La Nuova Bussola quotidiana 2 novembre 2014
di Rino Cammilleri
L’italiano, quando teneva famiglia, aveva il record mondiale del risparmio. E questo risparmio andava in primis alla casa, che l’italiano si toglieva anche il pane di bocca pur di costruirsi, così che almeno i suoi figli avessero quel punto di partenza che lui non aveva avuto. Gli italiani erano perciò, percentualmente, un popolo di proprietari di case.
La corsa alla casa continuò anche con l’inurbamento degli anni Sessanta, quando per “casa” si intendeva un appartamentino in città. Il quale, per forza di cose, costava quanto un vera casa “al paese”. Non si è studiato abbastanza questo fenomeno, ma fu da lì che il numero di figli per famiglia scese a tre o due, mentre prima non c’era limite. I miei nonni, per esempio, avevano sette figli (al paese), mio padre (in città) tre. Negli anni Settanta il non avere figli divenne un fatto culturale, ma già nel decennio precedente erano le case la prima causa anticoncezionale, sia per il costo che per l’angustia. La casa di proprietà fu comunque sempre un punto di imbarazzo per il potente Pci, diviso tra l’odio alla proprietà privata e il fatto che la sua base elettorale, composta soprattutto da operai, era anch’essa italiana e, dunque, avida di “farsi la casa”.
Oggi abbiamo un governo di sinistra che fa cose di destra, come dicono, e addirittura può permettersi il lusso inaudito di far disperdere dalla polizia gli operai che manifestano perché temono di perdere il posto. Ma il vecchio vizio sinistro dell’odio alla proprietà non l’ha perso. Il sogno dei politici marxisti italiani era sempre stato la tassa patrimoniale: tu hai la villa e io la soffitta, perciò è giusto che tu paghi molto più di me. Come dimostrò Helmuth Schoeck nel suo celebre saggio L’invidia e la società, spesso alla base di slogan ideologici come “giustizia” e “eguaglianza” c’era l’invidia sociale, l’occhio malevolo di chi, nell’esempio fatto, passava davanti alle tue molte finestre e le paragonava al suo abbaino.
Magari in quella villa, ereditata dal nonno, tu ci morivi di freddo perché non avevi di che pagarti il riscaldamento, non c’era neppure l’acqua corrente e l’elettricità, e il giardino era diventato un roveto. Ma all’invidioso non interessava: ça ira, les aristocrates à la lanterne. E così, dacché è stato deciso che l’Italia commissariata paghi i debiti senza se senza ma, quella devastazione che negli Usa hanno provocato i mutui subprime viene qui artificialmente creata con le tasse sulla casa.
Come tutti sanno, una tassa sul patrimonio viene pagata col reddito: una tassa sulla casa la paghi attingendo al salario. E quando il salario non basta che fai? Vendi la casa per pagare le tasse sulla casa. Già, ma proprio le tasse sulla casa hanno fatto crollare il valore delle case, e devi svendere. Ammesso che trovi qualcuno che compri. Chi compra, poi, non può essere uno al tuo livello salariale, ma un ricco. Solo che il ricco la casa già ce l’ha e non è così scemo, di questi tempi, da investire in case. Qualche imprenditore ha cominciato a smantellare, per esempio, i capannoni, rendendoli inservibili: la sua attività era già scemata, il capannone produce solo imponibile fiscale. Andrà a finire così per le case d’abitazione, che torneranno alle banche fornitrici del mutuo. Ma neanche le banche sapranno a chi venderle o svenderle. Finiranno nel baratro anche le banche? Boh, staremo a vedere.
Abbiamo visto in televisione i cimiteri di case americane in vendita a un dollaro l’una ma che neanche così trovano acquirenti. Tranquilli, in Italia c’è l’art. 827 del codice, secondo il quale l’immobile abbandonato va allo Stato. Norma fascista, ma di quelle che, pur fasciste, facevano comodo a tutti, perciò è rimasta al suo posto. Già, ma oggi lo Stato che cosa se ne fa di tutte queste case? Ci sistema immigrati, rom, centri sociali?
Sarebbe una bella mossa dell’oca: prima metti in strada quelli che qualcosa pur pagavano, ora ti ritrovi questi che sono, per te Stato, una spesa. Intanto, l’autodemolizione dei capannoni per motivi fiscali ci riporta ai bei tempi “piemontesi” delle tasse sulle porte e le finestre, che la gente murava per difendersi dal Fisco preferendo rischiare la tubercolosi. I savoiardi dovevano rifondere i debiti internazionali contratti per pagarsi le guerre risorgimentali, alla tisi dei sudditi avrebbero pensato dopo. Ma il “dopo” non venne mai e gli italiani dovettero emigrare.
La storia si ripete: proprio le tasse sulla casa dimostrano che, da Monti in avanti, i “commissari” italiani sono alla disperazione e che, pistola alla tempia, devono fare cassa hic et nunc, e dopo di loro il diluvio. L’unica arma che resta ancora in mano a questo disgraziato popolo è il voto, e proprio per questo tutti, diconsi tutti, i partiti si impegnano a “scongiurarlo” come se fosse la sciagura più temibile per il Paese. In realtà lo è solo per loro, perché il primo minaccioso brontolio è stato il voto ai grillini. Si votasse domani, gli italiani non ci cascherebbero più. Forse, dapprima crescerebbe la già altissima astensione elettorale (e questo va bene alla sinistra, che può da sempre contare su votanti mobilitabili anche di notte), ma prima o poi la disperazione economica moltiplicherebbe le crisi di piazza.
Comunque, l’ultimo a preoccuparsi del futuro dell’Italia, fosse anche quello immediato, è il suo governo, cui interessa prima incassare e poi si vedrà (anzi, se la vedrà qualcun altro). Nel frattempo, i diktat internazionali sulla sessualizzazione di tutti, bambini compresi, in ogni maniera e a marce forzate, sono il chiaro segno che ci aspetta una vita di scarso panem e molti circenses. Solo che, senza un tetto, dove lo faremo ‘sto sesso libero, per strada? Magari sì, visto che il c.d. “comune senso del pudore” è un vecchio concetto giuridico non più al passo coi tempi.