Sconfitto il progressismo, ha fallito sulla dottrina.
di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro
Il don Camillo che è stato al vertice della Cei dal 1986 al 2007, prima come segretario generale e poi come presidente, ha il merito indiscutibile della messa in mora del progressismo cattolico. L’operazione deve ancora concludere il proprio corso, ma è inesorabilmente avviata e comporta un inequivocabile segno più nel bilancio di fine mandato del cardinale. Per fugare ogni dubbio, basti pensare alle uscite biliose di una Rosy Bindi e di un Pierluigi Castagnetti in ritiro a Bose o quelle di un Alberto Melloni atterrito da ciò che ìdefinisce “ruinismo-leninismo”.
Se si pensa a che cosa era la chiesa italiana degli anni Settanta, si deve riconoscere che oggi potremmo stare molto peggio se il ruinismo non avesse tentato una certa normalizzazione. Ruini comprese presto che la chiesa italiana era minata dal cattocomunismo dossettiano, la dottrina secondo cui il radioso destino dell’umanità consisterebbe nell’incontro di un cattolicesimo un po’ meno cattolico con un comunismo un po’ meno comunista. Teoria che, quando si trasforma in prassi, produce sempre l’incontro tra un cattolicesimo molto meno cattolico e un comunismo perfettamente comunista.
Senza rischiare troppo di essere generosi, si può pure ipotizzare che il cardinale vide nel dossettismo il figlio primogenito dell’idea di Jacques Maritain secondo cui, morta la cristianità, bisognerebbe pensare a una nuova forma di presenza cristiana nel mondo. La soluzione del filosofo di Umanesimo integrale stava nella bifida invenzione dei due assoluti: «l’assoluto di quaggiù, ove l’uomo è Dio senza Dio, e l’assoluto di lassù dove Dio è in Dio».
Come scrisse padre Antonio Messineo, secondo Maritain, «sul piano della storia non opererebbe il Cristianesimo in quanto religione rivelata e trascendente, non il Vangelo nella sua purità originaria di parola divina trasmessa all’uomo, non l’ordine della Grazia e delle realtà superiori in esso contenute, ma un cristianesimo e un Vangelo vuotati del loro contenuto originale e naturalizzati, temporalizzati». Da qui, la necessità di dar vita a una “cristianità profana” da contrapporre alla “cristianità sacrale” ormai superata. Un’opera pratica «da realizzare in spirito di amicizia fraterna fra i componenti delle varie famiglie spirituali presenti nella società».
Per fare ciò, quali migliori compagni di strada dei comunisti, ritenuti dei cugini un po’ eretici ma riconducibili all’ovile? Gli effetti sul mondo cattolico di questa netta separazione tra natura e sopranatura si sono mostrati devastanti, sia ab intra sia ad extra. Abbandono della pratica religiosa, calo di vocazioni, anarchia e rivolta antigerarchica ab intra, cui ha fatto da pendant, ad extra, la progressiva ininfluenza cattolica nella società.
Dal canto suo, il presidentissimo della Cei si rese conto che l’abbraccio con il cattolicesimo democratico avrebbe avuto esiti mortali. E che il male era già molto progredito nel corpo ecclesiale, coinvolgendo la forma mentis di molti vescovi e di molte curie, abituati ormai a ragionare e ad agire “etsi Papa non daretur”.
La risposta ruiniana a tale situazione si concretizzò in una granitica lealtà al Pontefice e nel commissariamento della Cei avviato sotto Giovanni Paolo II. Don Camillo, quello di «Il nome e la storia di Emma Bonino sono un programma incompatibile con altri, e in ogni caso certamente affinato con aperta e spesso aspra ostilità verso la visione cristiana della vita e dei rapporti sociali. Decidere di fare di un simile contributo un “mattone” del muro della casa comune del Pd significa fare una scelta precisa e pesante». E «le sottovalutazioni si pagano».
Ieri il direttore dell’Avvenire Marco Tarquinio ha spostato «il diavolo Bonino» a pagina 2, rispondendo con argomentazioni secche e a tutto tondo a una lettera di Pier Luigi Bersani. Che a sua volta replicava a un editoriale del quotidiano dei vescovi firmato da Sergio Soave il quale, prendendo spunto dall’addio di Paola Binetti al Partito democratico, rifletteva in modo piuttosto tranchant sul «disinteresse colmo di sufficienza» del Pd rispetto alla questione della “pari dignità” dei cattolici nel partito.
Tarquini, confermando il giudizio, ha insistito sulla “sostanziale solitudine” in cui “stranamente” i cattolici si sono trovati a coltivare “il tema della libertà di coscienza”. Solitudine aggravata dalla scelta Bonino. Tanto che in penultima pagina, rubrica lettere, Tarquinio ha addirittura raddoppiato, con un giudizio netto sulla “incompatibilità irriducibile” di Emma Bonino con il sentire politico cattolico: «Una melensa propaganda di stagione… non può cancellare decenni di tragiche battaglie radicali contro la visione cristiana della vita».
L’uno-due di Avvenire è significativo anche perché mostra la ripresa di una libertà di giudizio forte, non preoccupata di creare eventuali scontenti, laddove negli ultimi tempi era sembrata prevalere la virtù (ecclesiale) della prudenza. Difficile non cogliere una connessione tra il parlar chiaro di Avvenire e l’addio al Pd di Paola Binetti. Con il suo abbandono, si chiude di fatto la stagione della “pattuglia teodem”. Resta il solo Luigi Bobba, significativamente, però, figlio di un’altra famiglia del cattolicesimo sociale, quella aclista.
Un po’ verità e un po’ semplificazione giornalistica, fin dal varo del Pd i “teodem” sono sempre stati indicati come una pattuglia di esploratori ruiniani – se non addirittura di sabotatori in sonno dell’esperimento veltroniano. Più realisticamente, una sorta di avamposto chiamato a testare la consistenza di una scommessa politica: se si potesse cioè praticare una certa visione dell’impegno cattolico nella vita pubblica anche in quel terreno. Un elemento aggiuntivo, insomma, della sottile dottrina elaborata dal cardinale Camillo Ruini per l’Italia del bipolarismo: un’equidistanza tra i due poli, corroborata da “una presenza significativa” di cattolici in entrambi gli schieramenti.
L’addio di Binetti indica che il tempo di quell’esplorazione è concluso, la pattuglia può rientrare alla base. Se c’era da “vedere” un bluff, è stato visto. Nel Pd restino, se vogliono, cattolici portatori di altri Dna. Si è conclusa una stagione, ma il metodo Ruini non va in archivio: la gerarchia continuerà a praticare un’equidistanza (meno spericolata) tra due fronti, quello del centrodestra e quello dell’ipotetico progetto centrista.
La chiusura del caso fatta da Avvenire sembra confermare che lo spazio per le chiacchiere del Pd stia ormai a zero. E, sottilmente, lascia anche leggere in trasparenza un indirizzo dei vescovi univoco. Maurizio Crippa Sassuolo, ebbe carta bianca e, di punto in bianco, un episcopato abituato a rispondere solo a se stesso o, al più, alla linea dettata dal cardinale Martini nel ruolo di Grande Antagonista, capì che la ricreazione era finita.
Ma qualcosa non ha funzionato a dovere. Oggi, due decenni dopo, Carlo Maria Martini continua a essere il Grande Antagonista a capo di una chiesa che poco o nulla vuole avere a che fare con Roma. Basta fare un giro per le parrocchie della penisola per trovare parroci, curati, catechisti e catecumeni orgogliosi di essere portatori di un pensiero “altro” rispetto a quello del Papa. «Caro don Tal dei Tali», si è sentito dire dai catechisti un sacerdote di fresca nomina in parrocchia, «guardi che qui insegniamo che tutti i metodi per la contraccezione sono buoni e lei non si sogni nemmeno di dire il contrario. Il Papa dica quel che vuole e noi facciamo quel che vogliamo».
Sono innumerevoli le parrocchie italiane nelle quali si susseguono episodi analoghi sul piano della dottrina, della morale, della liturgia. Ed è qui che il modello ruiniano mostra la corda: il divorzio tra Roma e la periferia, il “federalismo dottrinale”, la forbice sempre più ampia tra magistero e predica domenicale, tra Evangelium vitae e singole facoltà teologiche sono cronaca di oggi come, e forse più, di vent’anni fa. Tutti fenomeni che il commissariamento della Cei non ha saputo contrastare. Se, a lungo andare, una malattia non passa, significa che il medico si è occupato dei sintomi invece che delle cause.
Allarmato dalle sbandate del suo episcopato, il presidente della Cei ha scelto una cura squisitamente pragmatica, anzi empirica, riassumibile in due postulati: primo, la conferenza detta la linea, e ogni vescovo si adegua e tace, secondo, la linea è più importante della dottrina. Risultato: la febbre ora si vede forse di meno, ma c’è esattamente come prima. Basta pensare alla rivolta pressoché generale dei vescovi in occasione del Motu proprio con cui Benedetto XVI ha ridato piena cittadinanza alla liturgia antica: la Cei avrebbe potuto e dovuto ricordare ai vescovi il loro giuramento di fedeltà al Papa, ma non disse nulla, assistendo impassibile allo scisma strisciante della diocesi di Milano, che dichiarò non applicabile il documento pontificio aggrappandosi al cavillo del rito ambrosiano.
Il vero problema sta nel fatto che la crisi del cattolicesimo italiano non è solo politica, ma innanzitutto dottrinale. Messa fra parentesi la dottrina per manifesta irrilevanza e ridotto al silenzio l’episcopato sul versante propriamente ecclesiale, si è ottenuto di spingere ulteriormente i vescovi, singolarmente o in gruppo, verso l’unica ribalta che potesse dar loro lustro, la politica.
Una deriva a cui non ha posto argine l’altra idea che ha segnato l’era di Ruini alla guida della Cei, il “Progetto culturale” varato nel 1997. Un disegno faraonico che avrebbe dovuto riconquistare il popolo cattolico alla gerarchia e il mondo alla chiesa, ma che, invece, si palesa come una kermesse continua di iniziative dai contenuti equivoci.
Basti pensare che le vere star del “Progetto culturale” si chiamano Massimo Cacciari, Umberto Galimberti, Enzo Bianchi, Edoardo Boncinelli. Oppure che, nonostante le oltre duecento radio del circuito InBlu sovvenzionate dal “Progetto”, per trovare una programmazione radiofonica cattolica 24 ore su 24, bisogna sintonizzarsi su Radio Maria.
Per non parlare di Sat 2000, una tv dal dimenticabile, e dimenticato, palinsesto fatto con le repliche delle fiction sui santi prodotte dalla Lux e già passate su Raiuno e che per giunta irradia via satellite verso un popolo cattolico che ignora quasi totalmente l’esistenza delle parabole. Se oggi, dopo 13 anni di elaborazione, si va sul sito del “Progetto culturale” si trovano affermazioni come le seguenti: «A che serve tutto questo? A costruire, con le categorie di oggi, una visione del mondo cristiana, consapevole delle proprie radici e della propria pertinenza sulle questioni vitali e fiduciosa circa le proprie potenzialità nel dialogo con la cultura contemporanea».
«Creare una nuova enciclopedia cattolica? No: si tratta di riconoscere le sfide cruciali che la cultura pone oggi alla fede. Proprio raccogliendo queste sfide la fede esprime la sua energia creativa e alimenta il rinnovamento dell’uomo e della società. Se si punta infatti a definire tutto, ad avere l’inventario dei contenuti per poi svilupparli uno a uno il rischio è quello della paralisi. Se, al contrario, cerchiamo di abitare le questioni che concretamente sono di fronte a noi, allora ci mettiamo in condizione di proporre stili di vita cristiani praticabili e plausibili. Insomma, i contenuti del progetto culturale non sono e non saranno un’enciclopedia, piuttosto il frutto di un cammino quotidiano di traduzione del Vangelo nella vita».
Viene da chiedersi dove si possa arrivare con un simile linguaggio burocratico-piacione che sa dire solo un «No» deciso e lo grida contro l’idea di «una nuova Enciclopedia cattolica». Quella vecchia, detto per inciso, la si può trovare a prezzi stracciati in liquidazione nei seminari della Penisola. Non è questa la strada per riportare il cristianesimo al centro dello spazio pubblico e misurarsi con il mondo.
Se non si ripiglia in mano la questione dottrinale, se non si torna ai fondamenti della fede, non si potrà mai pensare a un progetto di presenza culturale nella società. Il cattolico medio, oggi, non solo non è in grado di esporre decentemente le ragioni della propria fede, ma non sa esporre, neanche indecentemente, la propria fede. Anzi, facilmente mostrerà con orgoglio dubbi sostanziali sugli articoli del “Credo”, che pure recita ogni volta che va a Messa.
Così, gettato nella mischia privo di dottrina, il mondo cattolico ha finito per muoversi sull’unico piano in cui, almeno in apparenza, la dottrina non gli sembrava fondamentale: la politica. E qui si è creato il cortocircuito in cui l’opera ruiniana ha fatto da conduttore. Piuttosto che lasciare spazio ai singoli, si è pensato fosse meglio che delle questioni politiche si occupasse direttamente l’apparato. E la Cei è divenuta vero e proprio attore politico finendo per mediare sui valori. Non poteva andare diversamente visto che qualsiasi controparte, in una mediazione, mette in gioco ciò che possiede.
L’esempio lampante sta nella legge 194 che, da legge iniqua ai tempi del referendum, è divenuta «la legge migliore d’Europa» basta che venga applicata interamente, una legge «che noi non vogliamo cambiare», come disse testualmente Camillo Ruini in una storica intervista al Tg1 all’indomani del referendum sulla legge 40. Legge, quest’ultima, sostenuta con furore dogmatico, al prezzo di impedire a vescovi e laici ortodossi di proclamare la illiceità morale e giuridica di ogni fecondazione artificiale. Con il risultato di far intendere che la Fivet omologa «è quella cattolica». Si finisce per perdere di vista lo specifico cattolico.
Persino la cosiddetta vittoria al referendum sulla procreazione assistita va inquadrata in questa visuale. Si è fatto passare per una vittoria dell’Italia cattolica un risultato che sommò alla legittima astensione intenzionale di molti cattolici anche il cospicuo menefreghismo di una quota forse decisiva di indifferenti. Perché il ruinismo è anche questo: un trionfalismo senza fondamento vagheggiante un’Italia immaginaria che sarebbe ritornata “pro life” e “per la famiglia”, e che invece, nella realtà, si dibatte nel medesimo processo di secolarizzazione che affligge tutto il mondo.
Qui, quella che molti hanno definito la “genialità politica” di Ruini mostra tutti i suoi limiti, in primis quello di servirsi della politica per amministrare alla meno peggio la realtà invece che tentare di ri-cattolicizzarla. Limite che, a ben guardare, ripropone lo schema dossettiano della separazione tra piano della natura e piano della Grazia. Ecco perché, per tornare simmetricamente all’inizio di queste riflessioni, il don Camillo della Cei si discosta da quello di Guareschi.
Quando Peppone e i suoi vogliono impedirgli di andare in processione a benedire il Po, lui si avvia verso il fiume seguito solo da un cagnetto e, una volta trovatasi davanti la banda comunista al completo, cava il Crocifisso dalla cinghia e lo brandisce come una clava. Poi, recita questa preghiera: «Gesù, se in questo sporco paese le case dei pochi galantuomini potessero galleggiare come l’arca di Noè, io vi pregherei di far venire una tal piena da spaccare l’argine e da sommergere tutto il paese. Ma siccome i pochi galantuomini vivono in case di mattoni uguali a quelle dei tanti farabutti, e non sarebbe giusto che i buoni dovessero soffrire per le colpe dei mascalzoni tipo il sindaco Peppone e tutta la sua ciurma di briganti senza Dio, vi prego di salvare il paese dalle acque e di dargli ogni prosperità».
Ora, direttore, ci dirai che siamo ben originali a proporre una pastorale di tal guisa all’epoca del dialogo. Ma noi ti possiamo dire che qualche prete alla don Camillo di Mondo piccolo c’è ancora e ognuno può raccontare per le loro storie di evangelizzazione un finale che somiglia molto a quello che andiamo a trascrivere: «- Amen – disse dietro le spalle di don Camillo la voce di Peppone. – Amen risposero in coro, dietro le spalle di don Camillo, gli uomini di Peppone che avevano seguito il Crocifisso. Don Camillo prese la via del ritorno e, quando fu arrivato sul sagrato e si volse perché il Cristo desse l’ultima benedizione al fiume lontano, si trovò davanti: il cagnetto, Peppone, gli omini di Peppone e tutti gli abitanti del paese. Il farmacista compreso che era ateo ma che, perbacco, un prete come don Camillo che riuscisse a rendergli simpatico il Padreterno non lo aveva mai trovato».
I non pochi don Camillo di oggi dicono che questo metodo funziona ancora. Si chiama Regalità sociale di Cristo e, come si è visto, riesce a trovare a ciascuno il suo posto, persino al farmacista ateo.
Trent’anni di ruinismo hanno emarginato il Vangelo, sostiene Melloni Il Vangelo basta, basta con il ruinismo. Un anno dopo le iniziative del dissenso cattolico a Firenze, Carocci pubblica “Il Vangelo basta” (160 pagine, euro 17,50), una specie di rapporto “sulla fede e sullo stato della chiesa italiana”. Lo hanno curato lo storico Alberto Melloni e il teologo Giuseppe Ruggieri, dioscuri della scuola di Bologna a lungo guidata da Giuseppe Alberigo.
Sotto la loro regia un mal di pancia locale, sia pure in una diocesi significativa come quella di Firenze, è diventato un dossier sulla salute del cattolicesimo nazionale. Salute pessima, è la diagnosi, soprattutto perché negli ultimi anni i vertici ecclesiastici, con una scelta la cui motivazione sfugge ai più, per qualificare la presenza pubblica della chiesa nella società hanno scelto il registro dell’etica e dei cosiddetti valori non negoziabili.
Il Vangelo in quanto tale sembra non avere eloquenza e forza per farsi ascoltare»; così Melloni e Ruggieri nell’introduzione. «Un’occasione perduta» la definisce lo storico bolognese nella sua ricognizione degli ultimi trent’anni della chiesa in Italia, di cui il protagonista indiscusso è Camillo Ruini che Melloni conosce da una vita e con il quale condivide, anche oggi che le loro strade si sono divise, un’autentica passionaccia politica.
Che però sarebbe stata fatale al cardinale di Sassuolo: «Proprio per consacrarsi alla missione politica che ha ritenuto prevalente, il card. Ruini ha consapevolmente rinunciato alla irripetibile occasione che gli si era presentata: essere il maieuta di quella chiesa italiana come comunione pacificata e pulita che Paolo VI aveva visto durante il caso Moro». La politicizzazione dell’episcopato da lui voluta è stata sì vincente (vedi legge 40) ma «ha causato un’emorragia al prestigio spirituale del cattolicesimo che le frequenti trasfusioni di ossequio politico segnalano, ma non curano».
In fondo anche il caso Boffo, con tutte le sue ramificazioni, per Melloni è «il salario del ruinismo», il tramonto di una stagione da non rimpiangere. Perché, sostiene, Melloni, tutti in qualche modo ne hanno sofferto e nessuno, progressista o conservatore, può tirarsene fuori. (mb)