Recensione al volume: Tommaso d’Aquino, «Il Male», introduzione, traduzione e apparati di Fernando Fiorentino, testo latino a fronte, Rusconi, Milano 1999, pag. 1.428. L. 49.000
di Giovanni Reale
Ricordiamo che a quest’opera fa esplicito riferimento il celebre thriller di David Fincher (con Brad Pitt e Morgan Freeman), Seven, ossia i sette peccati capitali: gola, avarizia accidia, superbia, lussuria, invidia e ira. Un film da incubo che ha per protagonista un killer psicopatico, il quale impersona questi sette peccati. Si tratta di un lavoro che rappresenta un modo opposto, ma significativo, di affrontare in ottica cinematografica questo complesso problema sviluppato da Tommaso in modo filosofico in ben altra dimensione.
La trattazione del problema del male ha una storia assai lunga e complessa.
Platone in certi suoi dialoghi (specialmente nel Fedone) indicava il «corpo» come origine dei mali per l’uomo. Leggiamo il passo più spinto in questa direzione: «Fino a quando noi possediamo il corpo e la nostra anima resta invischiata in un male siffatto, noi non raggiungeremo mai in modo adeguato quello che ardentemente desideriamo, vale a dire la verità. Infatti, il corpo ci procura innumerevoli preoccupazioni per la necessità del nutrimento; e poi le malattie, quando ci piombano addosso, ci impediscono la ricerca dell’essere. Inoltre, esso ci riempie di amori, di passioni, di paure, di fantasmi di ogni genere e di molte vanità, di guisa che, come suol dirsi, veramente, per colpa sua, non ci è neppure possibile pensare in modo sicuro alcuna cosa punto. In effetti, tumulti e battaglie non sono prodotti da null’altro se non dal corpo e dalle sue passioni».
«Tutte le guerre si originano per brama di ricchezze; e le ricchezze noi dobbiamo di necessità procacciarcele a causa del corpo, in quanto siamo asserviti alla cura del corpo. (…) E la cosa peggiore di tutte è che, se riusciamo ad avere dal corpo un momento di tregua e riusciamo a rivolgerci alla ricerca di qualche cosa, ecco che, improvvisamente, esso si caccia di mezzo alle nostre ricerche, dovunque, provoca turbamento e confusione e ci stordisce, sicché, per colpa sua, noi non possiamo vedere».
Naturalmente, si tratta di un testo “provocatorio”; infatti Platone (anche in dialoghi anteriori al Fedone) attribuiva la causa del male soprattutto alla parte peggiore della nostra anima. Ma, in ogni caso, egli imputava all’elemento materiale l’origine metafisica dei mali.
Anche Plotino, che ha abbozzato una nuova interpretazione del male come «privazione del Bene», preparando la concezione che Agostino porta in primo piano e che Tommaso stesso sostiene, non è riuscito ad eliminare completamente la connotazione negativa della materia. Infatti la materia, per Plotino, sarebbe la privazione estrema della potenza produttrice del Bene supremo; ma a tale “privazione” egli finisce con l’attribuire ancora una funzione negativa e, in ultima analisi, la considera ancora fonte di male: «La materia è causa per l’anima di debolezza e di malvagità. Essa è infatti innanzitutto cattiva e il primo male: e l’anima stessa, qualora sia nella materia e l’abbia subita, genera il divenire e, se s’accomuna con essa, diventa cattiva: causa ne è la presenza della materia: l’anima infatti non parteciperebbe del divenire se non lo ricevesse in sé, per la presenza della materia».
E’ stato Agostino (con alle spalle cospicui contributi in questo senso dati dalla Patristica greca) a imprimere una svolta decisiva a questa questione: la materia è una «creazione di Dio» e, in quanto tale, è essa stessa, come tutte le cose create da Dio, un bene: «Dunque, non si deve chiamare male questa materia che non si può percepire mediante qualche forma, ma che a malapena di può pensare con ogno sorta di privazione di forma. In effetti essa ha capacità di ricevere forme. (…) D’altra parte, se la forma è un determinato bene , (…) anche la capacità di ricevere la forma è pure un bene»
Da che cosa dipende allora il male?
La risposta che dà Agostino – la quale, sulla base dei testi biblici, capovolge il modo di pensare tipicamente ellenico – è la seguente: il male dipende non da un principio negativo, ossia da una natura fonte di male, ma dalla «volontà» dell’uomo e a cattive scelte operate da essa.
Ma se non esiste qualcosa che sia male in sé e per sé quando la volontà pecca, che cosa sceglie?
La risposta di Agostino è categorica: il peccato e il male morale non sono «il desiderio di volontà cattive, ma sono la rinuncia ad una realtà migliore». Pertanto il male sta non nelle cose e meno che mai in chi le ha create , ma nell’uso scorretto che l’uomo fa di esse: sta nella scelta di cose inferiori in luogo di ciò che è superiore.
Tommaso riprende, approfondisce e sviluppa questi pensieri con grande finezza. A qualche lettore moderno la metodologia delle «questioni disputate», seguita da Tommaso in quest’opera in modo veramente capillare, può non piacere, o comunque disturbare: si passa dalla tesi alle obiezioni alla tesi, alle contro obiezioni per giungere alla risposta generale e alla risposta alle obiezioni. E’, questo, un esempio di metodo emblematico di insegnamento e di apprendimento.
Fiorentino precisa: «Il confronto scorre sui binari d’una forma dialogica rigorosa e avviene non più fra tesi, ma fra ricercatori, aventi ognuno proprie convinzioni ben definite, difese con vigore e passione. Questo elemento della disputa è fortemente formativo, perché l’opponens, a differenza del testo, può replicare e rimettere in discussione la soluzione stessa, avanzata dal proponens, il quale è costretto a dare più solidità argomentativa alla propria tesi. Attraverso la quaestio si manifesta in concreto, nello stesso tempo e luogo, la teoria della comunità della ricerca, quella che Aristotele colloca nell’arco della Storia della Filosofia»
Naturalmente, il lettore moderno può soffermarsi soprattutto sulle “risposte”, ma va in ogni caso ben rilevato che, sia nelle obiezioni che nelle contro obiezioni e nelle risposte specifiche alle obiezioni si incontrano pensieri di grande portata e spesso assai stimolanti.
La concezione di fondo dell’opera di Tommaso, che riprende e sviluppa un concetto-cardine agostiniano, è la seguente: ogni affezione dell’anima deriva dall’amore; e l’amore può essere ordinato oppure disordinato.
Dunque, l’”ordine”, la “misura” sono fonte di bene, mentre il “disordine” e la “dismisura” sono fonte di male. Agostino esprimeva il fondamento di tale concezione nel modo che segue: «Non è senza misura Colui ad opera del quale è stata conferita misura a tutte le cose. (…) Ma se diciamo che Dio è la misura suprema, forse diciamo qualcosa: però, se con ciò che chiamiamo misura suprema, noi intendiamo Bene supremo».
Il male in tutte le sue forme non è altro che «amore disordinato». Scrive Tommaso: «la prima delle passioni è l’amore, dalla quale si originano tutti gli affetti dell’anima, come dice Agostino nel quattordicesimo libro della Città di Dio. Dunque, soprattutto l’amore disordinato deve essere posto come vizio capitale, specialmente perché Agostino, nello stesso libro, dice che l’amore di sé fino al disprezzo di Dio è il fondamento della città di Babilonia».
Questo amore di sé fino al disprezzo di Dio in senso supremo, è la “superbia”. Essa non è, propriamente, uno dei sette peccati capitali, quanto piuttosto la fonte di tutti e sette, nel senso che ogni peccato capitale non è altro che una forma specifica di superbia.
Ecco un bel passo in cui Tommaso esprime in modo perfetto il suo pensiero su questo punto: «Fra tutte le altre cose che l’uomo naturalmente desidera, una è l’eccellenza. Infatti, è naturale non solo per l’uomo ma anche per qualsiasi essere desiderare la perfezione nel bene bramato, la quale consiste una certa eccellenza. Dunque, se l’appetito desidera l’eccellenza secondo la regola della ragione informata da Dio, sarà un appetito retto e secondo quanto dice l’Apostolo Paolo nella Seconda Lettera ai Corinzi: “Noi invece non ci gloriamo oltre misura”, quasi in un’altra regola “ma secondo la regola con cui Dio ci ha misurati”.
Se poi qualcuno viene meno a questa regola, incorre al vizio della pusillanimità; invece se va oltre ci sarà il vizio della superbia, come dice lo stesso nome. Infatti insuperbirsi nient’altro è che andare oltre la propria misura nel desiderio della propria eccellenza. Perciò Agostino, nel quattordicesimo della Città di Dio, dice che la superbia è “il desiderio d’un’eccellenza perversa”».
E così come l’amore di Dio è quello che regola tutte le altre virtù, e quindi è comune a tutte quante le virtù in una forma specifica, la stessa cosa si può dire analogamente della superbia: «benché sia uno specifico peccato secondo la ragione formale del proprio oggetto, tuttavia, secondo una certa diffusione del proprio dominio, è un peccato comune a tutti gli altri. Per questa ragione è detta radice e regina di tutti i peccati»
L’analisi dei singoli peccati capitali, come abbiamo già sopra ricordato, offrono riflessioni e spunti veramente toccanti. Tommaso segue questo ordine. Parla innanzitutto della vanagloria, per passare quindi all’invidia, all’accidia, all’ira, all’avarizia, alla gola e in fine alla lussuria.
Una tesi di fondo che colpisce in Tommaso (così come in Agostino) è la seguente, in parte desunta dal pensiero greco: nessuno vuole il mal, e chi commette il male lo commette considerandolo come un proprio bene, o comunque giudicandolo in funzione di ciò che egli considera bene. Ecco un esempio particolarmente significativo: se accade che uno voglia a tal punto godere di un piacere (per esempio per mezzo di un adulterio o di qualsiasi altra cosa del genere che sia desiderabile), da non rifuggire dall’incorrere nella deformità del peccato, che s’avvede essere congiunta con ciò che vuole, non solo si dirà che vuole quel bene che principalmente desidera, ma anche la stessa deformità, che preferisce sopportare pur di non essere privato del bene desiderato.
Perciò l’adultero vuole certo principalmente il piacere e secondariamente la deformità, secondo l’esempio fatto da Agostino nel Discorso del Signore sulla montagna: uno sopporta volontariamente la dura schiavitù del suo padrone per amore della serva».
Si tratta di una cospicua opera di Tommaso, curata da un suo amante, con gusto e con perizia.
E’ forse finito il lungo periodo di “esilio” cui il grande santo filosofo è stato condannato nell’ultimo trentennio.