Vita Nova, settimanale cattolico di Trieste 28 aprile 2014
E’ proprio in queste occasioni che si resta esterrefatti da quella misteriosa realtà, trascendente e umana insieme, divina e tuttavia anticamente ‘istituzionale’, che è l’amata “Catholica”.
Omar Ebrahime,
«Un polacco che sa a malapena l’italiano…ma chi lo conosce…questo ci condurrà al disastro». Pare davvero che qualcuno in Curia abbia pronunciato queste parole quella sera del 16 ottobre 1978, quando Karol Wojtyla fu eletto Papa. E forse anche più di qualcuno, secondo i consueti beninformati. Chiunque l’bbia detta, Domenica scorsa il Papa venuto “da un Paese lontano”, canonizzato con Giovanni XXIII, si è preso la definitiva rivincita davanti a una folla sconvolgente di fedeli che le tv e i giornali di mezzo mondo hanno potuto descrivere solo per approssimazione.
Chi segue quotidianamente la vita della Chiesa, vivendo e lavorando magari a Roma, forse dovrebbe essere abituato a certe cose eppure, in realtà, è proprio in queste occasioni che si resta esterrefatti da quella misteriosa realtà, trascendente e umana insieme, divina e tuttavia anticamente “istituzionale”, che è l’amata Catholica. Il primo pensiero davanti alla due giorni della canonizzazione fatta nient’altro che di veglie e preghiere, Messe e ringraziamenti, cioè – in una parola, di Fede vissuta – è che nessuna autorità al mondo, oggi, può radunare ai suoi piedi spontaneamente così tanta gente. Nessuno.
Non ce la fanno i capi politici – in pluridecennale crisi di consenso e autorevolezza – e non ce la fanno le grandi organizzazioni internazionali. Neanche le Nazioni Unite o Barack Obama sarebbero in grado di raccogliere una folla così eterogenea di ogni lingua, popolo e Nazione, per dirla con le parole della Scrittura. Perchè poi questa è la grande differenza con i grandi del mondo: a Roma si è vista una marea umana fatta anzitutto di famiglie, giovani e giovanissimi, cioè per dirla banalmente, di “gente normale”, non di elites.
E anche diversissime tra loro: in questi giorni abbiamo incontrato per esempio gruppi di paraguayani e gruppi di egiziani. Ora, sarebbe interessante chiedersi: che cosa li spingeva a lasciare il loro Paese per intraprendere un viaggio costoso e faticoso sapendo benissimo che – bene che andava – avrebbero seguito la Messa in san Pietro da centinaia e centinaia di metri senza vedere alcunchè? Che cosa li muoveva?
Si può capire bene perchè in tanti siano venuti dalla Lombardia (regione d’origine di Papa Roncalli) e ancora di più dalla Polonia naturalmente (Cracovia, Wadowice, Varsavia), ma che cosa poteva muovere dei paraguayani o degli egiziani? Il segreto di quella realtà misteriosa che è la Chiesa è anche qui. Certo, personalmente ognuno aveva una devozione particolare per il suo “Papa”: perchè era il primo che vide in televisione o perchè era stato il primo ad andare nel suo Paese, o ancora perchè era il Papa di “quando ci siamo sposati” o del battesimo dei suoi figli. Tutte ragioni comprensibili s’intende ma che non spiegano – da sole – i viaggi notturni e insonni, le fatiche sopportate per esserci, affrontando – in tempi di crisi economica un po’ per tutti – sacrifici enormi pur di portare con sé la propria famiglia o i propri cari.
In un momento storico in cui tutte le autorità sono in caduta libera siamo di fronte – così ci pare – a una straordinaria manifestazione in controtendenza.
E che dice anche due o tre cose sulla mappa della Cristianità del futuro.
A giudicare dalle folle di Roma lo zoccolo duro del cattolicesimo di domani sarà, come pronosticato da alcuni, molto probabilmente in Africa e America Latina e sempre meno in Europa. L’Africa in effetti è, dati alla mano confermati anche dall’ultimo Annuario Pontificio, il continente in cui crescono di più i battesimi e la vita sacramentale in genere. In un quadro comparativo con le attuali tendenze dell’Europa centro-occidentale, ad esempio, semplicemente non c’è storia.
E, ancora, a vedere i dati che confermano nuovamente le fotografie scattate a Roma, tra la top 5 dei Paesi cattolici-praticanti ci sono sempre Messico e Brasile. Se aggiungiamo anche le Filippine, che tutto sommato reggono nonostante le ultime ondate di secolarizzazione, i numeri direbbero che l’Europa è già uscita di scena: ma ovviamente non è nemmeno così facile. Nel nostro continente tengono ancora diversi Paesi dell’Est (oltre alla solita Polonia, anche Croazia, Slovacchia e Ungheria) mentre in Italia e Portogallo si riscontrano resistenze significative e, soprattutto in alcune aree geografiche, di un certo livello.
E poi, come direbbe Dante, se il Vicario di Cristo è a Roma (“di quella Roma onde Cristo è romano”, Purg. XXXII, v. 102), le tombe di Pietro e Paolo sono a Roma e il Papato storicamente è stato essenzialmente romano qualcosa vorrà pur dire. Insomma, sicuramente cambierà qualcosa nella composizione futura del collegio cardinalizio, che non potrà non tenere conto delle terre di cristianità emergenti, ma non è detto che sia un problema soprattutto se guardiamo alla tenuta dei princìpi non negoziabili.
La Santa Sede sa bene che il più grande aiuto alle conferenze del Cairo e di Pechino che hanno sdoganato l’ideologia di genere a livello internazionale le è venuto proprio dal blocco africano che infatti ancora oggi – si vedano i veri e propri ricatti dell’ONU in proposito – su vita, matrimonio e famiglia non molla proprio per niente, contrariamente all’Europa. In secondo luogo, nello stesso continente, ci sono comunità cattoliche che hanno molto chiaro – più di molti europei – la portata del problema islamico nel confronto sociale e religioso.
Oltre all’Egitto, a Roma c’erano anche libanesi e nigeriani, tutte comunità ferite che hanno pagato – e nei loro Paesi stanno tuttora pagando – un tributo di sangue altissimo al terrorismo fondamentalista. Si tratta peraltro di chiese dalle antichissime e spesso gloriose radici che non hanno perso quasi nulla del primitivo smalto missionario. Da questa prospettiva è facile prevedere che queste comunità porteranno alla Chiesa universale più identità, non di meno. Il resto lo dirà la storia futura che – comunque – per un credente è sempre sotto lo sguardo provvidente di Dio.
E che, da ultimo, ha portato significativamente alla ribalta una donna costarichense (siamo sinceri, chi sapeva dov’era il Costarica?), mamma di quattro figli, che ha ottenuto la guarigione dall’aneurisma che l’avrebbe dovuta portare alla morte proprio grazie all’intercessione di Giovanni Paolo II, il primo Papa polacco della storia.
Qualcuno dirà che l’universalità della Chiesa non la scopriamo di certo oggi e non c’era bisogno di una canonizzazione per rendersene conto. Le canonizzazioni come quella di Domenica scorsa, però, forniscono come una prova vivente e immediata di tutto ciò. Fanno comprendere cioè che il mistero in cui siamo immersi quotidianamente ci supera e ci travolge, noi con i nostri campanilismi umani e a volte fin troppo umani. Riportandoci forse a una maggiore umiltà di fondo, la stessa che ci pareva di scorgere negli occhi stanchi e consumati di colui che forse aveva sperato più di tutti che Wojtyla arrivasse presto alla gloria degli altari, Benedetto XVI, raccolto esemplarmente in silenzio e in preghiera meditando forse le parole eterne del Maestro: «quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”» (Lc 17, 9-10).