di Massimo Introvigne
«Milioni di persone sono coinvolte nel fenomeno delle migrazioni, ma esse non sono numeri! Sono uomini e donne, bambini, giovani e anziani che cercano un luogo dove vivere in pace». Sono le parole di Benedetto XVI nell’Angelus di domenica 16 gennaio, in occasione della Giornata del Migrante e del Rifugiato, cui il Papa aveva già dedicato un documento pubblicato lo scorso 25 ottobre 2011. Il tema è molto interessante, e circondato da equivoci e slogan. Vale dunque la pena di cercare di capire meglio che cosa insegna la Chiesa in tema d’immigrazione.
Il primo principio è l’affermazione dei «diritti delle persone e delle famiglie emigrate». Una volta che è arrivato nel Paese di destinazione, il migrante deve vedersi riconosciuti i «diritti fondamentali inalienabili», e dev’essere sempre trattato come una persona, mai «come una merce», o – appunto – come un numero.
Il secondo principio è che si devono ugualmente salvaguardare i diritti «delle società di approdo degli stessi emigrati»: diritti non solo alla sicurezza ma anche alla difesa della propria integrità nazionale e della propria identità. Pochi giorni fa, il 12 gennaio, parlando agli amministratori di Roma e del Lazio il Pontefice ha ricordato che gli immigrati non hanno solo diritti ma anche doveri. È «necessario […] alimentare percorsi di piena integrazione, che consentano l’inserimento nel tessuto sociale», in modo che anche l’immigrato impari a «sentire il luogo dove risiede come la “casa comune” in cui abitare e della quale prendersi cura, nell’attento e necessario rispetto delle leggi che regolano il vivere collettivo».
Il terzo principio riguarda i diritti delle comunità di cui chi emigra fa parte, comprese le società di partenza degli emigrati, che si deve porre attenzione a non svuotare di risorse e di energie, sottraendo loro con l’emigrazione persone che sarebbero utili e necessarie nel Paese di origine. Va sempre posta attenzione, afferma ancora la «Caritas in veritate», al «miglioramento delle situazioni di vita delle persone concrete di una certa regione, affinché possano assolvere a quei doveri che attualmente l’indigenza non consente loro di onorare»: anzitutto dove sono nate, e senza essere costrette o indotte all’emigrazione.
In occasione del viaggio del 2008 negli Stati Uniti Benedetto XVI aveva precisato: «La soluzione fondamentale è che non ci sia più bisogno di emigrare, perché ci sono in Patria posti di lavoro sufficienti, un tessuto sociale sufficiente, così che nessuno abbia più bisogno di emigrare. Quindi, dobbiamo lavorare tutti per questo obiettivo, per uno sviluppo sociale che consenta di offrire ai cittadini lavoro ed un futuro nella terra d’origine».
Questi tre principi sono violati da tre distinti atteggiamenti e ideologie.
Il primo principio è negato dalla xenofobia – descritta e denunciata dal Beato Papa Giovanni Paolo II (1920-2005) nel Messaggio per la 89a Giornata mondiale del migrante e del rifugiato del 2003, del 24 ottobre 2002 –, cioè dalla convinzione che l’altro, lo straniero è per definizione inferiore a chi abita da sempre il Paese di approdo dell’emigrazione e può essere quindi discriminato in quanto straniero. C’è una xenofobia rozza e talora semplicemente stupida, quella di chi scrive sui muri «Morte agli immigrati». E ce n’è una più scaltra e sottile, quella di chi sfrutta la diffusione di questi sentimenti per la manipolazione degli immigrati al servizio di strategie di potere economico – l’immigrato è considerato soltanto un lavoratore che costa meno – quando non criminale.
Un certo «turbocapitalismo» davvero considera l’immigrato «come un numero» e non come una persona. Nel mio anno di lavoro come Rappresentante dell’OSCE (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) per la lotta al razzismo, alla xenofobia e alla discriminazione religiosa ho potuto constatare come spesso un razzismo e una xenofobia di fatto in Europa coesistano tranquillamente con solenni proclamazioni di anti-razzismo, che poi non hanno traduzioni pratiche, tanto meno nel mondo del lavoro.
Il secondo principio è violato da quello che molti studiosi oggi chiamano «immigrazionismo», cioè dall’ideologia secondo cui l’immigrazione è per definizione e comunque un fenomeno eticamente e culturalmente buono ed economicamente vantaggioso, e negare che lo sia sempre è di per sé manifestazione di xenofobia e di razzismo. In quanto non chiede agli immigrati di rispettare i valori delle società che li accolgono – come invece chiede il Papa – e propone un multiculturalismo assoluto, secondo cui tutte le culture sono uguali e qualunque comportamento che sia diffuso o tipico di una certa comunità dev’essere per questa sola ragione tollerato, l’immigrazionismo è una forma tipica del relativismo contemporaneo.
Il terzo principio è violato dal disinteresse per le prospettive di vero sviluppo delle comunità degli immigrati, sia in patria sia nella diaspora. Un punto centrale della «Caritas in veritate» è che l’autentico sviluppo non può non comprendere lo sviluppo religioso, la scoperta e la conservazione della vera fede. Nell’Angelus del 15 gennaio il Pontefice ha ricordato che «nel mio Messaggio per questa Giornata del Migrante e del Rifugiato ho richiamato l’attenzione sul tema “Migrazioni e nuova evangelizzazione”, sottolineando che i migranti sono non soltanto destinatari, ma anche protagonisti dell’annuncio del Vangelo nel mondo contemporaneo». Chi pensa che i migranti abbiano bisogno solo di pane e coperte, e non di verità e della Parola di Dio che salva non vuole veramente il loro bene.