratori subordinati convivono e si formano spiritualmente alla pari con famosi professionisti o illustri accademici.
«Di cento anime» diceva il Fondatore «me ne interessano cento: quella del contadino delle Ande come quella del banchiere di Wall Street». Un non escludere nessuno mal sopportato, nella Chiesa stessa, da certa demagogia che, ragionando in termini politici (proletari-borghesi, destra-sinistra) e non religiosi, ha ispirato l’opposizione alla beatificazione di domani. Qualcuno ha osservato: «Ci voleva un papa che ha ben conosciuto i risultati concreti di certe “ideologie di liberazione socio-politica” per non farsi intimidire dalle proteste di certo mondo clericale, forse l’unico dove ancora sopravvivono nostalgie dello schematismo marxista».