di Amir Taheri
Nessuno dovrebbe sentirsi al sicuro se non si sottomette all’islam e coloro che vi rifiutano dovranno pagare un prezzo alto. L’islam deve puntare a trasformare il mondo in una serie di “regioni selvagge” (wildernesses) in cui solo coloro che vivono sotto la legge del jihad avranno sicurezza.
Analisti del Medio Oriente pensano che il libro indichi un importante cambio di strategia dei gruppi disparati che si servono di Al Qaeda come di un marchio. La scorsa settimana, in alcuni raid notturni, la polizia saudita ha confiscato diverse copie del libro conseguentemente all’arresto di 700 presunti terroristi.
Il libro di Naji, scritto in un arabo pseudo-letterario, è pensato come un manifesto del jihad. Esso divide il movimento jihadista in cinque “cerchi”, che vanno dai musulmani sunniti salafiti (tradizionalisti che, pur non essendo violenti di per sé, sono pronti a dare sostegno morale e materiale ai militanti) ai gruppi islamisti con intenti nazionalisti o pan-islamisti (come ad es. Hamas in Palestina o il Fronte di Liberazione filippino).
Tutti e cinque i cerchi sono in una fase di impasse, sostiene Naji. Alcuni accettano la situazione di fatto sperando in una riforma. Altri hanno cercato di andare al governo in un mondo dominato da potenze “infedeli”, e sono stati obbligati ad abbandonare i valori islamici. Altri ancora hanno fallito perché non hanno capito che l’unico modo per vincere è per mezzo della guerra totale in cui nessuno più si senta al sicuro.
Naji sostiene che la caduta dell’Impero Ottomano e l’abolizione del califfato islamico nel 1924 ha segnato l’inizio della “fase più pericolosa della storia”. Questi eventi hanno posto tutti i paesi arabi, il “cuore” delle terre dell’islam, sotto il dominio degli “infedeli” – che più tardi hanno continuato a governare attraverso autoctoni, loro alleati.
Secondo Naji è impossibile creare uno stato islamico autentico in un solo paese, perché il mondo attuale è dominato da “crociati”. E cita l’esempio dei talebani, che pur essendo un regime islamico autentico, non è riuscito a sopravvivere agli attacchi degli “infedeli ” e all’opposizione di alcuni elementi afgani. Invece, a suo parere, il movimento islamico dev’essere globale, lottare dovunque, sempre e su tutti i fronti.
Dopo l’11 settembre i movimenti terroristici islamici hanno cercato di elaborare grandi strategie. Osama bin Laden ha teorizzato che gli “infedeli”, guidati dagli Stati Uniti, sarebbero stati fatti a pezzi dopo una serie di attacchi spettacolari, esattamente come il governo “infedele” della Mecca è crollato in seguito agli attacchi mortali lanciati dal profeta Maometto contro le loro vie del commercio. Eppure gli attacchi dell’11 settembre non hanno portato a una ritirata degli “infedeli”. Al contrario, il “Grande Satana” ha risposto colpendo duramente.
Questo ha persuaso alcuni leader di Al Qaeda del bisogno di una nuova strategia di attacchi più circoscritti, più lenti, ma più forti. Ayman al-Zawahiri, il numero 2 di Al Qaeda, ha adottato questa strategia fin dal 2003, sostenendo che il jihad avrebbe dovuto colpire prima i paesi musulmani, dove c’era la possibilità di rovesciare i rispettivi regimi.
A questo punto Naji porta avanti la sua analisi suggerendo una guerra di bassa intensità da estendere ovunque nel mondo si trovi una presenza significativa di musulmani. Secondo Naji, gli islamisti nelle “zone selvagge” devono creare società parallele, accanto a quelle già esistenti, ma non costituirsi in governi formali che poi sarebbero soggetti a pressioni economiche o attacchi militari. Queste società parallele potrebbero assomigliare alle “zone liberate” istituite dalle guerriglie marxiste in alcune parti dell’America Latina nell’ultimo secolo. O potrebbero esistere anche nelle città, sotto gli stessi occhi delle autorità, operando come società segrete con le proprie regole, valori e forze.
Ma potrebbero prendere forma anche nei paesi occidentali con ampie minoranze musulmane: i jihadisti dovrebbero iniziare col dare alle zone dove i musulmani vivono un’apparenza chiaramente islamica, imponendo speciali stili di abbigliamento alle donne e barbe agli uomini. Poi si comincia ad imporre la shari’a. Nella fase finale, i jihadisti creeranno un sistema parallelo di tassazione e rispetto della legge, sottraendo effettivamente in tal modo quelle zone al controllo del governo. Queste “zone selvagge” offriranno la copertura per basi e operazioni del jihad. Il jihad dovrà esserci ovunque, non solo in uno o due paesi che gli “infedeli” potrebbero colpire con forze superiori.
Segnando un notevole distacco dalla strategia passata di Al Qaeda, Naji raccomanda “molteplici piccole operazioni” che rendano la vita quotidiana insopportabile, piuttosto che pochi attacchi spettacolari come quello dell’11 settembre: l'”infedele” deve uscire di casa ogni mattina con la paura di non rientrare più.
Naji raccomanda i rapimenti, la detenzione di ostaggi, l’uso di donne e bambini come scudi umani, crimini efferati che terrorizzino il nemico, attentati suicidi e innumerevoli altri metodi per rendere la vita quotidiana impossibile agli “infedeli” e ai loro collaboratori musulmani. Una volta stabilite queste società parallele, essi faranno pressione sui non-musulmani perché si sottomettano. Naji crede che, sottoposti a costanti intimidazioni e paura di morire, la maggior parte dei non-musulmani (specialmente in Occidente) si sottometteranno: “L’Occidente non ha lo stomaco per una lunga battaglia”.
L’unica potenza occidentale ancora capace di resistere sono gli Stati Uniti, a suo parere. Ma anche questa situazione cambierà, una volta che se ne sarà andato il presidente Bush. Naji chiarisce che attualmente è l’America il principale, se non l’unico, obiettivo del jihad. Di Israele fa menzione una sola volta, come “il piccolo idolo-femmina dell’America”. L’unico riferimento alla Palestina è in un contesto storico.
Naji chiede ai jihadisti di prendere di mira gli impianti petroliferi, i servizi turistici e soprattutto i servizi bancari e finanziari. Prevede “una guerra molto lunga”, alla fine della quale il mondo intero sarà condotti sotto il vessillo dell’islam. E identifica poi alcuni paesi islamici come promettenti per stabilirvi il “governo del caos” (the governance of the wilderness): l’Arabia Saudita, il Pakistan, lo Yemen, la Turchia, la Giordania, la Libia, la Tunisia e il Marocco.
E’ dato per scontato che le “zone selvagge” esistano già in paesi come Afganistan, Iraq, Libano, Egitto, Somalia e Algeria.
La teoria di Naji è costruita sul concetto di terrore come il più importante principio dei mini-stati che egli spera di instaurare ovunque in preparazione del califfato venturo. Egli sostiene che il Profeta stesso ha praticato questa tattica facendo sì che i suoi nemici a Medina (dove ha instaurato la sua versione di “mondo selvaggio”) pagassero “il massimo prezzo” per qualunque devianza, e tramite costanti razzie contro le carovane dei commercianti della Mecca, suoi nemici.
In un linguaggio semplice, Naji offre una sintesi dei temi che interessano i vari gruppi del jihad. Dei sentimenti antimperialisti, sogni missionari, lotte etniche e di classe e ossessioni puritane egli fa un micidiale cocktail. Il messaggio di Naji è durissimo: la civiltà occidentale è destinata a cadere. Il suo ultimo bastione, l’America, manca della volontà di combattere una lunga guerra. L'”infedele” ama la vita e la tratta come una festa continua. I jihadisti devono rovinare questa festa e convincere l'”infedele” ad abbandonare questo mondo in cambio di migliori ricompense nell’altro.
New York Post Traduzione di Ovidio Damian
(A.C. Valdera)