di Eugenio Capozzi
Per interpretare subito sgombrare il campo da due letture assolutamente fuorvianti: dalla tesi, cioè, secondo cui il risultato emiliano-romagnolo rappresenti una vittoria del Partito democratico, e da quella secondo cui esso sia una sconfitta personale di Salvini.
Riguardo al primo punto, è evidente che quello del centrosinistra è stato innanzitutto un successo personale di Stefano Bonaccini. Il governatore ha fatto campagna evitando ostentatamente ogni simbolo di partito, puntando tutto sulla propria leadership, cercando di mantenere il più possibile la contesa su un piano locale senza coinvolgere gli equilibri nazionali, e i risultati lo hanno premiato.
Dei quasi 8 punti di vantaggio con cui ha prevalso sulla sfidante Lucia Borgonzoni, soltanto 2,7 provengono dalla differenza di voti tra le due coalizioni (centrosinistra 48,1, centrodestra 45,4), mentre i rimanenti circa 5 sono dovuti al voto disgiunto a suo favore, da parte di elettori che non hanno votato alcun partito o addirittura da elettori di 5Stelle e destra. In più, nella somma dei voti di coalizione il Pd ha conseguito il 34,7%, quasi 10 punti in meno delle elezioni del 2014, mentre ben l’8,4% dei consensi proviene da 2 liste civiche “personalizzate” (contro lo scarso 2% di liste analoghe nelle precedenti regionali).
Bonaccini, insomma, vince non tanto grazie al Pd, ma nonostante il Pd, e costruendo un profilo autonomo da quel partito, secondo una strategia completamente opposta a quella perseguita qualche mese fa, con risultati rovinosi, dal centrosinistra nelle consultazioni umbre.
Egli si è proposto in primo luogo come garante in prima persona della sopravvivenza del sistema di potere socio-economico locale, fondato sul legame tra intervento pubblico (Ue, governo, regione) e la rete delle cooperative, dei sindacati, dei servizi sociali, delle banche locali, compattandolo (soprattutto nel nucleo forte Bologna-Modena-Reggio) contro il rischio di ridimensionamento associato ad una possibile vittoria della Lega, e quindi del modello amministrativo liberista/federalista proprio di Lombardia o Veneto.
Di questo sistema corporativista regionale il Pd è ormai poco più che il referente nazionale, la cinghia di raccordo, ancora necessario in quanto l’alternativa grillina si è rivelata, per la salvaguardia di quegli interessi, inutile e fallimentare.
Ma come soggetto politico autonomo esso si limita ad andare al traino, attestandosi poco più sopra dei livelli – rispetto alla sua tradizione locale per nulla esaltanti – raggiunti nelle elezioni europee, e al massimo riassorbendo una minima parte dei consensi che erano sfuggiti verso i lidi pentastellati.
Se si somma questa situazione ai risultati calabresi (e alle prospettive attuali per le altre regioni che si avvicinano al voto) si comprende chiaramente come questa tornata elettorale non smentisca il processo di progressiva marginalizzazione del Pd e della sinistra in Italia, in corso da anni, ma si inserisca in quel processo.
Se in tutto l’Occidente le sinistre di radici socialiste si vanno sempre più riducendo a partito minoritario delle élite urbane, “partito ZTL”, in Italia la sinistra già comunista e post-comunista si limita a sommare a quella base sociale neo-borghese i sistemi di potere locali radicati in due regioni – Emilia e Toscana – che comunque, elezione dopo elezione, appaiono sempre più come un “bunker” sotto assedio.
Sul piano della politica nazionale, in questo momento la posizione di vantaggio del Pd è data dalla fortunosa conquista del governo, messa in atto qualche mese fa con la collaborazione dei 5Stelle già in grave crisi, e dalla disperata resistenza di gran parte dei rappresentanti di quel movimento alla prospettiva di elezioni anticipate per la quasi certezza di essere esclusi dal prossimo parlamento – resistenza assecondata dal Quirinale e dai vertici Ue.
Ma il vero e proprio tracollo subìto dai grillini nelle elezioni emiliane crea uno squilibrio talmente accentuato nell’equilibrio di coalizione che potrebbe generare ben presto effetti ben diversi da quel consolidamento oggi atteso dai più, ed anzi un rapido degenerare della situazione politica nella totale ingovernabilità, ponendo il Pd bruscamente di fronte a tutte le proprie difficoltà strutturali.
Per quanto riguarda poi il secondo punto, è un errore sostenere che il risultato emiliano-romagnolo rappresenti una sconfitta personale di Salvini, sottolineata dalla forte personalizzazione da lui imposta alla campagna elettorale. Il centrodestra da lui guidato ha infatti conseguito, come ricordato sopra, il 45,4% dei voti di lista, rispetto al 29,7% del 2014, colmando il vuoto lasciato dai 5Stelle e attestandosi a pochi punti dalla sinistra indiscutibilmente egemone in quei territori da 70 anni.
La Lega ha quasi raddoppiato i voti non solo rispetto al 2014, ma anche alle politiche del 2018, mantenendosi, con il 31,9%, praticamente ai livelli raggiunti lo scorso anno alle europee (33,7%), ma nel contesto ben più arduo di una contesa locale in una regione in cui il suo radicamento, rispetto a quello del Pd, è molto minore.
Si critica Salvini perché ha impostato tutta la campagna sul piano nazionale molto più che locale, e perché la ha ostentatamente personalizzata trasformandola in una sorta di referendum su se stesso e in una sfida per o contro il governo, oscurando così la sua candidata.
Ma nelle condizioni date – la sfida ad una “fortezza” di potere locale consolidata da decenni, e la classe dirigente a disposizione del centrodestra locale attualmente – sarebbe stato molto difficile per lui pensare ad una differente strategia per poter almeno tentare di cambiare gli equilibri e sovvertire il pronostico.
L’arroccamento del sistema locale ha prevalso, ma il risultato della Lega, come quello di Fratelli d’Italia, testimonia che una forte breccia nel campo avversario è stata aperta, e difficilmente il leader leghista – così come la Borgonzoni – oggi poteva fare di più.
Il segno più preoccupante che arriva al centrodestra dai risultati di queste consultazioni, semmai, è la vera e propria débacle di Forza Italia, crollata alla percentuale irrisoria del 2,56% dal 9,9% delle politiche 2018 e dal 5,87% delle europee 2019. Una débacle a cui si somma il risultato “di testimonianza” della lista Cambiamo! Insieme al Popolo della Famiglia (0,3%).
Questi dati testimoniano nella maniera più immediata il vuoto che si è creato nell’area liberale e cattolica della destra a trazione sovranista, rimasta praticamente sguarnita. E dovrebbero indurre l’intera coalizione ad una riflessione e ad un confronto su come riempire efficacemente quel vuoto.
Se insomma sull’immigrazione, il confronto con l’Ue, l’ordine pubblico e la sicurezza Lega e Fdi riescono a incontrare con successo le richieste di una parte consistente dell’opinione pubblica, viceversa sui temi della crescita economica, della libertà d’impresa, delle garanzie contro gli abusi giudiziari, delle politiche familiari viceversa manca ancora, evidentemente, una voce abbastanza forte ed autorevole, soprattutto in contesti locali difficili come quello emiliano-romagnolo.
In queste elezioni, ad esempio, per abbattere l’ultimo muro del “bunker” sarebbe stato necessario convincere i tanti elettori legati all’”indotto” del corporativismo emiliano che in termini di lavoro, benessere, sviluppo, welfare, il modello amministrativo lombardo e veneto è più vantaggioso, oltre che più rispettoso delle libertà individuali e delle scelte familiari.
Ma a tale scopo è necessaria una forza ben più strutturata, dal punto di vista organizzativo e culturale, in senso liberal-conservatore. Da questo punto di vista, la destra attuale ha ancora parecchio lavoro da fare.