di Pierluigi Battista
Papa Ratzinger ha comunicato qualcosa di profondamente e disperatamente vero nella sua parziale autorettifica di ieri. A poche ore dagli attentati di Londra aveva (sembra) interpretato quella follia stragista come una truce manifestazione di aggressività «anticristiana». Poi, saggiamente, ha attenuato la portata dirompente di quella prima dichiarazione con la calibrata sostituzione dell’esplicito «anticristiano» con un più vago e morbido «barbarico». Una prova di sapienza diplomatica, un gesto di prudenza, una correzione necessaria per non contribuire all’incendio dello «scontro di civiltà» tra il mondo cristiano e lo jihadismo islamista.
Parlano di tutto, anche con espressioni altisonanti, senza che ciò appaia sconveniente, inopportuno, persino sconsiderato. Un solo attacco deve essere minimizzato e sottaciuto, quello ai valori e ai simboli della «cristianità», pur nell’accezione più larga e onnicomprensiva del termine. Dirlo, nominare il «cristiano» viene equiparato ipso facto a un’implicita istigazione a una nuova guerra di religione.
Ciò che nell’Occidente, nella libertà, nella democrazia può essere ricondotto alla sua matrice «cristiana» deve essere separato dalle radici da cui pure è scaturito, sospeso in un limbo di astoricità in cui si possa fare a meno di cimentarsi con il problema cruciale all’identità. L’attacco terroristico può essere declinato e descritto in mille modi tranne uno, quello cristiano. Con una parafrasi rovesciata del motto di Benedetto Croce, il terrorismo può essere tante cose ma, per convenzione quasi unanimemente accettata, non può mai dirsi «anticristiano».
Questa sindrome omissiva è un problema che riguarda, prima ancora che la Chiesa e i credenti, l’universo mentale di ciò che resta della cultura laica. Sarebbe un giorno fortunato quello in cui laici, quelli che non credono, che non si riconoscono nella dottrina della Chiesa, che diffidano dell’integralismo religioso, che restano fedeli al principio fondamentale della separazione tra sfera politica e dettami religiosi, capissero quali conseguenze negative siano contenute in questa ossessione di raschiare via, sottrarre, azzerare, persino lessicalmente cancellare ciò che nell’Occidente libero è riconducibile a una cornice in senso lato «cristiana».
Il problema non è il Papa, e l’opportunità del suo dire e apertamente commentare (che pure dovrebbe essere riconosciuto come diritto pieno e incondizionato da chiunque abbia a cuore la libertà d’espressione). Papa Ratzinger, anzi, non si è mai rappresentato come paladino dell’Occidente sin da quando, Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede e non ancora Benedetto XVI, esortava in un convegno organizzato dal Centro di orientamento politico a non commettere l’errore di sovrapporre cristianesimo e Occidente. «La Chiesa sostanzialmente non può riconoscersi nella categoria “Occidente”.
Sarebbe sbagliato storicamente, empiricamente e ideologicamente», diceva il cardinale Ratzinger. Che aggiungeva: «la Chiesa, per sua essenza, dovrebbe trascendere le culture, è quanto gli Atti degli Apostoli dicono sul giorno di Pentecoste, sulla presenza di tutte le culture conosciute e di tutte le lingue». E ancora, con parole se possibile più impegnative: «La Chiesa deve sempre di nuovo trascendere la sua definizione occidentale e estendersi realmente verso l’universalità, soprattutto trascendendo se stessa verso il divino, che è l’unica realtà che può creare una comunicazione delle culture».
Chi immagina un Ratzinger interprete della guerra santa contro l’Islam non tiene conto di queste semplici e inequivocabili parole. Anche nella dichiarazione del cardinale Angelo Sodano, in cui il Vaticano con formula prudente e addirittura sapientemente tortuosa chiede di porre fine allo «scontro di civiltà» innescato dall’islamismo fondamentalista traspare la volontà di risvegliare l’Occidente affinché riconosca uno «scontro di civiltà» già in atto (altrimenti, perché l’accorata esortazione a porvi fine?) ma senza scivolare nello stesso terreno di contrapposizione irriducibile tra le religioni.
Per questo siano i laici i primi a interrogarsi: perché cancellare e annichilire persino sul piano linguistico il riferimento alla «cristianità» ferita a morte dall’offensiva jihadista? Non è questo un segnale di arretramento culturale, di asfissia mentale, di meschineria ideologica? Gli stessi radicali di Marco Pannella usavano distinguere, nella loro pugnace milizia anticlericale, tra il popolo dei «cristiani» e le gerarchie ecclesiastiche bersaglio dei loro strali. Oggi il senso stesso di questa distinzione è appannato. I laici che dicono Occidente non possono più dire «cristiano».
Sono gli stessi guerrieri del fondamentalismo islamico a dichiarare ossessivamente che il loro obiettivo sono gli «ebrei» e i «crociati» da trucidare e sterminare in nome della fede. Ma i laici ritengono conveniente non vedere e confinare quelle minacce nel cielo della sovrastruttura religiosa.
Eppure il terrorismo fondamentalista considera l’infedele come l’essere immondo da annientare, mentre è all’origine della predicazione cristiana di Paolo di Tarso il principio secondo cui «non c’è più né greco né giudeo, né barbaro né scita, né schiavo né libero, ma tutti siamo uno in Cristo» e «se uno è in Cristo è una nuova creatura». Non c’è bisogno di credere e di genuflettersi devotamente per riconoscere in queste parole il senso di una rivoluzione della libertà e dell’uguaglianza che ha fatto dell’Occidente ciò che è diventato e la cui identità oggi viene messa sotto «attacco» nel modo più micidiale e cruento.
Un attacco che per primi i laici, non il Papa, potrebbero avere il coraggio di definire così: «anticristiano».