Corte d’appello di Firenze – Sezione I civile Decreto 27 giugno 2008
Presidente Chini; Relatore Nencini
Matrimonio – Pubblicazioni – Persone dello stesso sesso – Ufficiale dello stato civile – Rrfiuto – Legittimo -Principio di eguaglianza – Non prevaricazione – Violazione – Limitato esercizio dei diritti fissati – Diritti fondamentali del cittadino. (Costituzione, articoli 3 e 29)
È legittimo il rifiuto dell’ufficiale dello stato civile a effettuare pubblicazioni matrimoniali tra persone dello stesso sesso, non essendo previsto nell’ordinamento di stato civile italiano la possibilità di contrarre matrimonio tra persone dello stesso sesso Tale mancata previsione non prevarica il principio di eguaglianza di cui all’articolo 3 della Costituzione, il quale risulterebbe violato soltanto se, nell’ambito dei limiti fissati dalla legislazione positiva in materia matrimoniale, qualcuno fosse limitato nell’esercizio dei diritti fissati per la generalità deI consociati o risultasse violato alcun diritto fondamentale del singolo cittadino.
I ricorrenti assumevano, nei motivi di impugnazione, che il Tribunale aveva errato allorquando aveva affermato, in primo luogo che esisteva una nozione di matrimonio, ricavabile dalla normativa positiva, la quale presupponeva la diversità di sesso dei nubendi; in secondo luogo ritenevano i ricorrenti che, nel vuoto normativo, spetti al giudice colmare la inevitabile lacuna normativa integrando la votuntas legis sulla base della evoluzione del costume sociale: in ultimo, qualora anche ritenuto sussistente un divieto di contrarre matrimonio tra persone dello stesso sesso, tale divieto risulterebbe contrario ai principi di uguaglianza fissati dalla Costituzione.
Si costituiva nei termini di legge il Comune di (X) resistendo ed affermando la legittimità del diniego prestato dall’Ufficiale dello Stato civile dell’Ente teritoriale, sulla base dell’analisi della normativa vigente. Alla udienza di rito le parti si riportavano alle argomentazioni svolte in atti e concludevano come da verbale di udienza.
Il reclamo è infondato e deve essere respinto.
Osserva preliminarmente la Corte come sia incontrovertibile la circostanza che tutta la normativa positiva afferente all’istituto matrimoniale, sia quella codicistica, sia quella speciale, sia infine quella di rango costituzionale, facciano espresso riferimento alla unione tra persone di sesso diverso; così come è facilmente intuibile che né il legislatore del 1942, né quello costituzionale, né quello del 1975, per evidenti ragioni storiche, potessero raffigurarsi una disciplina positiva di unioni fra persone dello stesso sesso.
Dissertare sul punto sarebbe un inutile esercizio di stile. La questione posta all’attenzione di questo Giudice di appello, quale secondo grado di giudizio di merito, è invero altra; ovverosia se la disciplina positiva dell’istituto matrimoniale ammetta una estensione tout court della normativa alla unione fra persone dello stesso sesso, ovvero, in caso si dovesse ritenere il contrario, se tale disciplina sia in palese contrasto con l’ordinamento costituzionale ovvero con l’ordinamento sovranazionale europeo.
L’istituto del matrimonio è storicamente delineato dalle legislazioni come una disciplina positiva di origine pubblica (normalmente statale negli ordinamenti non federali), volta a regolamentare gli effetti che l’ordinamento giuridico dello Stato, in un determinato contesto storico e sociale, riconosce alla convivenza tra persone. Non costituisce una istituzione pregiuridica (come ad esempio la famiglia), né tantomeno un diritto fondamentale dell’individuo.
I diritti costituzionalmente garantiti per ciascun individuo sono quelli indicati nella prima parte della Carta costituzionale. Tra di essi vi è certamente quello alla non discriminazione per ragioni di orientamento sessuale, nonché la tutela di. tutti quei comportamenti che favoriscano il pieno sviluppo della persona umana (art. 3 Cost.), ma non l’istituto matrimoniale. La Carta costituzionale prende in considerazione l’istituto giuridico del matrimonio, fra i rapporti etico-sociali, al solo fine di stabilire un riflesso considerevole del principio di uguaglianza, e cioè la uguaglianza morale e giuridica dei coniugi (art. 29 Cost.) all’interno dell’istituto matrimoniale, seppure entro il limite che la legge stabilisca a tutela dell’unità della famiglia (vera istituzione pre-giuridica).
Da tali considerazioni deriva inequivocabilmente il limite della giurisdizione che sempre opera nei confronti degli istituti giuridici di diritto pubblico; ovverosia che la disciplina di tutto ciò che non è previsto dalla normativa positiva non può essere disciplinalo dal Giudice, attraverso una attività di vera e propria creazione del diritto, ma deve essere riservato al Legislatore. Compito della Giurisdizione infatti non è quello di creare nuovi diritti, ma più semplicemente quello di tutelare quelli esistenti, eventualmente individuandoli nella legislazione sovranazionale ovvero nella Carta costituzionale, e di promuoverne la tutela alla luce del dettato costituzionale.
Nel caso in esame, peraltro, non sono in discussione diritti fondamentali dell’individuo, né forme di tutela di istituzioni pre-giuridiche che assumono una valenza costituzionale in sé (come la famiglia, la quale è riconosciuta anche come entità di fatto, e non giuridicamente disciplinata); non sono in gioco quindi diritti che trovano una loro fonte e legittimazione al di fuori dell’ordinamento giuridico positivo, ovvero nella Legge fondamentale dello Stato, ma semplicemente un istituto che disciplina determinati effetti che il Legislatore tutela come diretta conseguenza di un rapporto di convivenza tra persone.
E proprio perché la disciplina positiva della convivenza attuata attraverso un istituto giuridico produce effetti che trascendono i rapporti tra le parti (si pensi alla filiazione, ai diritti successori, alla legge di adozione ecc.), tale disciplina ha una valenza pubblica; ed è esclusivo compito del Legislatore, ovverosia del corpo sociale attraverso i propri legittimi rappresentanti, dare nuova forma giuridica alla evoluzione del costume attraverso la creazione di nuovi diritti.
Il principio enunciato risulta peraltro conforme anche agli ordinamenti giuridici sovranazionali, se è vero che la Comunità europea si è ben guardata dal legiferare, in materia matrimoniale, per lutti i Paesi aderenti – così come ha fatto in altri campi del diritto -, ma ha lasciato sempre ai singoli Paesi membri l’adeguamento delle legislazioni nazionali, limitandosi alla indicazione di criteri e principi indicati nelle varie Risoluzioni.
Conforme a tale orientamento è infatti sia l’art. 12 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali che recita «A partire dall’età maritale, l’uomo e la donna hanno il diritto di sposarsi e di formare una famiglia; secondo le leggi nazionali che regolano l’esercizio di questo diritto»; così come conforme risulta il dettato 9 della Carta di Nizza.
Da tali considerazioni risulta infine inconferente il richiamo effettuato dai reclamanti al dettato dell’art. 3 della Carta costituzionale, asseritamente violato dalla normativa che disciplina l’intero istituto matrimoniale, e più in generale al principio di uguaglianza, il quale vuole che vi sia eguale trattamento per le situazioni eguali, e trattamento differenziato per le situazioni di fatto difformi. Ed infatti tale principio costituzionale sarebbe violato soltanto se, nell’ambito dei limiti fissati dalla legislazione positiva in materia matrimoniale, qualcuno fosse limitato nell’esercizio dei diritti fissati per la generalità dei consociati.
Nel caso che ci occupa nulla di tutto questo è avvenuto. Semplicemente l’Ordinamento giuridico italiano non prevede, allo stato, la possibilità di disciplinare attraverso l’istituto pubblicistico del matrimonio unioni tra persone dello stesso sesso. La previsione normativa, peraltro, se da un lato non viola alcun diritto fondamentale del singolo cittadino (non essendo vietata la convivenza), dall’altro non esclude affatto, de iure condendo, che il Legislatore possa farsi interprete del mutato sentire del corpo sociale e legiferare nel senso auspicato dai reclamami; così come risulta abbiano fatto tutti quei Paesi ove la unione in matrimonio tra persone dello stesso sesso è prevista nei rispettivi ordinamenti, i quali, al fine di introdurre nei rispettivi ordinamenti il matrimonio tra persone dello stesso sesso, hanno modificato la normativa sostituendo ai termini «marito e moglie» il termine «coniugi» (vedi pag, 8 del reclamo).
Conclusivamente pertanto il reclamo avanzato da (A) e (B) avverso il decreto emesso dal Tribunale di (X) in data 22 ottobre 2007 è risultato infondato e deve essere respinto.
La particolare natura dell’oggetto della controversia fa ritenere alla Corte equa la integrale compensazione ira le parti delle spese di lite.
P.Q.M La Corte di appello di Firenze, definitivamente pronunciando, respinge il reclamo proposto da (A) e (B) avverso il decreto emesso dal Tribunale di (X) in data 22 ottobre 2007 perché infondato.