13 gennaio 2015
Massimo Introvigne
La dottrina sociale della Chiesa, insegnava San Giovanni XXIII nell’enciclica «Mater et Magistra», è «parte integrante della concezione cristiana della vita». Da Leone XIII in poi, tutti i Papi ci hanno ricordato che la dottrina sociale della Chiesa, la quale non è altro che la morale cattolica nella sua dimensione sociale, non è opzionale ma è obbligatoria.
Benedetto XVI nell’enciclica «Caritas in veritate» ha invitato ad applicare anche alla dottrina sociale della Chiesa il criterio interpretativo della «riforma nella continuità», un’espressione da lui coniata nel 2005 con riferimento all’interpretazione dei documenti del Concilio Ecumenico Vaticano II. La formula implica che nella Chiesa vi siano spesso riforme, che vanno accettate con lealtà, ma che nello stesso tempo sono momenti del cammino nella storia dell’unico soggetto Chiesa, così che ogni riforma non va letta come rottura con il passato ma interpretata alla luce del Magistero precedente.
La formula di Benedetto XVI aiuta ad affrontare con serenità la questione della dottrina sociale che ogni Papa propone con accenti e sfumature che gli sono propri. La dottrina sociale di Leone XIII – il quale, Benedetto XVI lo ha sottolineato più volte, non ha «inventato» la dottrina sociale che, in quanto morale sociale, esisteva dal Vangelo e dai Padri della Chiesa – aveva certo accenti nuovi rispetto ai Papi precedenti. Lo stesso vale per Pio XI rispetto a San Pio X e a Benedetto XV, per San Giovanni XXIIII e il beato Paolo VI rispetto al venerabile Pio XII, per San Giovanni Paolo II e Benedetto XVI dopo il beato Paolo VI. Accenti e priorità che cambiano, ma nella continuità di un’unica dottrina sociale.
La dottrina sociale di Papa Francesco è «nuova» rispetto alle ultime formulazioni di San Giovanni Paolo II e Benedetto XVI? La risposta positiva è in un certo senso ovvia, proprio perché qualche «novità» c’è sempre. Ma si tratta di novità radicali, che rovesciano la prospettiva dei Papi precedenti? Alcuni lo sostengono, e al libro cerca di dare risposta un nuovo libro dei giornalisti Andrea Tornielli e Giacomo Galeazzi: «Papa Francesco: Questa economia uccide» (Piemme, Milano 2015). Si tratta di un’attenta esposizione dei documenti e degli interventi sociali – più precisamente, socio-economici – di Papa Francesco, accompagnata da una ricostruzione delle polemiche che li hanno accompagnati, e da interviste agli economisti Ettore Gotti Tedeschi e Stefano Zamagni, al sacerdote delle «vilas miserias» argentine padre Charly Olivero e infine allo stesso Pontefice.
La ricostruzione dei temi sociali nel Magistero di Papa Francesco – che per il momento non ha prodotto alcuna specifica enciclica sociale – è condotta in modo particolarmente approfondito. Giustamente, gli autori mettono al centro l’esortazione apostolica «Evangelii gaudium» e la sua denuncia di quella che il Papa chiama appunto «economia che uccide». «Non è possibile – scrive Francesco – che non faccia notizia il fatto che muoia assiderato un anziano ridotto a vivere per strada, mentre lo sia il ribasso di due punti in borsa». Questo significa che «si considera l’essere umano in se stesso come un bene di consumo, che si può usare e poi gettare. Abbiamo dato inizio alla cultura dello “scarto” che, addirittura, viene promossa». Il Papa pensa che le vecchie categorie «dello sfruttamento e dell’oppressione» siano in qualche modo superate da «qualcosa di nuovo: con l’esclusione resta colpita, nella sua stessa radice, l’appartenenza alla società in cui si vive, dal momento che in essa non si sta nei bassifondi, nella periferia, senza potere, bensì si sta fuori. Gli esclusi non sono “sfruttati” ma rifiuti, “avanzi”».
Gli autori insistono sulla critica di Francesco alla teoria economica del bicchiere che trabocca, sostenuta dagli apologisti dell’attuale «turbocapitalismo», secondo cui la semplice crescita del prodotto interno lordo (PIL) offrirebbe di per sé maggiori opportunità e benessere anche ai più poveri. A furia di riempirsi, il bicchiere dell’economia traboccherebbe e le gocce andrebbero a cadere anche sui poveri rimasti fuori, migliorando la loro condizione. Chi pensa così manifesta, scrive l’esortazione apostolica, «una fiducia grossolana e ingenua nella bontà di coloro che detengono il potere economico». E nell’intervista che conclude il libro Francesco torna su questa critica di teorie in cui «c’era la promessa che quando il bicchiere fosse stato pieno sarebbe trasbordato e i poveri ne avrebbero beneficiato. Accade invece che, quando è colmo il bicchiere magicamente s’ingrandisce è così non esce mai niente per i poveri».
La teoria non funziona, afferma Francesco e conferma nella sua lunga e mirabile intervista Ettore Gotti Tedeschi – il quale fa eccezione per alcuni Paesi asiatici, nei quali l’effetto benefico sui più poveri della crescita del PIL, per un certo periodo, ci sarebbe stato –, perché il capitalismo come lo conoscevano gli economisti appena qualche decennio fa propriamente non esiste più. Al suo posto c’è qualcosa di nuovo, l’ideologia e la pratica del dominio assoluto della finanza e dei signori della finanza rispetto alla produzione e alla stessa politica. Gotti Tedeschi crea per questo nuovo capitalismo una formula: «capitalismo gnostico», e conferma l’intuizione degli autori secondo cui questi sviluppi sarebbero stati profeticamente intuiti fin dal 1931 da Papa Pio XI, che nell’enciclica «Quadragesimo anno» denunciava l’«imperialismo internazionale del denaro» e l’ascesa oscura di poteri forti che aspiravano a controllare «l’oro» per controllare «il sangue» e la storia.
Questo spunto introduce al secondo tema del volume: una ricostruzione degli attacchi a Papa Francesco, da parte di ambienti economici e politici e da studiosi di dottrina sociale cattolici soprattutto statunitensi, i quali accusano il Pontefice di esserci schierato contro il libero mercato, adottando posizioni «di sinistra» e, in particolare, anti-americane, se non addirittura socialiste. Gli autori criticano i critici del Papa – compresi alcuni vescovi e cardinali degli Stati Uniti che hanno espresso dissenso dalla «Evangelii gaudium» – con accenti talora molto polemici, che non piaceranno a qualcuno. Di recente, una posizione più moderata della risposta «filo-capitalista» a Papa Francesco è stata presentata dallo specialista finlandese Oskari Juurikkala, della cui conferenza tenuta all’Università della Santa Croce il 4 dicembre 2014 gli autori non hanno evidentemente fatto in tempo a tener conto. Juurikkala proviene dagli stessi ambienti criticati da Tornielli e Galeazzi ma presenta una lettura dei testi di Papa Francesco più equilibrata e fondata su un maggiore sforzo di comprensione.
L’ipotesi storica suggerita dagli autori è ambiziosa, e molto suggestiva. La Chiesa, spiegano, non ha mai amato il nuovo super-capitalismo globale emerso dopo la Grande Crisi del 1929, che ha aumentato il divario tra ricchi e poveri e concentrato il potere economico e finanziario nelle mani di pochi, pur avendo avuto – lo spiega lo stesso Papa Francesco nell’intervista finale – anche l’effetto positivo di «aiutare molte persone» che hanno beneficiato del progresso economico. D’altro canto, la Chiesa sapeva bene che questi poteri forti economici e finanziari promuovevano anche visioni incompatibili con la dottrina cattolica sul piano culturale e morale, comprese l’eugenetica, il controllo delle nascite e poi l’aborto: un collegamento che Francesco ha ricordato più volte. Benché la politica americana sia un tema straordinariamente complesso, questi poteri forti hanno avuto certamente una speciale influenza sulle classi dirigenti degli Stati Uniti.
Tuttavia, a partire dal venerabile Pio XII, pur senza mai rinunciare alla critica teorica dell’«imperialismo del denaro», la Chiesa in quella parte della sua attività che potremmo chiamare politica ha collaborato con chi dirigeva gli Stati Uniti e ha posto meno l’accento sulla critica dei sistemi super-capitalisti, perché l’urgenza nel quadro della Guerra fredda era combattere il comunismo, cioè il più grande persecutore dei cristiani di tutta la storia. Questa linea è continuata con San Giovanni Paolo II, negli anni decisivi per la caduta del comunismo.
Dopo la caduta del Muro di Berlino, sostengono gli autori, la Chiesa con l’ultima fase del pontificato di Papa Wojtyla e poi con Benedetto XVI – anche se la minaccia sovietica era venuta meno – ha continuato nella stessa linea, di collaborazione con certi ambienti statunitensi e di minore enfasi sulla critica dell’«imperialismo del denaro», perché di questi ambienti ha ritenuto di avere bisogno per una lotta comune nei confronti di nuove minacce: l’ideologia di genere e l’ostilità internazionale diffusa contro la vita e la famiglia. Gli autori citano meno la lotta alla minaccia dell’ultra-fondamentalismo islamico emersa clamorosamente dopo l’11 settembre 2001, che nel quadro che propongono a mio avviso ha certamente un peso.
Qui si situerebbe precisamente la «novità» di Papa Francesco, che sarebbe dunque in buona parte strategica. Non, precisano gli autori, che Francesco si disinteressi della vita e della famiglia. Tuttavia cambia, per così dire, l’ordine dei fattori. Francesco pensa che all’origine delle ideologie ostili all’uomo – comprese quelle che attaccano vita e famiglia – ci siano i poteri forti internazionali che sono responsabili nello stesso tempo del volto disumano del super-capitalismo.
Papa Bergoglio, o così interpretano il suo pontificato Tornielli e Galeazzi, pensa che tutto sommato i poteri forti possano reggere abbastanza facilmente a una critica che colpisce gli effetti della loro azione negativa nella storia – gli attacchi alla vita e alla famiglia – e non va alle cause, l’«imperialismo del denaro» di cui parlava Pio XI. Anzi, secondo gli autori i poteri forti favorirebbero – attraverso loro settori statunitensi, che hanno posizioni diverse su vita e famiglia ma rimangono all’interno dello stesso sistema – un’attenzione della Chiesa concentrata solo su temi come l’aborto o il «matrimonio» omosessuale, la quale metterebbe in secondo piano la critica al dominio della finanza sull’economia e quindi non intaccherebbe il cuore del loro potere.
Se le cose stanno così, affermano Tornielli e Galeazzi, molte critiche a Papa Francesco sono infondate: perché, lungi dal venire a compromesso con i poteri forti di questo mondo, il Pontefice argentino li colpisce dove fa più male. Gli stessi inviti in Vaticano a «movimenti popolari» latino-americani talora sconcertanti e le aperture a personaggi di una vecchia sinistra barricadera e rivoluzionaria sarebbero funzionali a questo attacco al cuore dei poteri forti. Né si tratterebbe di una posizione soltanto «argentina» o «latino-americana», perché la critica colpisce anzitutto i Paesi da cui il super-capitalismo cerca di guidare il mondo.
Come dicevo, la tesi – esposta dagli autori con così poche concessioni al complottismo che qualche passaggio va letto tra le righe – è suggestiva, e anche a suo modo elegante. Se la si accetta, spiega per esempio come mai certi «atei devoti» italiani o anche americani – questi ultimi, per la verità, avevano già cominciato a criticare Benedetto XVI per la «Caritas in veritate» – siano diventati oppositori militanti di Papa Francesco. A questi «atei devoti» può anche piacere una Chiesa che si oppone all’aborto e al gender (e – insisto – soprattutto all’ultra-fondamentalismo islamico, elemento un po’ trascurato dal volume) ma non piace per nulla una Chiesa che contesta il super-capitalismo. Dei poteri forti odierni costoro proporrebbero una critica «parziale», relativa alle sole conseguenze etiche, e «interna», in quanto non esce dal sistema e non ne mette in discussione le premesse fondamentali, che sono economiche e finanziarie. Papa Francesco invece lo fa, e per questo ce l’hanno con lui.
Come tutte le tesi suggestive, quella del volume si presta anche a obiezioni, anche al di là della reiterata citazione di un personaggio controverso e – lui sì – tipicamente sudamericano come l’arcivescovo di Recife Hélder Câmara, passato da una carriera di dirigente di un movimento brasiliano di estrema destra, l’Azione Integralista Brasiliana (le cosiddette «camice verdi»), a una posizione indulgente verso le derive marxiste di una certa «teologia della liberazione» mai condivisa dall’allora padre gesuita, poi vescovo e cardinale Bergoglio.
Mi convince l’idea di Gotti Tedeschi secondo cui lo stesso «capitalismo gnostico», cioè gli stessi poteri forti, sono all’origine da una parte di un’economia che proletarizza le classi medie e rende i poveri più poveri, dall’altra degli attacchi alla vita e alla famiglia che passano per la mentalità antinatalista – la quale porta al suicidio demografico dell’Occidente e fa saltare il banco dell’economia – e l’ideologia di genere. Trovo splendide molte pagine del Papa che denunciano le ideologie del dominio finanziario e il culto semi-religioso del denaro, e ne ritrovo precedenti non solo in Pio XI ma anche nel beato Paolo VI, in Benedetto XVI e nello stesso Leone XIII. Credo anch’io che i poteri forti che promuovono l’ideologia di genere, l’aborto, l’eutanasia e la mentalità contraccettiva in gran parte siano gli stessi del «capitalismo gnostico» e del dominio finanziario dell’«internazionale dell’oro».
Però mi pongo anche dal punto di vista di quella che Alberto Arbasino chiamava la «casalinga di Voghera» – con molto rispetto per le casalinghe e per Voghera – cioè la persona comune che non legge saggi sul super-capitalismo post-moderno, anche se naturalmente ne soffre le conseguenze ogni volta che va a fare la spesa. Questa casalinga incontra di rado gli economisti, ma incontra tutti i giorni il dispregio istituzionale per la vita e la famiglia e magari anche l’indottrinamento di genere nella scuola dei suoi figli.
Se ha l’impressione, non infondata, che la Chiesa parli meno di queste cose, non penserà a complesse strategie intese a non alimentare poco sante alleanze con certi ambienti americani sospetti. Penserà che alla Chiesa queste cose non interessino più, o che la dottrina sia cambiata. Fanno bene Tornielli e Galeazzi a far notare quei documenti dove Papa Francesco ribadisce la posizione della Chiesa quanto alla condanna dell’aborto, dell’eutanasia e delle politiche che non sostengono la famiglia. Ma qualche volta rimane l’impressione che, in questi tempi di grande confusione, la casalinga di Voghera abbia bisogno di sentirselo dire più, e non meno spesso.
Da sociologo, mi sarebbe piaciuto un capitolo sul tema del rapporto fra il super-capitalismo, le nuove tecnologie e il rapporto malato del mondo (post)moderno con il tempo, con il venire meno della distinzione fra tempo di lavoro e tempo libero e la colonizzazione del tempo da parte di poteri forti che tentano persino di ridurre le nostre ore di sonno – e di fatto, secondo alcuni studi, ci stanno riuscendo – perché meno dormiamo e più produciamo, anche fuori da qualunque nozione di un orario di lavoro, e più consumiamo. Negli ultimi mesi Papa Francesco ha moltiplicato gli interventi su questo culto frenetico del tempo, che non sono affatto estranei alla linea principale del volume e che sono un tema centrale per molta sociologia contemporanea.
La Chiesa è una grande realtà. Si è sempre occupata di molte cose. Il libro che esce oggi apre una discussione seria, che potrà essere stimolante per molti. E forse un’occasione di sereno dialogo dove chi, come gli autori, pensa che oggi la prima urgenza della dottrina sociale sia quella di articolare una critica del super-capitalismo finanziario possa confrontarsi senza reciproche scomuniche con chi ritiene invece che le questioni antropologiche relative alla vita, alla famiglia e al cosiddetto genere rappresentino la prima priorità della dottrina sociale.