Alleanza Cattolica Martedì, 29 ottobre 2019
Cosa s’intende davvero quando si parla di “sostenibilità”? Bisogna chiarire anzitutto il termine, poiché dietro di esso si annida in agguato l’inganno.
Maurizio Milano
Il termine «sostenibilità» è stato introdotto nella Conferenza internazionale sulla popolazione e lo sviluppo, svoltasi a Il Cairo, in Egitto, nel settembre del 1994, organizzata dall’UNFPA, il Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione.
Questo il ragionamento di fondo: la popolazione mondiale sta crescendo troppo, nei prossimi decenni ci saranno seri rischi di carenza delle risorse disponibili, occorre quindi agire subito per porvi rimedio.
Quale la “soluzione” proposta per uno sviluppo “equo e sostenibile”? La «pianificazione familiare» per la «salute riproduttiva e sessuale»: tradotto dal gergo dell’ONU significa promozione della contraccezione, della sterilizzazione e di quel male nefando che è l’aborto.
Negli ultimi dieci anni si è aggiunta anche la teoria della «decrescita felice», avanzata dall’economista e filosofo francese Serge Latouche, che condanna la ricerca della crescita economica e sociale, proponendo in alternativa un bien vivre n cui si è più poveri, certamente, ma in compenso più felici.
Ebbene, la decrescita “serena” si sposa perfettamente alle politiche antinataliste ostili alla famiglia naturale ed è un vessillo pauperista di moda nella Sinistra radical-chic e no-global: pare invece abbia poco appeal presso i poveri veri, che semplicemente aspirano a un miglioramento delle proprie condizioni di vita.
Entrambe le proposte indicate partono da una visione “statica” della ricchezza e delle risorse a disposizione: una prospettiva pessimistica e negativa in cui l’uomo è visto per lo più come un elemento di disturbo, una voce passiva nel bilancio, una sorta di parassita o di cancro.
Il “decrescismo” di Latouche e simili è del resto solo lo sviluppo più recente delle tesi del pastore anglicano Thomas Robert Malthus (1766-1834), un economista e demografo che predicava politiche antinatalità come unica soluzione per assicurare la felicità umana a fronte di una pretesa scarsità di risorse naturali. Nella prospettiva della cosiddetta “sostenibilità”, infatti, le risorse si considerano come un “dato”.
Se non si possono accrescere, diventa gioco-forza contenere il numero dei commensali: tra gli ultimi frutti avvelenati di tale mentalità si sono aggiunti ultimamente anche il “suicidio assistito” e l’eutanasia, per eliminare le persone la cui “qualità” di vita appare “inadeguata”.
Papa Francesco nella sua prima esortazione apostolica, Evangelii Gaudium, del 2013, ha messo in guardia dalla diffusione della «cultura dello “scarto”» ai danni dei più fragili, ovvero la «cultura di morte», di stampo neomalthusiano e vagamente gnostico denunciata a più riprese già da Papa san Giovanni Paolo II (1920-2005).
Il santo pontefice polacco comprese infatti i semi avvelenati insiti nel concetto ambiguo di «sostenibilità» e li contrastò con fermezza sin dagli esordi: il mondo cattolico farebbe bene a ricordare tali insegnamenti, per non cadere nelle trappole linguistiche dell’ONU e delle varie agenzie mondiale che diffondono abilmente tale “cultura”.
Smentendo i “profeti di sventura”, l’esperienza degli ultimi due secoli – caratterizzati da un progresso esponenziale in campo scientifico, tecnologico e medico – ha dimostrato invece la capacità dell’ingegno umano di moltiplicare i doni del buon Dio in modo assai più rapido della crescita della popolazione.
In particolare, a partire dagli anni 1970 del secolo scorso, si è infatti assistito nel mondo a un progressivo tracollo nel numero delle persone in condizioni di estrema povertà, sia in termini assoluti sia relativi. Nonostante la vulgata attuale predichi il contrario, ciò dimostra come la ricchezza si stia diffondendo nonostante la popolazione si sia accresciuta.
Caetera desiderantur, certamente, ma falsificare i dati serve solo a sbagliare diagnosi e conseguentemente anche terapia. Il giro mentale dei “sostenibilisti” è lo stesso dell’ideologia ambientalista, un neo-paganesimo centrato sulla “difesa dell’ambiente”, dove la minaccia è sempre l’uomo e dove l’“ambiente” non è certamente il “creato” della prospettiva giudaico-cristiana.
Già, perché nella visione cristiana autentica l’uomo, per dirla con lo scrittore cattolico inglese John Ronald Reuel Tolkien (1892-1973), è “sub-creatore” all’interno del piano provvidenziale di un Dio creatore che ci ha fatti a Sua immagine e somiglianza.
Il “giardino dell’Eden”, il mondo quindi, è stato donato all’uomo «ut operaretur et custodiret illum» (Gn 2, 15), perché lo lavorasse e lo custodisse. Non già per trasformarlo in un museo o per idolatrarlo.
Lavorando e mettendo al mondo dei figli, l’uomo corrisponde al progetto originario di «crescere, moltiplicarsi e soggiogare la terra» (Gn 1, 28). La “Terra” non è nostra “madre” – la Pacha Mama, la divinità venerata dagli Incas e dai Quechua –, ma semmai, alla scuola di san Francesco d’Assisi (1181-1226) nel Cantico delle creature, «sora nostra matre terra», creatura anch’essa quindi, che riflette l’immagine del Creatore.
La visione cristiana è radicalmente ottimista, a favore non di uno sviluppo “sostenibile” bensì di uno «sviluppo umano integrale», per dirla ancora con san Giovanni Paolo II.
È la prospettiva che a partire dal secolo VI secolo spinse i monaci benedettini a trasformare terre incolte, foreste e paludi dell’Europa in terreni fertili e prosperosi, diffondendo dai loro monasteri innovazioni tecnologiche e lavorative che accrebbero esponenzialmente le capacità della terra di soddisfare le crescenti esigenze dell’umanità.
«Ora et labora»: una fede che seppe felicemente diventare cultura, alle radici della cristianità romano-germanica da cui noi occidentali indegnamente discendiamo.
Guardando alla realtà senza inforcare gli occhiali dell’ideologia, si deve prendere atto che proprio la denatalità e l’invecchiamento demografico che affliggono da decenni il Giappone e tutti i Paesi sviluppati sono tra le cause strutturali dell’avvitamento economico-finanziario degli ultimi lustri.
Nei prossimi decenni i Paesi ricchi dovranno fronteggiare una minaccia esattamente opposta a quella paventata: non già una “esplosione” demografica – come vaticinava erroneamente il professor Paul R. Ehrlich dell’Università di Stanford nel suo famoso The Population Bomb, del 1968 –. ma una vera e propria “implosione” demografica che renderà sempre meno “sostenibili” i conti della previdenza sociale e assicurativa e dell’assistenza sanitaria.
In Italia, l’innalzamento progressivo dell’età pensionabile verso i 70 anni è già una prima conseguenza del “suicidio demografico” in atto da oltre trent’anni. In aggiunta al mito della crescita demografica “insostenibile”, il catastrofismo ecologista fondato sulla teoria del surriscaldamento e del cambiamento climatico di pretesa origine antropica – osteggiato da scienziati seri come Carlo Rubbia e Antonino Zichichi, per restare all’Italia – prima diffonde artatamente il panico e poi propone come “soluzione” improcrastinabile incentivi pluri-miliardari all’industria green, ovviamente con risorse prelevate coattivamente dai contribuenti, spesso neppure in modo trasparente.
In tal modo lievitano i costi di molti beni e servizi, con effetti “regressivi” come capita con le imposte indirette, cioè oneri percentualmente più elevati al decrescere del reddito. I benefici invece, a parte quelli delle industrie sovvenzionate, sono tutti da dimostrare.
Dirottare risorse scarse per lottare prioritariamente contro la CO2 rischia di essere un’arma di distrazione di massa dagli effetti deleteri sullo sviluppo autentico, con pesanti effetti redistributivi della ricchezza e ricadute negative soprattutto per i meno abbienti.
E siccome ogni religione abbisogna di una morale, di profeti e di liturgie, nei vari climate strike si assiste al triste spettacolo di milioni di giovani inconsapevoli manipolati da una cinica orchestrazione planetaria del consenso: “Ma come osate? Ci avete rubato il futuro! Non abbiamo più tempo!”.
Al netto della buona fede di tali testimonial, grattando la «sostenibilità», di “verde” sembra ci sia soprattutto quello dei dollari. Insomma, business as usual.
Se dunque per «sostenibilità» si vuol dire, come purtroppo intendono l’ONU e molte agenzie mondiali, un’autolimitazione delle potenzialità di crescita integrale della famiglia umana, allora la risposta, da cristiani e anche semplicemente da persone di buon senso, deve essere il rifiuto perché trattasi di errore, d’ingiustizia, di liberticidio e ultimamente d’insostenibilità.
Al di là della parola suadente, «sostenibile» non è poi così bello come vorrebbero far credere. Per nulla.