di Francesca Pannuti
Non a caso il panteismo è stato condannato a più riprese dalla Chiesa, a partire da san Leone I nel 447 (Ep. Quam laudabiliter, DS, 283-286); poi nel Concilio di Sens del 1140, in cui vengono respinte alcune proposizioni di Abelardo (DS, n. 722); nel 1329, allorché vengono riprovati gli errori di Meister Eckhart (DS, n. 977) [1], e ancora, ampiamente, nel Sillabo, nel 1864 (DS, 2901), nel Concilio Vaticano I, 1870 (DS, 3023) e nell’enciclica Pascendi Dominici gregis di san Pio X nel 1907 (DS, 3475-3486), fino al Magistero recente di Benedetto XVI nella Caritas in veriate (n. 48), e nel Messaggio per la 43° Giornata mondiale per la pace, il 1° gennaio 2010. Perché la Chiesa si occupa di tale impostazione filosofica con tanta insistenza?
«È possibile riconoscere», recita la Lettera enciclica Fides et ratio al n. 4, «nonostante il mutare dei tempi e i progressi del sapere, un nucleo di conoscenze filosofiche la cui presenza è costante nella storia del pensiero. Si pensi, solo come esempio, ai princìpi di non contraddizione, di finalità, di causalità, come pure alla concezione della persona come soggetto libero e intelligente e alla sua capacità di conoscere Dio, la verità, il bene; si pensi inoltre ad alcune norme morali fondamentali che risultano comunemente condivise. Queste conoscenze, proprio perché condivise in qualche misura da tutti, dovrebbero costituire come un punto di riferimento delle diverse scuole filosofiche. Quando la ragione riesce a intuire e a formulare i princìpi primi e universali dell’essere e a far correttamente scaturire da questi conclusioni coerenti di ordine logico e deontologico, allora può dirsi una ragione retta».
Poi occorre che l’impostazione di pensiero che ognuno riesce a produrre, secondo le proprie capacità e la propria preparazione culturale (tutti siamo in qualche modo chiamati a essere «filosofi», cioè a rendere ragione degli interrogativi di fondo sul perché della vita e sul nostro destino), sia compatibile con la nostra fede. Sia cioè in grado di costituire una preparazione adeguata per la nostra ragione, affinchè essa possa accogliere la visione soprannaturale donataci con la Rivelazione. Così si esprime l’enciclica Humani generis: «Tutti sanno quanto la Chiesa apprezzi il valore della ragione umana, alla quale spetta il compito di dimostrare con certezza l’esistenza di un solo Dio personale, di dimostrare invincibilmente per mezzo dei segni divini i fondamenti della stessa fede cristiana; di porre inoltre rettamente in luce la legge che il Creatore ha impressa nelle anime degli uomini; e infine il compito di raggiungere una conoscenza limitata, ma utilissima, dei misteri».
Ma questo compito potrà essere assolto convenientemente e con sicurezza, se la ragione sarà debitamente coltivata: se cioè essa verrà nutrita di quella sana filosofia che è come un patrimonio ereditato dalle precedenti età cristiane e che possiede una più alta autorità, perché lo stesso Magistero della Chiesa ha messo al confronto con la verità rivelata i suoi princìpi e le sue principali asserzioni, messe in luce e fissate lentamente attraverso i tempi da uomini di grande ingegno.
Questa stessa filosofia, confermata e comunemente ammessa dalla Chiesa, difende il genuino valore della cognizione umana, gli incrollabili princìpi della metafisica cioè di ragion sufficiente, di causalità e di finalità e infine sostiene che si può raggiungere la verità certa e immutabile. «In questa filosofia vi sono certamente parecchie cose che non riguardano la fede e i costumi, né direttamente né indirettamente, e che perciò la Chiesa lascia alla libera discussione dei competenti in materia; ma non vi è la medesima libertà riguardo a parecchie altre, specialmente riguardo ai princìpi e alle principali asserzioni di cui già parlammo.
Anche in tali questioni essenziali si può dare alla filosofia una veste più conveniente e più ricca; si può rafforzare la stessa filosofia con espressioni più efficaci, spogliarla di certi mezzi scolastici meno adatti, arricchirla anche – però con prudenza — di certi elementi che sono frutto del progressivo lavoro della mente umana; però non si deve mai sovvertirla o contaminarla con falsi princìpi né stimarla solo come un grande monumento, sì, ma archeologico. La verità in ogni sua manifestazione filosofica non può essere soggetta a quotidiani mutamenti, specialmente trattandosi dei princìpi per sé noti della ragione umana o di quelle asserzioni che poggiano tanto sulla sapienza dei secoli che sul consenso e sul fondamento anche della Rivelazione divina» (Lettera enciclica Humani generis, III).
In seno al panteismo, a filosofie di natura immanentistica, troviamo l’irrazionale pretesa di fare del relativo un assoluto, o viceversa, dell’assoluto un relativo. Il voler fare di Dio il Tutto di questo mondo, o la sua Anima, invero, nasconde, da un lato, l’incapacità di giustificare e comprendere in modo corretto il divenire delle cose; dall’altro, l’esaltazione dell’unico soggetto razionale presente nel mondo, l’uomo, alla dignità di «dio». Questa concezione, dunque, che parte dalla comprensibile aspirazione a una maggiore intimità con la divinità e finisce con la divinizzazione dell’uomo, in quanto fraintende la natura di Dio con l’appiattirlo nella storia, nel fattuale, rappresenta un ostacolo foltissimo all’accoglienza dell’Incarnazione.
Proprio quell’impostazione filosofica, che tanto invoca la vicinanza di Dio all’uomo, proprio quella, si oppone fortemente al Dio fatto Uomo. Ed Egli diviene per essa «pietra di scandalo». Da un lato, perché in Lui l’unione tra Dio e umanità avviene nella chiara affermazione della non confusione delle due nature, dell’abissale differenza tra la natura divina e umana, e quindi della distinzione delle essenze; dall’altro, perché essa si realizza in un supposito divino, la Persona di Gesù. Cosa, questa, inammissibile per il panteismo, che contempla unicamente una divinità impersonale.
Solo considerando «dio» come un qualcosa di generico, indeterminato, infatti, esso può confonderlo a piacimento col mondo o con la storia o con l’uomo stesso, l’Io assoluto. Cristo, al contrario, è l’unico uomo che non può «farsi» dio, bensì «è» Dio, e in tal modo si oppone recisamente a tutti i tentativi di divinizzazione dell’uomo, in quanto venuto proprio a schiacciare la testa al serpente che è all’origine della superbia insita in tale impostazione filosofica.
Un unico mediatore
«Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se conoscete me conoscerete anche il Padre» (Gv 14, 6-7), afferma Cristo. Ma ciò implica che vi sia un Padre che viene rivelato da un Figlio, vale a dire che vi sia un «mediatore». Ora, anche in seno a filosofie di natura panteista come il New Age e altre, esistono figure intermedie tra l’uomo e mondi superiori o inferiori (nello gnosticismo, per esempio, le divinità inferiori, come la «Sofia», sono denominate eoni).
Esse possono essere angeli, spiriti o diavoli, che vengono invocati per ottenere un rilassamento orientato al miglior controllo della propria vita in funzione della carriera e del benessere, oppure pare si uniscano ai cosiddetti medium, altri intermediari, attraverso i quali si manifestano durante gli stati di «estasi». In tali fenomeni, detti Channeling, si verificherebbe come un canale di collegamento tra esseri quali angeli, divinità, entità collettive, spiriti della natura e il Sé superiore, tra i quali avviene uno scambio di informazioni.
Sono veri e propri fenomeni di spiritismo, ai quali si mescolano anche le sempre più spesso propagandate comunicazioni con entità extraterrestri. Anche con gli spiriti della natura, quali energie potenti indicate come mediatori tra l’uomo e la divinità, si tenta un contatto mediante rituali, droghe o tecniche che inducono stati alterati di coscienza. Invece nel cristianesimo Gesù è l’unico mediatore tra Dio e l’uomo, il Figlio di Dio, in quanto vero Dio e vero Uomo. Non si ammettono altri mediatori se non nella piena partecipazione a Cristo, unico Salvatore. Non si giunge al Padre se non per mezzo del Figlio.
Ora il New Age tenta in qualche modo di «neutralizzare» il significato di tutto ciò esaltando, o fingendo di esaltare, Gesù quale grande profeta, saggio, iniziato, avatar, «maestro universale», portatore, come tutti coloro che hanno fatto un cammino interiore di illuminazione che li renda consapevoli della divinità che è in loro, della cosiddetta «conoscenza perenne», superiore e precedente rispetto a ogni religione.
Se ne conclude che Egli, come tale, certo non poteva morire in croce: «Per il New Age», recita il documento del Pontificio Consiglio della cultura e del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso, Gesù Cristo portatore dell’acqua viva. Una riflessione cristiana sul «New Age», «il Cristo Cosmico è un modello che può ripetersi in molte persone, luoghi e tempi; è il portatore di un enorme mutamento di paradigmi; è, in definitiva, un potenziale dentro di noi. Per la fede cristiana, Gesù Cristo non è un modello, ma una persona divina la cui figura umano-divina rivela il mistero dell’amore del Padre per ogni essere umano attraverso la storia (Gv 3, 16)» (3.3).
Con acutezza, infatti, il cardinale Biffi nota che riguardo a uno come Cristo che, solo, affermava pubblicamente di essere Dio, non esistono alternative possibili: o era pazzo oppure veramente Dio. In tal modo si smaschera facilmente l’escamotage utilizzato da molti per presentare Cristo come uno tra tanti, anche se ovviamente «migliore». In definitiva, infatti, «in campo religioso, il New Age offre un’alternativa all’eredità giudaico-cristiana. Si pensa che l’Età dell’Acquario sostituirà quella dei Pesci, prevalentemente cristiana. I pensatori del New Age ne sono estremamente consapevoli.
Alcuni di loro sono convinti che il prossimo mutamento sia inevitabile, mentre altri sono impegnati attivamente affinchè ciò avvenga. Chi si chiede se sia possibile credere sia in Cristo sia nell’Acquario sappia che questa è una situazione nella quale o si sta da una parte oppure dall’altra. Non va mai dimenticato che molti dei movimenti che hanno nutrito il New Age sono esplicitamente anti-cristiani. Il loro atteggiamento nei confronti del cristianesimo non è neutro, è neutralizzante.
Nonostante quanto spesso viene detto sull’apertura a tutte le concezioni religiose, il cristianesimo tradizionale non viene considerato un’alternativa accettabile. Infatti, a volte si dice chiaramente che “non c’è posto dove si possa tollerare il vero cristianesimo” e si giustificano anche comportamenti anti-cristiani» (ivi, 6.1; corsivo mio). Cristo infatti, Logos eterno, è portatore di una verità universale, valida per tutte le culture e tutti i tempi, certo iscritta nel cuore dell’uomo, ma in quanto sigillo impresso nella creazione da un Dio trascendente.
Inoltre Egli è Colui che è stato mandato dal Padre a rivelare la verità nascosta da secoli in Dio, della sua Unità e Trinità, e a costituire la sua Chiesa in cui si trova la pienezza della Verità rivelata. (Cfr il Documento della Congregazione per la Dottrina della fede Dominus lesus, 2000). E per la contemplazione, secondo san Bonaventura, è necessaria «la conoscenza del Verbo increato, mediante il quale tutte le cose sono prodotte; la conoscenza del Verbo incarnato, mediante il quale tutte le cose sono riparate; la conoscenza del Verbo ispirato, mediante il quale sono rivelate tutte le cose» (Collationes in He-xaémeron, III).
Ora è evidente che questo messaggio contrasta fortemente con quello della «conoscenza perenne» di natura umanitaria, propria del panteismo. Si nota anche con dolore che già dall’epoca del Sillabo la Chiesa mette in guardia nei confronti di influssi immanentistici penetrati anche all’interno dell’elaborazione teologica, che esigerebbero un «aggiornamento» della Rivelazione considerata «imperfetta», vale a dire il suo necessario adattamento al progredire della ragione umana nella storia.
«Una cosa sola con il Padre»
Lo stesso si può dire per l’affermazione di Gesù: «Chi ha visto me ha visto il Padre. Il Padre che è in me compie le sue opere. Credetemi: io sono nel Padre e il Padre è in me; se non altro, credetelo per le opere stesse» (Gv 14, 9-11). Non dice infatti: «chi vede me vede la Madre». Già questo urta la sensibilità di panteisti quali i seguaci del New Age o gli ambientalisti adoratori di Gaia. La ripresa del culto pagano della Madre Terra è chiaramente in funzione anticristiana e antiebraica, in quanto mira a sostituire al principio mascolino quello femminile.
A ciò si aggiunga che proprio con tale affermazione Gesù, nel contesto, propone sé stesso come una cosa sola con il Padre. Ora, però, a Questi è attribuita in modo particolare la creazione (opera, comunque, di tutta la Trinità). Quindi, se Gesù è l’immagine perfetta del Padre anche nella sua precipua missione di rivelare la misericordia divina, il Padre creatore non sarà quel «dio» cattivo presente nella filosofia gnostica, bensì piuttosto colui che ha le viscere che si muovono a compassione per i «miseri» (non intendo qui giustificare le teorie sul «dolore di Dio», poiché non compete a Dio rattristarsi delle miserie altrui).
Ma il messaggio dell’Amore divino e della misericordia non entra nella visione panteista, in un universo, cioè, «incatenato» nel determinismo, in cui non trova spazio una volontà divina che si volge all’uomo, amandolo. Perché questo potesse accadere sarebbero necessari un «distacco» essenziale tra Dio e l’uomo e la presenza di un Dio personale, un Dio che si rivolga all’uomo con il «tu», in un rispettivo gioco di libertà. Ma ciò è del tutto estraneo al panteismo. Quelle parole pronunciate dall’Uomo-Dio, altresì, fanno di Lui un unicum nella natura.
Egli, una cosa sola con il Padre, afferma di essere nel Padre così come il Padre è in Lui, grazie alla circuminsessione o circumincessione (termine preferito dai francescani perché mette maggiormente in evidenza la dinamicità delle relazioni divine). Una cosa sola, dove c’è distinzione reale solo in forza delle relazioni, quali relazioni sussistenti. Lui e solo Lui può definirsi una sola cosa con il Padre, così che chi vede Lui vede il Padre e così da poter dire, dopo la Risurrezione, «Padre mio e Padre vostro».
Solo in Gesù si può trovare, in questo mondo, la pienezza della divinità, poiché la sua filiazione deriva da generazione di un’altra Persona divina, il Padre appunto. Noi pure, altresì, siamo chiamati alla filiazione divina, ma in quanto partecipi della grazia, che in noi esiste in modo creato. Cristo, invece, non «ha» la grazia, bensì «è» la grazia increata, che per pura benevolenza e condiscendenza, ha deciso di comunicarsi a noi.
«Anch’essi in noi una cosa sola»
«Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Gv 17, 21).
Qui si vede bene che anche il cristianesimo mira all’unione tra Dio e l’uomo, ma senza che vi sia confusione o annullamento tra soggetti o di un soggetto in un «tutto» indefinito, come nel panteismo. Inoltre Cristo subordina la possibilità di tale unione, tanto profonda da essere assimilata a quella sponsale, all’ubbidienza ai suoi comandi: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Gv 14, 23). Cosa questa inammissibile per un panteista, il quale anzi ha come obiettivo la «liberazione» dalla Legge per essere legge a sé stesso.
Egli, che rifiuta l’imposizione della norma «oppressiva» data da Dio ai nostri progenitori nel paradiso terrestre, non potrà certo accogliere il messaggio di Cristo che esplicitamente afferma: «La parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato» (Gv 14, 24). La conferma alla Legge data da Gesù, al punto che neanche uno iota potrà cadere da essa, non farà che mettere maggiormente in evidenza l’inconciliabilità con il panteismo, dove l’etica si dissolve a tutto vantaggio di forme di autorealizzazione e di affermazione di potere oppure di quietismo. La questione, infatti, è: sono io «dio»? Sono io che decido ciò che è bene e ciò che è male? Oppure Cristo mi rivela la volontà del Padre che mi guida alla conoscenza del Vero e del Giusto?
«Non per i sani, ma per i malati»
L’elemento decisivo, infine, che determina il motivo di fondo dell’incompatibilità radicale tra panteismo e cristianesimo è costituito dal fatto che Cristo è venuto sulla terra per la nostra Redenzione, ossia per portare il perdono dei peccati. Ora, Gesù ha chiaramente detto che non è venuto per i sani, bensì per i malati. Tuttavia i seguaci del panteismo sono proprio quei «sani» cui si fa riferimento, in quanto in loro c’è «dio», anzi essi stessi sono «dio». L’uomo, così concepito, dunque, non può che essere buono, in quanto attribuisce a sé le perfezioni divine.
Tale legittimazione del «buonismo» nel panteismo esclude, in modo radicale, il benché minimo sospetto di peccaminosità dell’uomo. Senza peccato, non c’è neanche spazio per il perdono (talora ammesso in modo incondizionato, cioè senza necessità di pentimento, il che equivale a negarlo). In definitiva, diviene legittimo chiedersi che cosa sarebbe venuto a fare Cristo sulla terra, se non per illuminare altri «cristi» come Lui affinchè riconoscano di avere «dio» in loro, di essere «dio» loro stessi, vale a dire… «buoni». E’ evidente che Gesù non sarebbe venuto a portare niente di veramente nuovo e trasformante.
Noi, secondo questa visione delle cose, possiamo tranquillamente restare nelle nostre iniquità, nella nostra violenza, perché esse, nel disegno della storia così come è visto in genere nel panteismo, non sarebbero altro che l’elemento necessario per la realizzazione del bene. In tale contesto non risulta possibile né la purificazione dal proprio peccato né la liberazione dal male altrui; in una parola, non si prevede l’azione della misericordia, perché essa implica il chinarsi di una volontà verso chi è bisognoso di aiuto, non perché sia lasciato così come è, cioè «misero», bensì perché sia elevato. Ma la volontà divina è negata laddove si riconosce solo un «dio» impersonale coincidente con il «tutto».
E anche la volontà umana, come facoltà del singolo, dotata di libertà, viene dissolta in un contesto deterministico. Non resta che considerare il misero, che non è dotato di illuminazione speciale, un elemento da escludere o eliminare. È evidente che, in tal modo, viene totalmente svuotata di senso la figura di Gesù e la sua missione salvifica la quale ha come suo centro proprio l’annuncio e la comunicazione della divina misericordia. Questo però presuppone una volontà divina che possa rivolgersi ad altri esseri intelligenti i quali si riconoscano «miseri», vale a dire bisognosi della misericordia, in una parola peccatori.
In un contesto panteista, invece, la volontà redentiva del Cristo non incontra se non persone già soddisfatte della loro condizione, impermeabili a qualunque azione salvifica esterna, convinte di potersi «salvare» da sole, in una prospettiva di vita esclusivamente intramondana. L’esito di tutto ciò, a mio parere, non può essere che la frustrazione delle attese, la disperazione unita a uno stato di schiavitù reciproca tra gli uomini in una logica di legittimazione del potere in quanto tale. L’unica alternativa vera a tale avvilente sottomissione non resta che quella della libertà di figli di un Dio che salva rendendo simili al Figlio. Egli infatti riscatta dal «mondo», quale regno di morte e di violenza, in vista del Regno ultramondano di Pace e di Amore.
«Se il mondo vi odia», afferma Gesù, «sappiate che prima di voi ha odiato me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo, poiché invece non siete del mondo, ma io vi ho scelti dal mondo, per questo il mondo vi odia» (Gv 15, 18, 19). Quel «mondo», che ha come «padre» e principe il demonio, non può non detestare e combattere coloro che da esso si distinguono perché «scelti», separati, appartenenti alla stirpe di Colei che è destinata a schiacciargli il capo affinchè si realizzi il vero mondo della Pace: «II Signore solleva dalla polvere il misero, innalza il povero dalle immondizie, per farlo sedere con i principi e fargli occupare il trono di gloria» (1 Sam 2, 7, 8).