da Tempi 19 gennaio 2019
Avanzi di gravidanze, fallimenti e sogni infranti di genitorialità. Sono almeno 1,4 milioni i figli non nati congelati solo negli Stati Uniti. Ecco perché non vogliamo aprire il coperchio di quei depositi di azoto liquido
Caterina Giojelli
C’è un limbo popolato dai grandi perdenti della società «procreatica». Benoît Bayle, filosofo e psichiatra all’ospedale di Chartres ne aveva già scritto nel suo A la poursuite de l’enfant parfait. L’avenir de la procréation humaine: se da un lato l’utopia dell’assoluto padroneggiamento della filiazione ha aperto l’era della “superproduzione, della selezione e della superconsumazione” dell’embrione umano, dall’altro ha dovuto mettere a tacere qualsiasi dibattito pubblico sulla “distruzione embrionale di massa” che quello stesso padroneggiamento comporta. Non se ne deve parlare, perché l’embrione umano deve restare «il grande perdente della società procreatica, la vittima sacrificale ed espiatrice, come se fosse lui il colpevole delle sofferenze o dei rovesci della coppia».
«NON POSSO DISTRUGGERLI, DIVENTANO PERSONE»
Ebbene, ora l’America sta facendo i conti con l’utopia tradita: quelle decine di migliaia di embrioni intrappolati nei congelatori delle cliniche per la fertilità, avanzi di gravidanze e sogni infranti di genitorialità. Troppi per poter rimandare ulteriormente una decisione sul loro destino. Alcuni sono stati abbandonati da chi ha smesso di pagarne il deposito, il destino di altri è appeso invece alle decisioni rimandate all’infinito di genitori che non sanno se dare mandato di scongelarli perché vengano distrutti, donarli alla ricerca o donarli a coppie che non riescono ad avere figli propri. Tutti ricordiamo le immagini di George W. Bush coi “bambini venuti dal freddo”, nati da fecondazione artificiale e che erano stati embrioni nei bidoni freezer della crioconservazione, insieme alle madri che li avevano accolti in grembo. Tuttavia la stragrande maggioranza dei genitori di quei figli allo stato embrionale non sa proprio cosa farsene.
Jenny Sammis, racconta all’Ap, non vuole donare i suoi figli alla ricerca: erano solo una «realtà tutta astratta» quando, 15 anni fa, decise col marito di congelare una dozzina di embrioni, ma poi, da quei «semi che potrebbero diventare persone», sono nati i suoi due figli. Per questo oggi non può prendere assolutamente in considerazione di poterli distruggere. Qualcuno, pur di non fare una scelta, scompare, le cliniche non riescono più a rintracciare chi ha smesso di pagare il deposito senza lasciare disposizioni, «e tutti hanno paura di prendere iniziative per timore di venire citati in giudizio qualora comparissero i genitori a rivendicare i propri embrioni», spiega Rich Vaughn, avvocato di Los Angeles per anni a capo del comitato di riproduzione assistita dell’American Bar Association: «Si tratta di un vero dilemma».
ABBANDONATI NEI CONGELATORI
Nessuno sa con esattezza quanti embrioni siano attualmente stoccati negli Stati Uniti, i centri per la fertilità non sono tenuti a fornire un numero. Sappiamo, dopo gli incidenti al Fertility Center di Cleveland alla Pacific Fertility Clinic di San Francisco, che una parte delle migliaia di embrioni distrutti era stata depositata fin dagli anni Ottanta, quando iniziarono le prime fecondazioni in vitro. Ma sappiamo anche che con lo sviluppo delle tecniche di procreazione medicalmente assistita il numero ha subito un’impennata, sempre più coppie congelano embrioni in grandi quantità, così da selezionare e trasferire in utero solo il più o i più vitali, uno alla volta, per impedire gravidanze gemellari. Questo significa che il numero di embrioni “avanzati” rispetto a quelli destinati alla gravidanza è altissimo. Uno studio citato dall’Ap stima 1,4 milioni di bambini, il 5-7 per cento abbandonati a tutti gli effetti, con punte che arrivano al 18 per cento in alcune cliniche.
Per molti genitori firmare i documenti per la donazione o la distruzione equivale a mettere nero su bianco che «non vuoi più avere un bambino», spiega Howard Raber che insieme alla moglie Sara ha deciso di donare i suoi embrioni alla ricerca. «All’inizio l’obiettivo è solo rimanere incinta, quindi devi disporre di molti embrioni perché non sai quanti tentativi ci vorranno. Ma poi… », cerca di spiegare Sara che per mesi ha lasciato i documenti sulla scrivania senza riuscire a siglarli. Uno studio condotto su 131 coppie in Canada ha rilevato che un terzo dei genitori smette di farsi vivo con le cliniche in genere dopo cinque anni. Un’altra indagine ha dimostrato che fino al 70 per cento delle coppie rimanda sempre di cinque anni qualunque decisione e che la maggior parte cambia radicalmente idea su come e se utilizzare gli embrioni “extra” dopo aver fatto la fecondazione in vitro.
MA DI CHI SONO GLI EMBRIONI?
Nella clinica di Fort Myers, in Florida, il dottor Craig Sweet ritiene che il 18 per cento degli embrioni da loro congelati sia stato ormai abbandonato, qualcuno da almeno 25 anni: «Divorzi, depressione, terremoti finanziari, molte cose portano le stesse coppie a litigare sul destino dei loro embrioni». Il caso più celebre in America è quello che ha visto battagliare in tribunale Nick Loeb – che ha appena scritto e diretto il film pro-life Roe v. Wade – e la sua fidanzata Sofia Vergara: annullate le nozze, Vergara non ne vuole più sapere dei due embrioni femminili crioconservati nel 2013 all’epoca del fidanzamento con Loeb, mentre il padre crede fortemente che debbano continuare la loro «vita in cammino verso la nascita». E non si tratta di un caso isolato: lo scorso aprile un governatore dell’Arizona ha firmato una legge che consente a un membro di una coppia divorziata di poter utilizzare gli embrioni depositati durante un matrimonio, anche se l’ex coniuge non è d’accordo.
E le cliniche si trovano in mezzo alle battaglie legali. Qualcuno, come il dottor Sweet, cerca di convincere i genitori a non scartare embrioni perfettamente «sani e utilizzabili»: a questo scopo ha dato vita all’Embryo Donation International per poterli trasferire con fecondazione assistita a coppie che non riescono ad avere bambini e afferma di averne “utilizzati” tra i 50 e i 60 nel 2017. Nessuno sa quanto viva un embrione congelato, Sweet ne ha fornito uno “vecchio” di 17 anni a una donna di Chicago e il National Embryo Donation Center nel Tennessee ha annunciato che di recente è stata portata a termine una gravidanza di un bimbo che era stato “congelato” per 24 anni.
MATERIALE DI SCAMBIO, CAVIE, GIOIELLI
Ma cosa è un embrione? Abbiamo letto a novembre gli articoli tutti miele ed elogi della mamma-record di 62 anni che al San Giovanni di Roma ha dato alla luce una bambina comprandone l’embrione a Tirana, dove è possibile aggirare il limite imposto dalle regioni italiane all’accesso alla procreazione mediamente assistita regolato dalla legge 40. Negli stessi giorni un’attrice italiana di 37 anni con problemi di infertilità che vive negli Stati Uniti, a New York, postava su Facebook: «Ciao, da tre anni stiamo provando a dare a nostro figlio un fratellino… vogliamo completare la nostra famiglia con un maschio. Abbiamo un embrione femmina di ottima qualità: ovulo di donatrice italiana e sperma anglo-irlandese, da uomo laureato a Yale. A qualcuno interessa uno scambio?».
Abbiamo appreso che in Cina sono nati i primi due bambini “geneticamente modificati” e che il genetista He Jiankui per arrivare a questo risultato ha dovuto utilizzare come cavie undici embrioni, andati distrutti. Figli per anziani a tutti i costi, materiale di scambio, cavie. Perfino pezzi di gioielleria: il nuovo macabro business di aziende come l’australiana Baby Bye Hummingbirds è trasformare gli embrioni inutilizzati in ciondoli, anelli e ninnoli che il genitore può «portare sempre con sé».
QUEGLI ORFANI E NOI
Ecco dove ci ha portato l’utopia dell’assoluto padroneggiamento della filiazione, l’era della “superproduzione, della selezione e della superconsumazione” del materiale vivente: ad annientare una parte stessa della nostra umanità. Ed è forse di questo che non vogliamo parlare quando, in preda a una sorta di alienazione collettiva, incapaci di relazioni che durino per sempre e di fare i conti con la “sindrome del sopravvissuto” che le tecniche di procreazione artificiale lasciano nei bambini (leggere sempre Bayle, L’embrione sul divano), non ci chiediamo che cos’è un embrione. Non vogliamo parlare di quei depositi, i serbatoi di stoccaggio ad azoto liquido dove abbiamo nascosto tutti i perdenti, orfani della società procreatica, per non parlare di quello che abbiamo davvero perso mettendoci al seguito dell’utopia dell’assoluto padroneggiamento della filiazione.