inFormazione Cattolica 9 Ottobre 2020
di Maria Luisa Donatiello
Il maestro Gianvincenzo Cresta, docente di Teoria dell’Armonia e Analisi presso il Conservatorio di Musica di Avellino, è tra i compositori italiani contemporanei più operosi e ispirati. Cattolico praticante, fa delle sue composizioni un esempio alto di fusione tra la musica antica (dalla quale non si può prescindere perché fondante la nostra cultura e la nostra tradizione) e la musica sperimentale ed elettronica dei nostri giorni.
La fusione non è riproposizione in chiave contemporanea di opere altrui, ma è opera nuova che supera il passato e il presente per sublimarsi nell’intenzione, magistralmente riuscita, di rappresentare il trascendente.
Con il repertorio del maestro Cresta siamo nell’ambito della musica colta, al cospetto di un esempio emblematico e lampante di arte del XXI secolo, musica plastica fatta di suoni nuovi, creati e ricreati in un connubio che realizza opere musicali non solo miste, ma caleidoscopiche (si vedano informazioni sul suo sito ufficiale: www.gianvincenzocresta.com ).
Abbiamo rivolto al maestro, in esclusiva per inFormazione Cattolica, alcune domande.
Nella composizione“De Infinito” per sei voci ed elettronica, eseguita lo scorso anno in prima assoluta alla Biennale di Venezia, la sua musica si fonde con le parole di Giordano Bruno tratte da “De l’infinito, universo e mondi” ed è accostata alla polifonia di Monteverdi. La musica vocale si sposa con le sonorità della musica elettronica tanto da rendere per nulla distanti l’antico e il presente poiché entrambi annunciano il trascendente, l’infinito, l’intuizione di Dio. È forse questo il principio alla base della sua poetica?
Tutta la musica è uno slanciarsi verso l’infinito, è un cercare l’altrove e quindi l’altro, è un andare a inseguire la Bellezza. E ciò che guida questo camminare è il desiderio. L’esperienza di Giordano Bruno, al di là di ogni possibile considerazione, è questa e le sue parole sono state per me una fiamma. Nel suo testo vi è una dialettica complessa: da una parte il perenne girare della Terra, il “garbuglio” che è il mondo, dall’altra vi è la sua aspirazione a fendere i cieli: stare dentro le cose per vederle meglio e, allo stesso tempo, tirarsi fuori per capirne il senso.
La musica è pensata in vortici, in grovigli sonori, in frammenti di canto o in lunghe scie di polifonia come momenti di astrazione e separatezza con un infuori che spinge in attesa di essere risolto. E poi ho lavorato sulla risonanza interna ed esteriore della parola, perché l’origine della musica è nel canto e vorrei che tutto precipitasse lì.
L’elettronica elabora le voci in tempo reale, le lancia nello spazio, le trasfigura, le moltiplica, le proietta verso il basso o l’acuto, amplificandone le articolazioni anche minime per sostenere questa utopia sonora.
Quanto la sua conoscenza delle Sacre Scritture, della storia della salvezza e della musica sacra e liturgica sono per lei motivo d’ispirazione?
Io sono in cammino e ogni volta che scrivo mi scopro, mi rivelo a me stesso e soprattutto ritrovo una condizione di libertà che non è mai definitiva. Dunque, più che delineare i tratti principali della mia poetica, posso esprimermi in termini di esperienza. Col tempo la scrittura è divenuta una forma di preghiera, perché è sempre più un abbandonarsi e sempre meno un atto di puro cerebralismo. Ho man mano perso l’interesse per una coerenza basata su princìpi sintattico grammaticali e vado cercando altre forme di unità e di relazione tra le cose. In tal senso, la musica è un campo aperto di possibilità ed è, allo stesso tempo, ossessione del dialogo e accettazione della separatezza.
L’affinità è da cercarsi nella differenza. Penso che Dio ci guardi così, con uno sguardo che com-prende. Per questo mi sento lontano da ogni forma di fondamentalismo o di ideologia ed il moralismo che ne deriva mi preoccupa. La fede è una esperienza assai concreta e non un elenco di regole né la prospettiva di una idealità. La vera questione è avere sete di Dio. Forse nella mia scrittura c’è questo desiderio, ma anche una nostalgia di Dio: il mio cercarlo ed il mio fuggire.
Circa le Sacre Scritture, in alcuni miei lavori sono state una fonte inesauribile di conoscenza e di stimolo alla riflessione, ma soprattutto mi hanno aperto delle prospettive di osservazione nuove e inattese. Vi è una profondità tale da aprire significati a raggiera e quindi in molteplici direzioni. Infine, trovo che la polifonia sacra, soprattutto quella del tardo rinascimento e del primo barocco, disegni una condizione umana che è lo stare sospesi tra cielo e terra. Per questo la ascolto e lascio che mi attraversi e si riverberi nella mia musica.
Anche dalla poesia religiosa in volgare italiano, detta lauda, lei ha tratto fonte di ispirazione in diverse composizioni. Penso ad esempio alla sua opera Devequt II, per ensemble di voci e viola narrante, su testo di Jacopone da Todi (1230/1236-1306).
Devequt II è il suono che nasce dalla narrazione di Jacopone da Todi e dall’esperienza talmudica della totale unione con Dio, tema costante della Kabbalah, del Mussar e della letteratura chassidica. È un suono che si fa carico dell’indicibile, come risonanza del silenzio e prolungamento della parola stessa. I testi, tutti estratti dalle Laude, sono stati ri-composti per evidenziare la lacerazione, il ritrovamento, la spoliazione, la perdita di sé, l’abbandono.
La viola contrappunta gli eventi, si interseca, introduce e collega situazioni diverse, sottolinea particolari figure come una lente di ingrandimento. È, allo stesso tempo, una voce narrante che supera e sublima la parola: suono puro, canto, soffio. Voglio ricordare che questa mia opera è legata al mio amico Christophe Desjardins, violista sublime, tra i più grandi al mondo, scomparso lo scorso febbraio.
Le sue opere sono state eseguite negli anni in luoghi e in occasioni d’importanza culturale internazionale. Penso ad esempio alla Biennale di Venezia e alla collaborazione con Radio France. Il prossimo 14 ottobre, a Napoli, presso il Teatro delle Palme (Via Vetriera, 12 – ore 20.30) si terrà la prima esecuzione assoluta della sua composizione “Vento di Kadìm” per quartetto d’archi eseguito dal Quartetto Prometeo. Ci può illustrare i caratteri principali di questa sua opera?
Kadìm è un vento caldo d’Oriente che passa attraverso il deserto, diventando secco e polveroso. Si dice che abbia aperto in due il Mar Rosso agli Ebrei e che per questo sia portatore di notizie. Il suo passaggio costringe a stare chiusi in casa e cambia il paesaggio intorno, perché ricopre di sabbia ciò che incontra. La musica trae spunto dall’idea di un vento che riveste e trasforma le cose e rende in processi temporali ed energetici questa momentanea metamorfosi del paesaggio.
Il quartetto è diviso in due parti: nella prima i processi iniziano a svelarsi per assumere una forma definitiva organizzata in cicli crescenti di micro e macro-vortici e accumuli energetici; la seconda ha carattere di stabilità ed è prima ipnotica e poi di quiete. In conclusione, una coda col presagio di un possibile ritorno di Kadìm.
QUI “Alle guerre d’amore: Ai suoi occhi“ di Gianvincenzo Cresta