In un libro pubblicato dalla Morcelliana Lucetta Scaraffia e Oddone Camerana ricostruiscono la storia sociale dell’eugenetica, individuandone e analizzandone le ramificazioni e le implicazioni di lungo periodo
Roberto Pertici
La sua diffusione determinò la «morte di Adamo» (l’espressione è dello storico americano John C. Greene): non solo la messa in discussione dell’approccio letterale al racconto biblico della creazione, ma la negazione dell’origine divina dell’uomo e la diffusa accettazione della sua sostanziale animalità.
Veniva meno ogni differenza fra l’essere umano e il resto della natura, fra la vita umana e quella del mondo animale e vegetale e quindi fra le leggi che le regolano. E poiché l’uomo vive in società, ne derivò un approccio naturalistico anche alla vita sociale: nacque nei decenni successivi il “darwinismo sociale”, che conobbe un particolare successo nella Germania guglielmina, ma che produsse effetti di lunga durata un po’ dovunque.
Il progresso dell’uomo veniva identificato con quello biologico, non col progresso morale. Ma la «morte di Adamo» produsse anche un altro risultato, che viene ora illustrato da Lucetta Scaraffia in un libro recente (Per una storia dell’eugenetica. Il pericolo delle buone intenzioni, con un saggio di Oddone Camerana, Brescia, Morcelliana, 2012, pagine 310, euro 25): se l’essere umano ha una natura fondamentalmente animale, perché non applicare anche a lui quelle tecniche di miglioramento della specie che si praticano verso le specie animali? Tanto più che la sopravvivenza dei più adatti non era più garantita dalle epidemie o dalle guerre, come invece era accaduto per secoli.
Fu su questi fondamenti che nacque e si sviluppò l’eugenetica. Esso è legato innanzitutto al nuovo culto della Scienza (con la s maiuscola) che si sviluppa nell’età del positivismo e all’inedito prestigio sociale che da allora circonda biologi, medici, zoologi, antropologi: si tratta di una nuova élite di potere, che promette il miglioramento biologico dell’essere umano. Facendo balenare questa possibilità — nota Lucetta Scaraffia — l’eugenetica offriva agli scienziati l’occasione di uscire dai laboratori e dalle aule universitarie e di diventare celebri presso il grande pubblico: era una figura nuova, quella dello scienziato-filantropo, del “benefattore dell’umanità”, che si veniva affermando.
L’«uomo nuovo» a cui si tendeva avrebbe progressivamente assunto anche caratteristiche biologiche inedite: non era sufficiente lottare contro le disuguaglianze sociali, si doveva governare razionalmente anche l’elemento biologico per dirigerlo, per scoprire e superare le necessità originate da «eredità» e fatalità geografiche e «razziali». L’eugenetica è un capitolo chiuso per sempre, almeno come «eugenetica delle popolazioni», come programma di miglioramento del loro livello biologico attraverso una serie di interventi preventivi (sterilizzazione) e — in casi estremi — anche di eliminazione fisica dei disabili.
Ma Scaraffia non avrebbe affrontato questo studio se non fosse convinta che nel senso comune diffuso nelle società occidentali sopravvivano non pochi degli stereotipi che gli instancabili divulgatori di quella pseudo-scienza hanno diffusi per decenni: il culto della Scienza, l’aura sacrale che sempre e comunque circonda gli scienziati, il ruolo della divulgazione scientifica, la fobia dell’anormalità.
Ieri era il miglioramento della stirpe pianificato e imposto dallo Stato, oggi una scelta individuale fatta in nome del benessere e della salute dei genitori e della sostenibilità della vita da parte del nascituro: sta di fatto che ai giorni nostri la nascita (o meno) di un bambino dipende — quasi sempre — dal suo bagaglio genetico. La cosa non sarebbe dispiaciuta agli apostoli dell’eugenetica.