di Edoardo Rialti
Aveva ragione Platone, a dire che ogni vera rivoluzione culturale è come uscire da una grotta: G. K. Chesterton lo sosteneva letteralmente, indicando tre diverse figure che, proprio da una buca nel terreno, erano uscite a cambiare il mondo per sempre: la creatura chiamata uomo, l’uomo chiamato Cristo, il cristiano chiamato Francesco di Assisi. A quest’ultimo lo scrittore inglese dedicò una biografia che seguì di poco la sua conversione al cattolicesimo, alla quale la continua frequentazione fin da bambino della figura del Poverello contribuì non poco.
Ma un richiamo alla parmoniosità non spiega perché “il povero era solito cibarsi del meglio che poteva ricevere, mentre il santo mangiava quanto di peggio gli si dava. In realtà visse di rifiuti, e fu un’esperienza molto più brutta di quella che i vegetariani e gli astemi chiamano vita semplice”; né una generica benevolenza verso gli altri riesce a rendere ragione del perché quel giovane benestante, nel suo rifiuto della ricchezza e delle armi, si tenne sempre ben stretto “un unico brandello della vita del lusso: le maniere di corte. Con la differenza che, mentre a corte il re è uno solo e i cortigiani sono centinaia, nella sua storia c’è un solo cortigiano che si muove tra centinaia di re. Egli considera infatti la folla degli uomini come una moltitudine di re”.
Lo sbaglio sta nel trattare tutto ciò “come una cosa impersonale, quando invece è solo la passione più individuale che ci sia quella che, in questo caso, fornisce un approssimativo paragone terreno”. Difatti “un uomo non si rotolerà nella neve per una concomitanza di forze che obbediscono alle leggi universali della natura. Non digiunerà in nome di un principio che vuole uniformarsi alla legge divina. Farà queste cose, o simili a queste, quando è spinto da un istinto del tutto diverso: quando è innamorato”.
Ed è questa l’unica spiegazione del mistero di san Francesco, l’unico identikit non riduttivo, “un innamorato di Dio e un sincero innamorato degli uomini” ossia “quasi l’opposto di un filantropo (la parola greca, così altisonante, ha in sé qualcosa di ironico) il quale può tutt’al più dirsi un innamorato degli antropoidi”. Fu proprio, nella cupa notte dei suoi tormenti giovanili, che uscendo dalle grotte del suo ritiro Francesco visse una rivoluzione dello sguardo, che gli palesò una rivelazione, un salto quantico.
Al pari dei suoi amati giullari, egli si mise a guardare a testa in giù, e tutto divenne diverso: “Se un uomo vedesse il mondo sottosopra, con le torri e gli alberi capovolti come nel riflesso di uno stagno, un effetto di quell’insolita visione sarebbe accentuare il concetto di dipendenza”.
Tutto l’effimero, il fragile, l’inconsistente si rivelò poggiato su l’esistenza di un piano più alto, più forte, onnipresente, “il fatto fondamentale che mascheriamo con l’illusione della vita ordinaria… la scoperta di un debito infinito”. E Francesco si innamorò, appunto del Creditore, del dono del mondo e dei suoi fratelli debitori, diventando ricco di una ricchezza non sua: “Il più alto e sacro dei paradossi consiste in questo: l’uomo che è realmente cosciente di non poter pagare il suo debito, lo pagherà eternamente”.
Francesco non farà che attingere ancora e ancora, e diffondere questa scoperta, nella sua duplice accezione di esperienza mistica personale, e di tradizione collettiva della civiltà cristiana. E in questi giorni dove proprio due papi dai nomi di Benedetto e Francesco si sono succeduti, fa sorridere e pensare che proprio a una segreta relazione tra quei due fondatori Chesterton si richiami con una immagine imprevedibile: in fondo “san Francesco sparse quel che san Benedetto aveva accumulato”.