La Croce quotidiano 24 maggio 2016
La legge della vergogna entrerà in vigore proprio il giorno delle elezioni amministrative. Dopo la controfirma-lampo del Presidente Mattarella, l’ex DDL Cirinnà è stato infatti pubblicato già sabato scorso sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica (n.118 del 21-5-2016) ed è diventato la “legge” 20 maggio 2016, n. 76. Le cause, però, nascono da lontano…
di Giuseppe Brienza
«Le conseguenze socioculturali di politiche improntate a quello che potremmo definire un “politeismo familiare” (“famiglie” al plurale anziché “famiglia”) sono disastrose: “l’indifferenza dei legami familiari aumenta il tasso di anomia della società, che è il terreno fertile su cui crescono i suicidi, le malattie mentali e le patologie relazionali di ogni genere (incluse le tossicodipendenze), cui vanamente si cerca di rimediare con più servizi di welfare oppure con il ricorso ad altri farmaci” (Pierpaolo Donati). Lo Stato “neutrale”, del resto, è un’astrazione irreale, dato che sempre ogni decisione politica ha un presupposto antropologico di morale sociale, consapevole o meno che sia. È vero piuttosto, drammaticamente, che quando lo Stato sociale assume un atteggiamento eticamente neutrale verso la famiglia, nei fatti, esso finisce per penalizzarla». Così scrivevo quindici anni fa in un saggio organico sulle politiche della famiglia che, mi illudevo, sarebbe stato utile per un possibile rilancio dell’attenzione politica alla famiglia ed ai figli nel nostro Paese (cfr. G. Brienza, Famiglia e politiche familiari in Italia, “Prefazione” di Rocco Buttiglione, Carocci Editore, Roma 2001, p. 21).
Allora si era appena costituito il secondo governo Berlusconi e, la Prefazione al mio libro, me l’aveva scritta persino un Ministro in carica, che oggi sembra essersi trasformato in tutt’altra persona (politicamente parlando) rispetto a quegli anni. Il tempo è passato velocemente e, oggi, ci troviamo a parlare dell’entrata in vigore della legge della vergogna, la Renzi-Alfano (già Cirinna) che, a tempo di record, è stata controfirmata dal Presidente della Repubblica e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale.
Anche la legge n. 76/2016, che ha definitamente sdoganato le “unioni omosessuali” equiparandole quasi del tutto alla famiglia fondata sul matrimonio, ha un titolo ipocrita: “Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze”. Non si tratta, infatti, di “regolamentare”, ma di chiudere un processo storico-ideologico. Un processo che è nato da lontano e, giuridicamente (oltre che politicamente), ha avuto un suo passaggio fondamentale nel nostro Paese quando si è iniziato a parlare non più di “famiglia” come destinataria dei diritti e delle politiche, ma di “famiglie”, al plurale. In quest’ultima dizione, infatti, si sono volute ricomprendere, affianco ed al pari dell’unione coniugale riconosciuta dall’art. 29 della Costituzione, i nuclei monogenitoriali, quelli dei genitori separati, quelli divisi dal divorzio, quelli ricostruiti ecc.
Aperta la falla, nel calderone si sono fatte facilmente rientrare anche le unioni omosessuali o, come dicono gli ideologi LGBT, le “famiglia omogenitoriali”. «Si sente spesso parlare di “famiglie tradizionali”, per lo più in funzione oppositiva rispetto a quelle omogenitoriali», scriveva trionfalmente l’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali (UNAR) nel 2013, nelle “Linee guida per un’informazione rispettosa delle persone LGBT”, documento pubblicato nell’ambito del Progetto “LGBT Media and Communication”, finanziato dal Consiglio d’Europa (cfr. PCM-Dipartimento per le pari opportunità, Roma 2013, p. 6). L’Italia vi ha aderito, tramite il Dipartimento per le pari opportunità, “sposando” contestualmente la famigerata “Strategia nazionale LGBT 2013–2015”.
L’utilizzo della dizione “famiglie”, al plurale, come conferma l’UNAR nelle sue “Linee guida”, «segna l’adozione di un punto di vista inclusivo di tutte le differenze, dove a fare da trait d’union tra le varie manifestazioni dell’idea di famiglia sono i concetti di legame stabile, amore, cura, responsabilità» (UNAR, Linee guida per un’informazione rispettosa delle persone LGBT”, op. cit., p. 6). Ecco che il gioco è fatto, perché è sempre prima delle leggi che si afferma la sotto-cultura o la mentalità manipolata dei più che preparano il terreno…
E quindi debutterà proprio la domenica del voto delle amministrative una delle leggi più discusse (e combattute) degli ultimi anni. Se la precipitazione della contro-firma e della pubblicazione della legge della vergogna sono motivate dalla necessità di “riscuotere” in termini elettorali la concessione fatta agli ambienti LGBT, certi politici si sbagliano di grosso. Il lungo lavorio parlamentare, soprattutto del primo passaggio al Senato, caratterizzato dall’assenza di confronto, dagli strappi costituzionali e procedurali, dalla ricerca di un compromesso a tutti i costi tra le varie anime della maggioranza, non porterà infatti nessun vantaggio alla sinistra di Governo e, tanto meno, al centro-destra renziano costituito dagli Alfano & co.
La “legge Cirinnà”, perché la norma rimane legata al nome della relatrice a Palazzo Madama, la senatrice Pd Monica Cirinnà, sarà ricordata d’ora in poi come “legge della vergogna” anche per la sua “confezione” formale (in senso tecnico si parla di “drafting”): un unico articolo diviso in 69 commi (8 pagine!). La pubblicazione in «Gazzetta Ufficiale» farà pure scattare il conto alla rovescia per la sua entrata in vigore ma, come stanno già dimostrando le esperienze degli altri Paesi che hanno introdotto prima di noi le “unioni omosessuali”, di nuove unioni civili dopo il 5 giugno 2016 ce ne saranno ben poche. E di quelle che saranno “registrate”, una buona parte non finirà altro che alimentare un nuovo fronte conflittuale: il “divorzio gay”. Una materia nella quale si stanno già specializzando in Francia, ordinamento fra gli ultimi a omologarsi al “modello arcobaleno” del diritto di famiglia dell’Europa contemporanea (non certo quella dei popoli, ma quella dell’Ue e dell’attuale affine Consiglio europeo).
Per scrivere la parola fine a un’unione civile non basterà solo che uno dei due partner presenti una comunicazione all’ufficiale di stato civile contenente la volontà di sciogliere l’unione, perché dopo tre mesi dalla presentazione della comunicazione si potrà chiedere il divorzio vero e proprio. Quest’ultimo, infatti, potrà essere chiesto per via giudiziale oppure attraverso la “negoziazione assistita” o ancora attraverso un accordo sottoscritto davanti all’ufficiale di stato civile. In caso di divorzio, inoltre, la legge ha previsto che il partner più “debole” abbia diritto agli alimenti, oltre che all’assegnazione della casa. Dalle cause di scioglimento dell’unione civile è esclusa la mancata consumazione del rapporto.
L’unione civile tra persone dello stesso introdotta dalla legge n. 76/2016 si costituisce attraverso una dichiarazione di fronte all’ufficiale di stato civile in presenza di due testimoni, ma a differenza del matrimonio non ci saranno formule particolari. L’ufficiale di stato civile dovrà compilare un certificato che dovrà contenere i dati anagrafici delle parti, il regime patrimoniale scelto e la residenza delle parti. Nel documento saranno contenuti anche i dati anagrafici dei due testimoni scelti dalla coppia e verrà poi registrato nell’archivio di stato civile.
I partner dell’unione civile possono essere riconosciuti come veri e propri coniugi in caso di malattia e ricovero e perfino in caso di morte. In questa circostanza, inoltre, il partner superstite avrà diritto alla pensione di reversibilità, al Tfr dell’altro e anche all’eredità nella stessa quota prevista per i coniugi di un matrimonio. Se uno dei due partner muore l’altro ha diritto al Tfr e anche alla pensione di reversibilità.
Stesso discorso sotto il profilo economico: alle coppie unite civilmente si applicherà il regime della comunione dei beni, sempre che non optino espressamente per la separazione dei beni.
Ma la legge della vergogna sfocia anche nel grottesco, prevedendo ad esempio che, se c’è la volontà, uno dei partner può scegliere il cognome dell’altro, oppure istituendo la figura del “casalingo arcobaleno”. Infatti, prescrive l’art. 1, comma 53, entrambi i componenti dell’unione omosessuale devono contribuire ai bisogni comuni «in relazione alle sostanze di ciascuno e alla capacità di lavoro professionale o casalingo».