Agenzia Stampa Italia 5 Agosto 2020
di Giuliano Mignini
Ricorre in questo periodo l’anniversario della strage di Bologna del 2 agosto 1980 e questa ricorrenza mi spinge a doverose considerazioni sulle stragi che hanno insanguinato l’Italia, da quelle sui treni e altrove, in Alto Adige, dei primi anni ’60 (di cui ci si dimentica troppo spesso) fino a quella di Bologna, anticipata da quella di Ustica.
Premetto che non ho trattato procedimenti in materia di stragi, specie di quelle “indiscriminate” e quello che dico sono semplicemente considerazioni personali che possono valere, bene che vada, come spunti di riflessione.
Vi sono, grosso modo, due tipi di atti terroristici che producono stragi: quelli selettivi, come ad esempio, l’attentato in cui perse la vita l’ammiraglio Carrero Blanco, il successore designato del Generalissimo Franco, del 20 dicembre 1973, ad opera dei separatisti baschi dell’ETA e che colpì a morte il regime franchista e le stragi indiscriminate che colpiscono “nel mucchio”, persone a caso.
È questa seconda tipologia di stragi che ha caratterizzato il nostro Paese ed ha cagionato tanto sangue e tanti lutti. È difficile immaginare un delitto più efferato e vergognoso di una strage di questo tipo che, all’orrore, aggiunge il mistero e l’uccisione a caso.
Quello che immediatamente colpisce di queste stragi è che, per quelle più importanti, i loro autori e soprattutto i loro mandanti siano rimasti quasi completamente sconosciuti, mentre vi sono state numerose condanne a carico di membri del BAS sudtirolese (Befreiungsausschuss Suedtirol).
Credo di non sbagliare se dico che è stato trovato un responsabile o responsabili e condannati per la strage di Piazza Fontana (Carlo Digilio ma con pena prescritta), la strage di Brescia (Carlo Maria Maggi e Maurizio Tramonte) e la seconda strage di Bologna (Mambro e Fioravanti), dopo percorsi processuali tormentatissimi. Freda e Ventura, com’è noto, sono stati dichiarati improcessabili perché già definitivamente assolti per la strage di Piazza Fontana.
La strage alla Questura di Milano della primavera 1973 ha un colpevole, un esecutore, lo stranissimo anarco stirneriano, ordinovista, gladiatore, ma anche proveniente da un soggiorno in un kibbuz israeliano del MAPAM (Partito socialista israeliano) della striscia di Gaza, informatore dei carabinieri, militante/infiltrato (?) nel PCI (e chi più ne ha, più ne metta), Gianfranco Bertoli. (Si veda la voce su Wikipedia).
Per la strage dell’Italicus, i responsabili sono rimasti ignoti e si trattava di un attentato che avrebbe dovuto avvenire nella stazione di Bologna e avrebbe anticipato l’orrore di quello del 1980. Su questa tornerò. Gli unici responsabili erano inoltre quasi tutti legati all’area veneta di Ordine Nuovo e tutti in contatto con il Bertoli.
Non credo di sbagliare neppure se sottolineo il fatto che un mezzo secolo di indagini, tutte concentrate sull’ipotesi “neofascista”, abbiano prodotto solo questi risultati perché le responsabilità dei delitti sono di chi è definitivamente condannato. La “responsabilità storica” è una locuzione quanto mai ambigua che può invocarsi a fronte di responsabilità accertate in sede giudiziaria ma non può servire a colmare l’esito negativo delle stesse indagini.
Alcuni dei fatti di strage più gravi, come detto, che hanno colpito l’Italia dal ’69 all”80 sono riconducibili, come esecutori o, tutt’al più, come elementi coordinatori, a un livello di poco superiore agli esecutori, a elementi della cellula “triveneta” di Ordine Nuovo. Si trattava del più importante ed elitario gruppo della destra extraparlamentare, di matrice culturale “neopagana”, riconducibile al pensiero del “filosofo” o “sapiente” Julius Evola, già dadaista poi “evolutosi” verso un “superuomismo” e una sorta di “idealismo magico” con connessioni col pensatore massone e fortemente anticattolico, Arturo Reghini. Il pensatore, la cui notorietà era limitata durante il fascismo, è divenuto quello di riferimento dei neofascisti.
Le sue convinzioni, reali o presunte tali, hanno influenzato fortemente l’ambiente neofascista che, specie nell’ambito di Ordine Nuovo, ne ha subito un evidente condizionamento a causa di aspetti diversi, taluni molto discutibili. L’idea che si possa essere “al di sopra del bene e del male” e, soprattutto, l’ostentato distacco elitario dalla massa, oltre all’accettazione del ciclo del “kali yuga” e quindi l’accelerazione della regressione culturale ed esistenziale propria di certe, non ben digerite visioni del mondo orientali, erano caratteristiche potenzialmente pericolose che esponevano molti di questi giovani neofascisti, usciti sconfitti dalla guerra e pervasi da risentimento e frustrazione, ad ogni genere di manipolazioni.
La sconfitta determinò l'”arruolamento”, più o meno “forzato”, di questi (ormai) neofascisti al servizio delle più variegate strutture “atlantiche” e collaterali, cioè al seguito dei loro vecchi nemici, divenuti “alleati” in tempi di Guerra fredda. Il caso emblematico è quello della Decima flottiglia Mas di Junio Valerio Borghese.
Spesso non si è riflettuto adeguatamente su questa vicenda. Una delle tecniche preferite dei servizi segreti o agenzie d’intelligence di mezzo mondo, è quella della “leva lunga” o della “false flag operation”, cioè l’operazione sotto falsa bandiera. Viene così compiuta un’operazione terroristica o di guerra non convenzionale, utilizzando manovalanza etichettabile in modo tale da far attribuire l’atto stesso all’area a cui appartengono i “manovali” e non a quella reale, cioè a quella dei mandanti.
Alì Agca era chiaramente un agente sovietico che doveva eliminare Papa Woityla, per i fini del regime sovietico, ma la sua etichetta di “lupo grigio” e quindi di neonazista turco avrebbe spinto le indagini lontano dalla “leva” che lo manovrava. Cui prodest ? Bisogna allora chiedersi e fare il percorso inverso, dall’esecutore alla leva e, quindi, al mandante che è quello che trarrà il reale vantaggio dal delitto.
La vulgata ufficiale, finora dominante, ha ipotizzato, all’inizio, una specie di “Spectre” neofascista (o neonazista), poi, in modo un po’ più verosimile, un gruppo di esecutori “neri” con mandanti “compatibili” (più o meno…) come strutture di governo, servizi deviati, P2 e così via.
La “strategia della tensione”, termine coniato dal giornalista dell’Observer Leslie Finer, alla vigilia della strage di Piazza Fontana, avrebbe dovuto impedire, si dice, l’ingresso del PCI nell’area di governo. È invece quello che si è puntualmente verificato dopo la stagione delle stragi. Qualcosa non torna.
Ce l’ha spiegato Giovanni Fasanella cosa non torna: le stragi non sono di Stato ma “contro lo Stato italiano” e i mandanti sono all’estero. Come ho detto, l’attentato al treno Italicus tra il 3 e il 4 agosto 1974, sempre nello stesso periodo dell’anno, è una strage rimasta impunita e che a lungo fu ipotizzata come collegata alla cellula ordinovista aretina. Ma si trattava di ipotesi poi cadute. Risultato: buio fitto.
In quel treno, come avrebbe riferito Maria Fida Moro, la figlia dello statista, sarebbe dovuto salire e, in effetti, salì Aldo Moro ma alcuni funzionari del Ministero degli Esteri fecero scendere l’onorevole, da poco salito, perché avrebbero dovuto fargli firmare dei documenti. Così lo statista che, all’epoca, era Ministro degli Esteri, dovette scendere dal treno e si salvò. È difficile non credere alla figlia di Aldo Moro e non è possibile pensare che della presenza di Aldo Moro non fossero informati gli attentatori.
Aldo Moro, costituiva un pericolo sull’asse Ovest Est e quindi per l’assetto di Yalta con la sua politica di “alternanza” col PCI o invece sull’asse Nord Sud e, quindi, sugli equilibri in Medio Oriente con il “lodo Moro” o su tutti e due ? Una cosa sembra certa. Poco più di un mese dopo l’attentato all’Italicus, Moro, in visita negli States, ricevette una pesante minaccia, da codice penale, dal segretario di stato Henry Kissinger. (Si veda “Quando Kissinger minaccio’ di morte Aldo Moro” in “Politicamente scorretto”, “Politica & Attualità”, 9 giugno 2018.).
La minaccia, profferita da Kissinger in un albergo, il 25 settembre 1974, fu riferita da Corrado Guerzoni, stretto collaboratore di Moro. in un’aula della Corte d’Assise di Roma. Poi fu la moglie di Moro a raccontare ciò che Kissinger disse a Moro:” Se non cambi la tua linea politica, la pagherai cara” (ibidem). È quanto riferì la moglie dello statista in una delle udienze tra il giugno e il luglio 1982.
“Abbiamo dovuto strumentalizzare le Brigate rosse per farlo uccidere” così ha confessato Steeve Pieczenik, l’assistente del Segretario di Stato Kissinger e membro dell'”Unità di crisi” costituita per il caso Moro (si veda in “zapping.altervista.org” “Il governo USA:”Ecco perché abbiamo ucciso Aldo Moro”.) Si veda, su tutto, ad esempio www.grognards2011.it/2017/10/3. Moro ne rimase profondamente scosso e meditò di lasciare la politica.
Va sottolineato che furono istituiti, sotto la supervisione dell’allora Ministro dell’Interno Francesco Cossiga, ben tre Comitati e quello a cui partecipò Pieczenik era il terzo, il più misterioso. Delle riunioni degli stessi non furono redatti verbali. Si veda, sul punto: www.riccardolestini.it> 2018/03 > 5… Se le stragi che hanno insanguinato l’Italia non si collocano nello stesso contesto del terrorismo che ha colpito l’Italia per annichilire la sua sovranità e per impedirle di svolgere un ruolo indipendente nel contesto internazionale, specie nel confronto Est Ovest e nella perenne e irrisolta crisi medioorientale, non si verrà mai a capo di nulla.
Non posso dilungarmi per ora su questo punto. Dico solo che non si può comprendere nulla del perché delle stragi se si continua a guardarle in un’ottica interna e, quindi, a un manipolo di neofascisti e, tutt’al più, a funzionari italiani dei servizi segreti o di organismi di intelligence che li manovrano. Il più volte citato Federico Umberto D’Amato, tanto per fare un esempio, capo dell’Ufficio Affari Riservati del Viminale, più volte citato negli studi sul terrorismo e tornato recentemente d’attualità per la strage di Bologna, in piena guerra era agente di James Jesus Angleton capo dell’OSS statunitense, il precursore della CIA che, in quel momento, faceva la guerra all’Italia.
Se questi soggetti hanno lavorato in favore di potenze nemiche del loro Paese, cosa potranno fare ora che queste potenze sono diventate nostre alleate? È una domanda che occorre porsi. Certi nomi richiamano imperiosanente responsabilità che sono fuori dei nostri confini. Per concludere, uno dei più grandi errori che si possano fare nei processi penali è parcellizzare le risultanze probatorie o infilarsi in ipotesi aprioristiche e indimostrate per cercare di capire tutto.
È come la “pista sarda” nel processo sul cosiddetto Mostro di Firenze, quel vicolo cieco che ha impedito il raggiungimento della verità e sulla cui origine si è riflettuto molto poco. I fenomeni vanno collegati e analizzati tenendo presenti le due fondamentali regole “auree”, quella della “false flag operation” e quella di chiedersi sempre :” Cui prodest ?”.
Dobbiamo ricordarci che ogni operazione “terroristica” o di guerra non convenzionale è accompagnata sempre da un depistaggio per distogliere l’attenzione dal responsabile e indirizzarla su un binario morto, sulla “pista sarda” del terrorismo.
E infine, noi italiani dobbiamo smettere di farci la guerra tra noi. “Noi siamo da secoli calpesti, derisi, perché non siam popolo, perché siam divisi…” dicono le parole del nostro Inno nazionale. C’è chi ne approfitta.