da La Nuova Bussola quotidiana
14 Ottobre 2018
Theresa May ha istituito un ministero per la prevenzione dei suicidi pensando che la causa sia la discriminazione. La stessa per cui si difende il diritto a fare, professare ed essere ciò che si vuole, indipendentemente dalla realtà dei fatti. Eppure sono tanti i segni che dicono che la felicità si trova nell’accettazione del limite, il più lampante è nella “povera” Nigeria che però, scrive il The Guardian, «trova speranza in Cristo».
di Benedetta Frigerio
Prima ancora di chiedersi il perché di un’impennata dei suicidi crescente, il Regno Unito di Theresa May ha deciso di istituire un ministero per la prevenzione del suicidio diretto da Jackie Doyle-Price. Il numero inglese delle persone che si tolgono la vita ogni anno è infatti dilagante (4.500), con un’impennata negli ultimi cinque anni fra gli adolescenti dai 15 ai 19 anni dovuta principalmente all’alienazione da tecnologia che ha aggravato la loro fragilità.
Spiegando che ci sarà un piano di prevenzione anche nelle scuole e fra i più piccoli, la May non ha specificato quale sia la causa principale della piaga, sebbene dal nome dato al dicastero, “Ministero della Salute Mentale, delle Disuguaglianze e della Prevenzione al Suicidio” si può cogliere la tendenza del governo a pensare quale sia la colpa della disperazione dilagante. La campagna moderna contro le disuguaglianze nasce infatti dalla rivendicazione dei diritti in base al sesso di appartenenza che oggi è stato declinato nel diritto a fare, professare ed essere ciò che si vuole, indipendentemente dalla realtà dei fatti.
Per cui oggi nelle scuole inglesi, fin dall’infanzia, si insegnano i presunti “diritti Lgbt”, si vieta l’uso di pronomi maschili e femminili, aprendo bagni gender free e lasciando spazio ad ogni credo e religione purché non si tratti di quella “cristiana” che si oppone a tutto questo. Si potrebbe quindi pensare che i piani di prevenzione al suicidio siano un rafforzamento ulteriore di queste politiche nate dall’idea che il limite sia fonte di frustrazione e che perciò vada eliminato.
Eppure un minimo di logica dovrebbe quantomeno portare la classe dirigente a chiedersi come mai quando la società rispettava maggiormente i vincoli naturali e i doveri sociali, l’indice dei suicidi era di gran lunga minore. Tenendo conto che da quando tutto ciò si è dissolto la solidarietà è venuta meno e l’Inghilterra dei capricci arcobaleno, della fecondazione artificiale in tutte le salse, della contraccezione, dell’aborto massiccio, delle mamme single e dell’“islamicamente corretto” è diventata il primo paese Europeo nella classifica di quelli fra cui l’individualismo, a cui si legano “l’ansia e l’infelicità”, è più diffuso. Non a caso un’idagine della Northwestern University di Evanston (Illinois) mostra quanto la depressione sia un fenomeno occidentale, praticamente sconosciuto alle società magari meno sviluppate ma che vivono una solidarietà interna maggiore.
C’è poi un altro dato di cui la Gran Bretagna ha preso atto, ma che pare non saper leggere né legare al problema dei suicidi. È stato il Time stesso a darne risalto all’inizio del mese, parlando dello studio pubblicato sul Journal Healt Psychology che lega la depressione e la malattia fisica all’incremento della solitudine, mentre il matrimonio ottiene l’effetto opposto. Le indagini, condotte su 19 mila persone sposate, parlano anche del “per sempre” come della salvaguardia di «identità significative e di uno scopo per cui vivere». Ma soprattutto emerge che la relazione fra coniugi genera maggior benessere e felicità di quella fra amici. Per cui, hanno chiarito i ricercatori, «pensiamo che ci sia qualcosa di più specifico nella relazione coniugale rispetto ad altre relazioni sociali».
Eppure, nonostante tutti questi segni del fatto che è l’assenza di vincoli e sponde a generare angoscia (non la loro presenza), richiamando al bisogno di ritornare ad un ordine naturale a cui obbedire, l’Inghilterra pensa di poter risolvere la diffusione dei suicidi con le politiche dell’inclusione. Quelle stesse che hanno profondamente a che vedere con la solitudine di chi viene educato a concepire la propria persona come una fonte di diritti assoluti slegata da ogni dovere, responsabilità e relazione umana a cui rispondere (vedi la contraccezione, l’aborto, il cambiamento di sesso massiccio fra i giovani inglesi etc).
Ma la vera risposta alla crisi, da cui poi nasce l’accettazione dei limiti e dei rapporti duraturi, l’ha data proprio il quotidiano progressista The Guardian, che a luglio si è recato in Nigeria, scoprendo che uno dei paesi più miseri e “sfortunati” del mondo è anche il più felice. L’inviato ha intervistato quaranta persone delle più miserabili, scoprendo che solo una di loro aveva problemi di depressione e trovandole esterrefatte nel sentirsi chiedere: “Ha mai pensato al suicidio?” perché fra questa gente l’idea che non valga la pena vivere non è lontanamente contemplata. Nemmeno quando la sofferenza è delle peggiori, mentre bastano anche lievi frustrazioni a spingere l’uomo occidentale ad impasticcati di antidepressivi, droga o, perché no, a pensare all’eutanasia.
Così, alla domanda sul suicidio, un povero nigeriano si è anche sentito offeso. «Perché?», si è domandato l’inviato abituato ad una diffusa propensione a questo pensiero fra gli europei? A rispondergli senza mezze misure spiazzando una mente “progredita” è stato un autista senza lavoro da giorni: «La sofferenza a volte è persino buona. Cristo ha detto che in questo mondo ci sarebbe stata la sofferenza…se vivessimo in un mondo senza sofferenza, sarebbe anormale». Nell’articolo si fa notare che la fede non ha lo stesso effetto sui credenti inglesi il cui stile di vita, ossessionato dalla stabilità, dalla sicurezza e dal controlllo (influenzato quindi dalla mentalità mondana) non si differenzia tanto da quello degli atei del proprio paese.
Al contrario i nigeriani, lontani dal razionalismo materialista, accettano la sofferenza come parte della vita, nella certezza che ci sia «l’Aldilà – la prosecuzione della vita che dà senso alla vita», spiega l’inviato. «Se davvero la vita continua, allora questa è una fase – questa mancanza, questa malattia, questa privazione…Ma se la vita finisce qui, se tutti i cari che erano morti sono di fatto spariti per sempre, se non sarà fatta giustizia per tutti i torti che ho subito in questo mondo, allora come può realizzarsi la felicità?». Un palliativo, un oppio, si potrebbe affermare. Sarà, ma perché allora non esiste nient’altro, nessun corso yoga, filosofia o antidepressivo, capace di debellare la depressione, lo stress e l’infelicità senza dover censurare nulla della realtà (nemmeno la sofferenza)?