di Roberto Ezio Pozzo
Iniziava la tentatrice primavera ligure del 1867 e il Regno d’Italia aveva appena vinto la Terza Guerra d’Indipendenza contro l’Austria di Francesco Giuseppe, quando il londinese Thomas Hanbury, reduce dai suoi viaggi in Cina, adocchiò una un po’ malmessa ma bellissima villa sulle alture di Ventimiglia, a Mortola, circondata da quaranta ettari di macchia mediterranea, vigneti e ulivi e ne rimase incantato, al punto di acquistarla senz’indugio e senza pensare minimamente al prezzo richiestogli dalla famiglia ligure Orengo, che ormai l’aveva abbandonata.
Vi si trasferì a vivere con la famiglia nel 1871 e, come accadeva non infrequentemente all’epoca in cui i ricchi non erano esclusivamente affaristi, si rimboccò letteralmente le maniche ed iniziò a dar vita al suo progetto, ossia quello di ricreare intorno alla ex Villa Orengo un campionario quanto più vasto fosse possibile della vegetazione e della flora mondiale, confidando unicamente sulle proprie risorse e sul microclima dell’estrema Riviera Ligure di Ponente, ove le piante delle più disparate specie e provenienza (ma questo lo sappiamo proprio grazie a Hanbury) attecchiscono con fierezza anche a molte migliaia di miglia dai loro luoghi d’origine.
Fu un lavoro che oggi si direbbe “visionario”, con l’orrido termine sempre più in voga che, personalmente, riservo ancora a quei malati di mente che hanno le visioni. Vi mise tutto se stesso, contro ogni previsione e scetticismo locale, molto spesso trascorrendo egli stesso ore ed ore inginocchiato a terra per mettere a dimora piante ed arbusti che fece provenire a sue spese da tutto il mondo, dando ad esse nuova dimora in quegli angoli particolari, scelti accuratamente, che li riparassero dai forti venti di libeccio invernali o dal sole cocente d’estate, ciascuna impiantata tenendo conto di ciò che sarebbe accaduto in futuro, con la naturale crescita dell’enorme varietà vegetale del grande giardino botanico della villa che prese il suo nome.
Se fu una visione, fu comunque una di quelle che non si trovano facilmente oggi, d’ampio respiro ed improntata a sopravvivere per secoli al suo artefice. Il paziente e responsabile lavoro di Hanbury, uno dei tanti illustri stranieri che ancora oggi fanno grande il nostro Paese per averci creduto ed averci messo del proprio, durò decenni, gli sopravvisse grazie all’opera del fratello, di uno dei suoi figli e della moglie di questi e costituisce ancora oggi una meraviglia mondiale (ignoro, francamente, se sia entrato a far parte del patrimonio indisponibile dell’umanità tutelato da Unesco, ma, se non lo fosse, certamente ben più meriterebbe di esserci, rispetto a qualche saltellante ballo di paese o di certi un monumenti senz’arte né parte che si fregiamo di questo riconoscimento), perché i giardini della Mortola sono ancora, e speriamo restino a lungo, tra i più splendidi esempi di conservazione e cura della biodiversità al mondo, un campionario unico del regno vegetale nella sua più nobile espressione, un’occasione unica per vistare il mondo in pochi acri di terra.
Impietoso il confronto tra i risultati concreti dell’opera dell’illuminato e pressoché sconosciuto inglese di Liguria con le fumose teorie di quelli che parlano, anzi, lasciatemelo dire, rompono le scatole agli italiani con le compiaciute discorse su decrescita felice, green economy ed altre amenità psico-ambientaliste.
Forse conterà qualcosa che certi ideologi attuali, la cosa più verde che abbiano sperimentato in vita loro sono le canne, e non poche, ma il fatto è questo, inutile nasconderlo. Immediata, spicca subito una differenza tranciante tra i nostri teologi del verde uber alles, che di tasca loro non ci mettono nemmeno un centesimo, bensì ricavandone ampi profitti, talvolta oltre che ampi, sono pure empi.
Ma non basta: tra l’anonima operosità dell’appassionato gentiluomo inglese della metà Ottocento, e lo sbandieramento attuale degli attuali progetti “visionari” ed “ecosostenibili” vi stanno alcuni ostacoli, insormontabili per i novelli salvatori del pianeta: cultura, dedizione personale, generosità, amore per il bello come valore fine a ss stesso (forse il kalòs?), assoluto disinteresse per le critiche degli invidiosi, assenza del desiderio di cavalcare l’onda, anzi… troppo nobile l’onda… per cavalcare il somaro che va di moda e porta voti da altri somari.
Dei non pochi insegnamenti che ci dovrebbero risultare ancora dalle vite (perché quelle persone vi dedicarono davvero l’intera esistenza) di tali giganti sconosciuti non possiamo trascurare l’approccio di metodo: quelli, prima di tutto, misero in pratica e poi, semmai, parlarono (poco) mentre questi parlano, parlano, parlano e quasi mai mettono in pratica.
Per carità, non è soltanto colpa loro, ma del nostro sistema di valutazione, interamente basato sulla sottovalutazione del presente e sulla sopravvalutazione del futuro, quello dei progetti, dei business plan, delle rappresentazioni grafiche in 3D che compaiono, beffarde e mentitrici, sui tristi e deserti cantieri delle opere pubbliche nostrane.
Dico opere pubbliche. Il privato non pensa nemmeno ad abbellire il luogo ove abita, se non, al massimo, l’ennesimo pala-qualcosa postmoderno o qualche centro congressi che ospiterà congressisti che non hanno nulla di serio da dirsi. Se, putacaso, un privato (necessariamente facoltoso) di oggi volesse impiantare un giardino botanico (ossia il green fattosi pratica, dopo vagonate di teoria) ve l’immaginate quali limiti, quali pastoie, quali accuse gli verrebbero opposte?
Meglio lasciare quei compiti allo Stato, quello che misericordiosamente pensa a noi tutti, al piccolo prezzo di qualche trascurabile compressioncina del nostra libertà personale, per cui meglio dare spazio agli archistar (ossia ai soliti architetti, sempre gli stessi, che, tra migliaia di colleghi, si dividono la torta delle commesse pubbliche di valore stellare, e da qui il nome).
Meglio blaterare della necessità indifferibile di buttarci sulla green economy e se ci fosse davvero poco green da mostrare ai posteri (che d’altronde interessano zero: si fa oggi per domani o dopodomani al massimo) diamo una bella pennellata di green preconfezionato ed il miracolo è compiuto: anche una cacca diventa un monumento green.
Possiamo però goderci appieno le piste ciclabili, alle quali seguiranno a breve le piste monopattinabili, e sentirci in pace con la natura, come nello spot visto ieri sera in tv, in cui una sussiegosa insegnante di yoga d’aperta montagna indossava l’archetto del microfono senza fili per fare ascoltare i suoi imperdibili “ommmm” a quattro sfigati anchilosati a terra da posture improbabili, ai quali era stato preventivamente requisito il cellulare per la (scomoda) seduta tutta-natura.
Personaggi come gli Hanbury? Sicuramente lo facevano per lucro personale, erano violentatori della Natura e probabilmente sovranisti e fascisti. Come? Non potevano essere fascisti perché morti tutti prima del 1919? Non andiamo a cercare il pelo nell’uovo e smettiamola con queste strumentalizzazioni elettorali.
Piuttosto studiamo la vera Storia, quella che si apprende senza studiare, quella che abbiamo il sacrosanto diritto costituzionale di criticare senza mai averla letta.