Il Timone n. 186 – Luglio-Agosto 2019
I vescovi africani chiedono più responsabilità ai politici e più equità internazionale. Vogliono che i giovani non emigrino e restino per impegnarsi allo sviluppo della propria terra. La colonizzazione ideologica dietro il sistema di aiuti internazionali.
di Luigi Piras
Nel giro di alcuni mesi in Rwanda potrebbe vedere la luce il primo smartphone prodotto in Africa destinato al mercato del continente ad un costo tra i 100 e i 200 dollari. Lo ha annunciato agli inizi di giugno Ashish Thakkar, fondatore e amministratore delegato di Mara, nata nel 1996 come piccola azienda del settore informatico e trasformatasi in un conglomerato industriale con quartier generale negli Emirati Arabi, esteso in 26 Paesi africani in settori che vanno dall’immobiliare, ai servizi finanziari, alle nuove tecnologie, con circa 11mila dipendenti.
Thakkar, 38 anni, viene da una famiglia indiana trasferitasi nell’Africa orientale alla fine dell’800, costretta a lasciare l’Uganda per il Regno unito nel 1971 dopo la presa del potere da parte del generale Idi Amin Dada, che poi in Africaè tornata, in Rwanda, appunto dove Thakkar ha iniziato la sua avventura imprenditoriale. Strano posto, si dirà, per fare impresa.Ma Thakkar non è l’unico ad averlo trovato propizio in tal senso.
Anche la Volkswagen lo scorso gennaio ha annunciato l’apertura di una nuova sede operativa a Kigali, capitale rwandese, che comprenderà una linea di montaggio con la capacità di 5000 veicolo all’anno, con aree dedicate alla vendita e all’assistenza, un centro di formazione e uffici dedicati a una nuova società che si occuperà di car sharing.
Che un paese come il Rwanda, minuscolo rispetto alla media africana (12 milioni di abitanti), senza sbocchisul mare, senza risorse naturali di rilievo e passato per una tragedia immane come la guerra civile di metà anni Novanta, sia diventato una piccola tigre economica del continente – con balzi in avanti anche nell’assistenza sanitaria – è da ricollegarsi in gran parte alla presidenza forte di Paul Kagame, che meriterebbe un lungo excursus.
Quello che va sottolineato è che il Rwanda si pone oggi come esempio di un’altra Africa, capace di crescere attirando investimenti, svincolata da certi aiuti umanitari – in senso lato – dell’Occidente, che spesso hanno semplicemente rafforzato una dipendenza strutturale e hanno rappresentato il proseguimento del colonialismo con altri mezzi.
Affrancarsi dagli «aiuti» dall’esterno
Martino Ghilotti, dirigente bancario in pensione, collabora con la Onlus Associazione Kwizera che opera nel Paese di cui stiamo parlando e ha riversato le esperienze maturare sul campo in un recente libro che merita una lettura e più di una riflessione: Aiutiamoli a casa loro. Il modello Rwanda, pubblicato in proprio ma reperibile su Amazon.
Scrive Ghilotti: «All’inizio del nuovo millennio molti Paesi africani hanno livelli di vita inferiori a quelli di trent’anni fa, con la sola eccezione di quei pochissimi, come il Botswana, che hanno avuto il coraggio di affrancarsi dagli aiuti stranieri, intraprendendo un percorso virtuoso fatto di riforme economiche e sociali. L’inefficacia di tali aiutisulle fragili ecomnomie locali e sulla vita sociale degli africani vannoricercate nei ritardi della società africana, nei suoiinveterati vizi, primo fra tutti la corruzione diffusa a tutti i livelli dell’apparato statale, dall’ultimo funzionario al primo ministro, e sulle consolidate leggi che regolano le dinamiche economiche-finanziarie.
Si calcola che ogni anno circa 10 miliardi di dollari, circa la metà degli aiuti esteri ricevuti dell’Africa nel 2003, riprendano la via dell’estero per approdare su conti segreti». Secondo altri studi, inoltre, un pugno di centomila persone deterrebbe il 60% della ricchezza dell’intera Africa. La necessità di uno sviluppo vero, autonomo, di società che sappiano reggersi sulle proprie gambe e possano godere di una reale indipendenza, è anche uno dei temi ricorrenti nel messaggio dei vescovi africani, la cui voce fatica ad arrivare fino a noi e quando arriva incontra orecchie da mercante se non corrisponde a certi nostri cliché. Per esempio sull’annoso tema delle migrazioni.
I vescovi ai giovani: non emigrate
«Non fatevi ingannare dall’illusione di lasciare i vostri Paesi alla ricerca di impieghi inesistenti in Europa e in America» ha detto a nome dei vescovi africani Nicolas Djomo, vescovo di Tshumbe e presidente della Conferenza episcopale della Repubblica Democratica del Congo.
L’occasione è stata l’apertura della riunione della Gioventù cattolica panafricana tenutasi a Kinshasa nell’agosto del 2015. «Utilizzate i vostri talenti e le altre risorse a disposizione per rinnovare e trasformare il nostro continente e per la promozione della giustizia, della pace e della riconciliazione durature in Africa» ha proseguito Djiomo, «voi siete il tesoro dell’Africa: la Chiesa conta su di voi, il vostro continente ha bisogno di voi».
Posizione reiterata nel messaggio diffuso al termine dell’assemblea delle Conferenze episcopali dell’Africa occidentale, che si è tenuta in Burkina Faso dal 13 al 20 maggio scorsi: «Voi [giovani] rappresentate il presente e il futuro dell’Africa, che deve lottare con tutte le sue risorse per la dignità e la felicità dei suoi figli e figlie. In questo contesto non possiamo tacere sul fenomeno delle vostre migrazioni, in particolare verso l’Europa. I nostri cuori come pastori e padri soffrono nel vedere queste barche sovraccariche di giovani, donne e bambini che si perdono tra le onde del Mediterraneo. Certo, comprendiamo la vostra sete di quella felicità e benessere che i vostri paesi non vi offrono. Disoccupazione, miseria, povertà rimangono mali che umiliano. Tuttavia, non devono portarvi a sacrificare la vostra vita lungo strade pericolose e destinazioni incerte. Non lasciatevi ingannare dalle false promesse che vi porteranno alla schiavitù e ad un futuro illusorio! Con il duro lavoro e la perseveranza che la potete fare anche in Africa e, cosa più importante, potete rendere questo continente una terra prospera».
Gender e altri ricatti dell’Occidente
Per quanto riguarda le insidie ideologiche presenti in certi aiuti umanitari, elargiti con veri e propri ricatti, vale la pena riportare le parole pronunciate lo scorso novembre dal cardinale Polycarp Pengo, arcivescovo di Dar es Salaam in Tanzania, durante la Messa di ringraziamento per il raccolto autunnale. Il porporato ha chiesto al governo tanzanese di rifiutare qualsiasi aiuto dall’Occidente che sia legato, come contropartita, all’apertura del Paese alla propaganda Lgbt.
«E’ meglio morire di fame che ricevere aiuti ed essere costretti a fare cose contrarie alla volontà di Dio» ha tuonato il porporato, «se moriremo di fame perché ci siamo rifiutato di compiere tali atti, moriremo comunque con Dio». Le parole di Pengo erano un richiamo ma anche un ringraziamento alle autorità governative, come il ministro degli affari interni che si era espresso precedentemente in termini simili.
Già nel 2011 l’allora primo ministro del Regno Unito David Cameron, aveva annunciato la sua intenzione di tagliare fondi e finanziamenti per quelle nazioni africane in cui l’omosessualità era ancora illegale, ricevendo come risposta dal ministro degli Esteri tanzanese un «grazie, ne faremo a meno».
«Questa è la colonizzazione ideologica», ha detto il Papa nel suo volo di ritorno dal suo viaggio apostolico nelle Filippine, nel gennaio del 2015, «entrano in un popolo con un’idea che niente ha a che fare con quel popolo, per cambiare una mentalità o una struttura. Durante il Sinodo, anche i vescovi africani si lamentavano di questo, che i prestiti per lo sviluppo venivano concessi a certe condizioni». Una volta i colonizzatori offrivano alle popolazioni indigene manufatti di poco valore – pezzi di stoffa, biglie colorate o specchi – in cambio di oro. Oggi l’offerta sembra diventata quella dei vizi e della immoralità delle nostre società “avanzate”.