Per gli immigrati non ci sono solo diritti ma anche doveri. Il primo è il rispetto della cultura e della civiltà di chi li accoglie.
Massimo Introvigne
Chi è preposto alla sicurezza e all’accoglienza sappia far uso dei mezzi atti a garantire i diritti e i doveri che sono alla base di ogni vera convivenza e incontro tra i popoli”. Parole, come si vede, molto chiare. Anzitutto, è impossibile impostare con serietà la questione dell’immigrazione se si rimane nell’angusto orizzonte del relativismo, secondo cui ogni popolo ha i “suoi” valori e non esistono valori universali e assoluti.
Così, per esempio, il matrimonio monogamico sarebbe un valore attestato e vissuto da secoli in Occidente ma non si potrebbe, senza essere razzisti o imperialisti, imporlo a popoli che da secoli praticano la poligamia. E anche l’atteggiamento dei nomadi Rom sul rapporto con il territorio e la proprietà privata (altrui) avrebbe lo stesso intrinseco valore dei principi di legalità maturati dalla nostra cultura. Non è così. Tutto il magistero di Benedetto XVI insegna che un’autentica “civiltà morale” si costruisce intorno a un tessuto di valori che non sono propri di questo o di quel popolo, ma di “ogni popolo”.
Principi come non uccidere, non rubare, non spacciare droga, rispettare il lavoro e la famiglia non sono europei o asiatici, italiani o balcanici, cristiani o buddhisti o atei: sono principi universali, che s’impongono a ogni persona umana in quanto persona. La Chiesa stessa non li indica come valori che deduce dal Vangelo: come Benedetto XVI ha ricordato tante volte, i valori universali possono essere riconosciuti dalla ragione