di Giammarco D’Amico
Hermann Broch, scrivendo della sua Austria ai primi del Novecento, diceva: «Assolvendo i suoi doveri nei confronti della tradizione, Vienna scambiò per cultura la passione per i musei e divenne essa stessa […] un museo. […] La musealità era dunque riservata solo a Vienna; come segno di declino, come segno del declino dell’Austria».
Sono segni di decadenza per l’arte sacra? O per la liturgia stessa, privata delle opere migliori poste al suo servizio, e sostituite con surrogati più comodi e a buon mercato? Qualche tempo fa, Fulvio Rampi, illustre gregorianista, intervenendo nel mio profondo Sud ad un convegno sulla musica sacra a cinquant’anni dal Concilio Vaticano II, ha icasticamente intitolato la sua relazione “II canto gregoriano: un estraneo a casa sua”.
Sì, un estraneo, perché è sotto gli occhi di tutti l’ostracismo ingiustificato che esso patisce. Nessuno disconosce il valore artistico al canto gregoriano, ma perlopiù gli si nega la sua natura liturgica primigenia e la sua stessa funzione ontologica, condannandolo a sopravvivere, magari come un ospite servito e riverito, in ambienti che sostanzialmente dovrebbero essergli transeunti e provvisori, come raffinate rassegne con-certistiche o incisioni discografiche di gran livello.
A volte anche i lodevoli corsi di canto gregoriano – che, grazie a Dio, continuano a fiorire ovunque – e sono solitamente accolti in chiese illustri, in monasteri insigni, in luoghi di devozione veramente unici, prevedono semplicemente un saggio finale a cura dei corsisti o un concerto. È evidente la difficoltà a riaccoglierlo in casa come fratello e familiare, senza sapere che è uno dei primi famuli del Padrone: esso è, e resta, Parola di Dio cantata.
Ovvero: prima di essere un’opera d’arte è parte integrante e, in alcuni casi necessaria, della liturgia. Si è completamente capovolta la prospettiva esistente prima della riforma solesmense, quando il gregoriano – eseguito male o malissimo – era considerato cifra imprescindibile della liturgia e argine alle degenerazioni secolaristiche dei riti, oggi invece abituati ad accogliere di tutto al loro interno. Dopo più di centocinquantanni di studi, e con un Magistero che autorevolmente suggella tali studi, assistiamo a questi evidenti sviamenti dovuti a quella che il Santo Padre ha definito «ermeneutica della discontinuità».
E ci dobbiamo dunque accontentare di ascoltarlo o eseguirlo in concerto, ovvero nell’equivalente del museo, per le arti figurative: luogo encomiabile, anche idealmente parlando, ma anticamera e al contempo conseguenza della definitiva decadenza, come lo stesso Broch spiegava: «La decadenza verso la miseria porta alla degradazione nella vita puramente vegetativa, ma la decadenza verso la ricchezza porta al museo. La “musealità” è appunto un vegetare nella ricchezza…».
Come la Vienna della Belle Époque destinata a finire nei funesti bagliori della Grande Guerra, la sensibilità cattolica per la vera arte sacra e liturgica, oggi così affetta da “musealità”, è destinata a terminare in un estetismo passatista pago esclusivamente di certa filologia spinta agli estremi confini e senza innesto nella Tradizione, che resta un concetto altamente dinamico?
Ad ascoltare Benedetto XVI e a seguirne l’esempio delle liturgie da lui presiedute, potremo invertire questo trend: se si riacquisisce al senso comune ciò che la legge liturgica prevede e una splendida tradizione ci ha consegnato, si potrà riportare il gregoriano a casa propria, ovvero a servizio del Culto divino.
A volte, sarà eseguito poco raffinatamente, magari sarà poco compreso dal popolo, ma starà al posto suo e ciò non potrà che giovare all’ordine delle cose! Anche qui vale sempre l’antico adagio: Serva ordinem et orda servabit te (Rispetta l’ordine e l’ordine ti salverà).