L’obiettivo dei servizi segreti sovietici era di sfruttare le formazioni partigiane per procurare agenti per l’Urss.
di Valerio Riva
Siamo dunque a metà maggio del 1965. Il tintinnar di sciabole dell’anno prima si sente ormai solo sullo sfondo. Ma il Foreign Office continua ad avere qualche preoccupazione. E chiede pressantemente all’ambasciatore inglese a Roma di voler informare sul senso da dare alla profluvie di manifestazioni e cerimonie, ufficiali e no, che si sono avute in Italia tra il 25 aprile e il 9 maggio nella ricorrenza del primo ventennale della Resistenza (1945-1965). Tanto più che si annuncia sullo stesso tema per ottobre anche un mega convegno a Torino.
Che senso ha tutto questo revival resistenziale? si chiede Londra. È vero che in tutte queste manifestazioni non si fa mai cenno al contributo dato dagli Alleati (e in particolare dagli Inglesi) alla liberazione dell’Italia? Con tutti i soldi e gli aiuti che vent’anni fa gli abbiamo dato, adesso ci trattano come se non esistessimo? È un atto ostile o no? L’ambasciatore, sir John Guthrie Ward, che è a Roma dal 1962 e vi rimarrà un altro anno ancora, risponde in data 25 maggio 1965 con una relazione di cinque fitte pagine, che il Foreign Office decide di far stampare e distribuire in forma «strettamente confidenziale» a un certo numero di alti funzionari. Cosa dice sir John in questa relazione ritenuta tanto importante?
Dice sostanzialmente che anche se non c’è da allarmarsi troppo, non bisogna neanche farsi ingannare dalle apparenze. «Agli osservatori inglesi» scrive sir John, «specie a chi dopo l’8 settembre 1943 ebbe a che fare con formazioni della Resistenza italiana, le attuali rivendicazioni sono sembrate davvero un po’ troppo esagerate. Ma come ogni culto mistico, mito o leggenda, anche il culto della Resistenza è fiorito e si è sviluppato in Italia in un’atmosfera di sacralità che ha poca o punto somiglianza con la cruda realtà di quella che fu una lotta di bande male equipaggiate e disorganizzate contro un nemico ben addestrato e spietato».
Va detto che il Foreign Office non aveva mai avuto molta simpatia per la Resistenza italiana, né prima né dopo il 25 aprile 1945. Una diffidenza che nasceva dal fatto che gli inglesi non potevano dimenticare che nel 1940, l’annus horribilis in cui si trovarono dopo il crollo della Francia a sostenere da soli tutto il peso della guerra contro Hitler, l’Italia di Mussolini non aveva esitato a pugnalarli alle spalle. E persino il revirement dell’8 settembre veniva considerato puro opportunismo.
Tuttavia su questo punto tra Foreign Office e Servizi segreti inglesi non c’era accordo: tant’è vero che durante la guerra John Mac Caffery, l’uomo che a Berna rappresentava i Servizi, s’era finito per convincere, dopo qualche esitazione iniziale, che agli Alleati conveniva e come finanziare la Resistenza italiana.
Ma solo dopo aver incontrato il Capo del Cln Alta Italia, il banchiere Alfredo Pizzoni, «tanto serio e così poco italiano da sembrare quasi un vero inglese». E solo dopo avere acquisito la certezza che quei soldi non sarebbero andati a finanziare oltre certi limiti il Partito comunista italiano.
Non a caso dunque, con tutto quello che stava succedendo in Italia, quell’antica diffidenza ritornava, vent’anni dopo. E sir John Guthrie Ward si guardava bene dal contrastarla, cercando però di razionalizzarla. Se le celebrazioni italiane del ventennale, scriveva, lasciano la sgradevole impressione di un «po’ troppa esagerazione», non va dimenticato tuttavia che «esse sono ispirate molto più a esigenze politiche di oggi che al fedele ricordo degli avvenimenti di vent’anni fa».
Quali esigenze? Pochi dubbi: le esigenze dei comunisti italiani. Che smaniano, scrive l’ambasciatore, per «presentarsi come un movimento rispettabile». In che senso? «Il loro marxismo non è allettante; le loro relazioni staliniste sono un grave handicap; gli standard di vita dell’Europa dell’Est sono una pessima pubblicità per le loro teorie economiche; e in più è difficile per loro scrollarsi di dosso la mala fama di prendere ordini da una potenza straniera».
E se è vero che essi hanno avuto una «larga parte» nella lotta ai tedeschi, è non meno vero che «con tutte le cose accadute di recente capaci di screditare il comunismo [ndr: XX Congresso, invasione dell’Ungheria, ecc.] non è un caso che la Resistenza sia diventata l’elemento più importante della loro propaganda».
Resistenza e basta? No, resistenza più antiamericanismo: «Quando di recente uno dei loro leader, Giancarlo Pajetta, si è recato ad Hanoi, il tema centrale di quel viaggio è diventato il collegamento tra la resistenza italiana di vent’anni fa e la “guerra di liberazione” vietnamita di oggi». Osserva sir John: «Come se il “nemico imperialista” americano di oggi non fosse stato vent’anni fa l’alleato e il generoso finanziatore dei partigiani italiani!».
Ma è un antiamericanismo venato, al solito, di «doppiezza»: infatti mentre in Vietnam i comunisti si comportano così, in Italia cercano invece spesso di «trascinare sul palco un rappresentante dell’Ambasciata inglese o americana», al punto che, scrive sir John, «per noi non è stato un lavoro da poco distinguere tra celebrazioni genuine e celebrazioni politicamente contraffatte».
Doppiezza, antiamericanismo, uso perverso del «mito» Resistenza. Ma cosa c’entra tutto questo con le rivelazioni delle carte Mitrokhin? C’entra. Ecco qua: il «rapporto Impedian n.163» è contemporaneo del «rapporto confidenziale» di sir John Guthrie Ward al Foreign Office. Lo si deduce dal fatto che, parlando di soldati sovietici fatti prigionieri dai tedeschi e una volta in Italia passati nelle file della Resistenza, di loro si dice che «oggi [ndr: cioè nel momento in cui scrive l’ anonimo estensore della scheda Kgb copiata da Mitrokhin] dovrebbero essere persone di oltre 45 anni».
Nel 1945 avevano sui 25 anni: 25 più 20, 45 anni: il documento del «rapporto 163» risale dunque anch’esso al 1965; e dunque anch’esso prende spunto dalle celebrazioni del primo Ventennale, né più né meno che il «rapporto» di sir John. Ma con conclusioni diverse. E assai più gravi.
Mentre infatti l’ambasciatore Ward si affretta a rassicurare il Foreign Office («l’on. Rumor, quando è venuto a colazione in Ambasciata, mi ha francamente detto che l’evocazione della Resistenza non ha più nessuna particolare presa sugli italiani del dopoguerra…»); ben diverso è l’obiettivo del dirigente del Kgb quando stila l’originale da cui il defunto Mitrokhin copierà poi il «report n.163».
Si tratta di un vero e proprio piano d’azione destinato a non far uscire tanto presto dalla testa degli italiani né la Resistenza né il suo «mito» con tutti gli annessi e connessi: «Su ordine del Dipartimento V del Primo Direttorato del Kgb, per molto tempo la Residentura di Roma ha studiato a fondo l’organizzazione e la struttura delle formazioni partigiane e di altri gruppi della Resistenza, i metodi da loro usati per procurarsi armi e le aree dove erano installati.
I fascicoli ottenuti su quanti avevano partecipato alle formazioni partigiane venivano aperti in Centrale in vista di un loro possibile sfruttamento negli interessi del Kgb». Altro che Mito della Resistenza! Qui «mito» e «culto mistico» servono, sotto un usbergo di rispettabilità, a reperire in Italia gente che lavori per il Kgb! Se ne accorgerà ben presto il candido Rumor.
Nei dintorni di Reggio Emilia un tipico rappresentante della «giovane generazione del dopoguerra» come Alberto Franceschini riceverà dalle mani di ex partigiani le loro vecchie armi come pegno di continuità tra Resistenza e Brigate Rosse.
Tra il 1966 e il 1969, creazione della Gladio Rossa. Nel 1967 l’uso del caso De Lorenzo per azzoppare il nostro controspionaggio militare. Il cerchio si chiude. «Tutto questo materiale» conclude il rapporto Impedian 163 «costituiva un dossier in quattro volumi».
Quanti storici vorrebbero avere tra le mani quel «dossier in quattro volumi»?