Secolarizzazione indigesta / 1. Dalla vicenda delle riforme ottomane del XIX secolo emerge tutta la difficoltà di rifondare lo Stato su basi non religiose, e quindi di introdurre l’effettiva parità tra cristiani e musulmani. Una sfida che, nelle circostanze attuali, è aperta più che mai.
di Mark L. Movsesian
Spesso, nel Medio Oriente odierno, l’uguaglianza formale esiste. Eppure restrizioni giuridiche – accuse di apostasia, limitazioni per il clero e le chiese, e così via – continuano a rappresentare una minaccia reale per i cristiani. Inoltre, come osserva Abdullahi An-Na’im, «persiste una certa tensione intorno alla nozione tradizionale di dhimma e ai valori che la sottendono» (1).
La questione allora è se i cristiani del Medio Oriente possano mediare la tensione tra l’uguaglianza che la secolarizzazione implica e la disuguaglianza che la tradizione esige.
Un gigantesco sforzo riformatore
Vorrei affrontare la questione rifacendomi a un episodio del passato, le tanzìmàt del XIX secolo. Le tanzìmàt – la parola in turco significa “riorganizzazione” – sono state un programma di riforme di ampio respiro che l’Impero ottomano attuò tra gli anni ’30 e gli anni ’70 del XIX secolo. Il programma mirava a modernizzare l’Impero per renderlo più “razionale” e “occidentale”. Esso comportò cambiamenti al sistema giuridico ottomano, tra cui un nuovo codice commerciale e penale modellato su esempi europei e nuovi tribunali secolari.
È significativo che le tanzìmàt abbiano accordato per la prima volta l’uguaglianza giuridica ai cristiani dell’Impero. Le restrizioni per i dhimmì furono abolite e la conversione dall’Islam fu depenalizzata. Una legge anti-discriminazione proibiva «qualunque distinzione o qualificazione tendente a rendere una classe […] inferiore a un’altra per motivi di religione, di lingua o di razza» (2). Come ha osservato un ottomanista, «persine affibbiare epiteti ingiuriosi era proibito in nome della parità» (3).
Molti cristiani accolsero con favore le tanzìmàt. Tuttavia la situazione prese rapidamente una piega negativa per loro. L’opinione dei musulmani conservatori vedeva nelle tanzìmàt un tradimento a favore dell’Europa e un’umiliazione per la cultura islamica. La concessione dell’uguaglianza ai cristiani era particolarmente offensiva, sia perché i cristiani erano il gruppo più facilmente identificabile con gli interessi europei, sia perché l’eguaglianza dei cristiani sconvolgeva norme secolari riguardanti il loro statuto inferiore.
Alla fine dei conti, le tanzìmàt non furono mai pienamente attuate. Di fatto esse provocarono una violenta reazione che fu un fattore importante nei massacri dei cristiani degli anni ’90 del XIX secolo e, alla fine, nel genocidio degli armeni e di altri cristiani durante la prima guerra mondiale.
Quali implicazioni ha questo triste episodio per la secolarizzazione e per i cristiani del Medio Oriente odierno? Non è del tutto chiaro. Nelle società islamiche contemporanee l’uguaglianza per i cristiani potrebbe non sollevare tutte le questioni che essa sollevò nel contesto ottomano. Sono passati 150 anni. Tuttavia alcuni di quegli stessi elementi persistono.
Molti musulmani del Medio Oriente continuano a considerare la secolarizzazione un concetto estraneo alla loro tradizione e a credere che le denunce contro il trattamento ineguale dei cristiani siano un pretesto per l’ingerenza occidentale. Le norme relative alla disuguaglianza dei cristiani restano forti. Le tanzìmàt e la reazione anti-cristiana che ne seguì quantomeno suggeriscono che la secolarizzazione in Medio Oriente è una questione molto delicata, che comporta rischi reali per le comunità cristiane.
Naturalmente, non intendo dire che la religione è stata l’unico fattore nei massacri dei cristiani nel periodo ottomano o che essa sia l’unico fattore implicato nell’attuale persecuzione dei cristiani del Medio Oriente. Indubbiamente i fattori politici, economici e sociali hanno avuto e continuano a avere un ruolo. Né intendo “essenzializzare” l’Islam o il Cristianesimo, i quali hanno entrambi molteplici espressioni. Sostengo solamente che la religione è stato un fattore importante nella reazione contro i cristiani ottomani nel XIX secolo e che la religione continua a svolgere un ruolo importante nel conflitto comunitario nel Medio Oriente di oggi.
Prima delle tanzìmàt lo Stato ottomano generalmente si conformava al modello classico di governo islamico, vecchio di diversi secoli. Benché non fosse una teocrazia nel senso che non era il clero a governare, lo Stato aveva comunque un fondamento religioso ed era organizzato su basi confessionali. Nel pensiero classico la umma musulmana era un’entità sia spirituale sia politica, era il corpo dei credenti che viveva, ma anche governava, secondo la legge islamica.
La legge islamica classica, o fiqh, consisteva in principi che gli studiosi di legge religiosa, gli ‘ulama avevano derivato durante i primi secoli dell’Islam, in un processo noto come ijtihàd da due fonti, il Corano e la Sunna, note nel loro complesso come sharì’a. L’ambito fiqh era onnicomprensivo, disciplinava sia il culto sia gli atti civili come i contratti, gli illeciti, il matrimonio e l’eredità. Nel tempo, si svilupparono varie scuole di fiqh o madhabi tra le quali gli ottomani favorirono la scuola hanafita.
Come guida suprema della umma, al califfo spettava la responsabilità ultima dell’applicazione del fiqh. Egli lo faceva principalmente garantendo nei tribunali di fiqh la presenza di giudici noti come qàdì, che sceglieva tra gli ‘ulama’ (anche se tutti i qàdì I erano ‘ulama’, non tutti gli ‘ulama’ diventa- I vano qàdi; molti ‘ulama’, noti come muftì, rimanevano fuori dall’apparato statale ufficiale).
L’Islam classico consentiva inoltre ali califfo di adottare regole di politica sharaitica (siyàsa shart’iyya), per disciplinare fattispecie che il fiqh non contemplava espressamente e di istituire tribunali che amministrassero queste norme. I sultani ottomani, rivendicando nel XVI secolo la carica di califfo, modificarono parzialmente il sistema, per esempio redigendo ampie raccolte di regolamenti relativi alla siyàsa chiamati qànùn e fondendo quelli che fino ad allora erano stati i tribunali separati di fiqh e di siyàsa in un sistema giudiziario unificato gestito dai qàdì.
Gli studiosi hanno scritto volumi e volumi sulla legge islamica classica e sul governo, ma un aspetto è importante per il nostro tema: il posto riservato ai cristiani nella società islamica. Come “Gente del Libro” (ahi al-kitàb) i cristiani potevano avere residenza stabile nella società. Potevano stipulare un contratto fittizio con la umma – il contratto era noto come dhimma e i cristiani che ne erano parte erano chiamati dhimmì – per cui la umma concedeva ai cristiani protezione e una certa autonomia comunitaria.
Ad esempio, ai cristiani era consentito adire propri tribunali per certe controversie intra-comunitarie. In cambio i cristiani erano tenuti a pagare un pesante testatico, lajizya, e ad accettare la subordinazione sociale. In epoca ottomana i dhimmì furono ulteriormente classificati secondo le nazioni di appartenenza, o millet: il millet apostolico armeno, il millet greco-ortodosso, ecc… In questa sede non menzionerò tutte le restrizioni dei dhimmì. Il punto chiave è che esse erano destinate a far valere l’inferiorità sociale e giuridica dei cristiani.
Il governo non ha sempre applicato tutte le norme (anche se ha sempre riscosso lajizya). I dhimmì e i musulmani potevano convivere in pace per lunghi periodi e il singolo dhimmì poteva scalare la società ottomana e raggiungere anche alte cariche. Ma è sempre esistito un senso di inferiorità e di insicurezza – questi erano, in realtà, gli elementi centrali del compromesso – e i dhimmì potevano andare incontro a una repressione brutale, soprattutto se esibivano atteggiamenti di uguaglianza.
L’ostentazione evidente della ricchezza, per esempio, poteva essere percepita come un insulto ai musulmani e condurre alla violenza. Anche il sospetto che i dhimmì cooperassero con gli stranieri poteva dar luogo alla persecuzione, in particolare nei «periodi in cui l’Islam è stato rigido e militante» e ha cercato di restaurare una versione “autentica” della fede (4).
Le tanzìmàt hanno cambiato radicalmente la posizione dei dhimmì, almeno in teoria. In parte il programma nasceva da un desiderio di riforma da parte di alcuni leader ottomani – i cosiddetti tanzimàtgi – che vedevano la necessità di grandi cambiamenti amministrativi, economici e sociali per la sopravvivenza dell’Impero. In parte, essa era l’esito della pressione europea.
In realtà, al tempo molti pensarono che le riforme fossero semplicemente una finzione messa in atto per confondere i diplomatici occidentali. Gli europei stessi avevano varie motivazioni: desideravano alleviare la dura situazione dei dhimmì e al tempo stesso individuare clientele utili a veicolare la loro influenza nell’Impero.
Molte riforme riguardavano il sistema giuridico. Il governo adottò un nuovo codice commerciale e penale, basati su modelli europei, e istituì nuovi tribunali laici. Inizialmente consistevano in tribunali misti che esaminavano le controversie di natura commerciale tra ottomani e commercianti stranieri, ma alla fine il governo istituì una serie di tribunali nizàmiyye per «le cause civili e penali che coinvolgevano musulmani e non musulmani» (5).
Il governo adottò la famosa Mecelle, che codificava in diritto positivo aspetti del fiqh commerciale hanafita. È importante sottolineare che i cristiani ottennero l’uguaglianza giuridica e per la prima volta furono ammessi a testimoniare contro i musulmani. L’uguaglianza si estendeva anche all’istruzione, alle funzioni pubbliche, al fisco e al servizio militare. Le conversioni dall’Islam al Cristianesimo non erano più un crimine capitale.
UN MONDO SOTTOSOPRA
Molti cristiani accolsero con favore queste riforme (non sempre, si noti, le gerarchie ecclesiastiche, le quali avevano capito che la sostituzione del sistema del millet avrebbe diminuito la loro autorità). Per i cristiani armeni in particolare le tanzìmàt coincisero con lo Zartonk, o Rinascimento, della metà del XIX secolo.
Lo Zartonk fu promosso da armeni educati in Europa che erano tornati nella Turchia ottomana ansiosi di applicare le idee liberali che avevano conosciuto all’estero, tra cui la laicità. Per la prima volta, per dirlo con un’espressione di Ronald Suny, emerse tra gli armeni «un’intellighentia laica» urbana e, un gruppo di insegnanti e scrittori che si autodefiniva, se non in opposizione con la Chiesa, quantomeno come distinto da essa. Questo gruppo naturalmente accolse con favore la fine dell’identità confessionale e il declino del sistema dei millet.
Eppure, nonostante le grandi speranze, le tanzìmàt fallirono nella loro applicazione. In particolare in Anatolia i cristiani rimasero vittime di discriminazioni e umiliazioni che il governo fece ben poco per contrastare. Le diseguaglianze sociali si perpetuarono. I cristiani continuavano a non poter suonare le campane delle chiese e non potevano diventare ufficiali nell’esercito; i tribunali ottomani continuavano a rifiutare di ascoltare testimoni cristiani; la conversione dall’Islam continuava a provocare la “collera pubblica” (7).
Alla fine degli anni ’70 del XIX secolo la spinta delle tanzimàt si era esaurita. Nel 1878 il nuovo sultano, Abdul Hamid II, sospese la Costituzione ottomana e sciolse le Camere, governando come monarca assoluto per i successivi 30 anni, fino a quando la rivoluzione dei Giovani Turchi lo depose. Sotto Abdul Hamid si manifestò una reazione anti-occidentale e anti-laica.
Di fronte al caos politico, economico e militare, il califfo promosse il pan-islamismo come ideologia di Stato; una «religiosità esteriore» scrive Niyazi Berkes, fu la «caratteristica più evidente» del suo regno (8). In Turchia il processo di secolarizzazione non riprese fino a dopo la prima guerra mondiale, quando, come vedremo, di cristiani ne erano rimasti pochi.
Gli studiosi offrono diverse spiegazioni per il fallimento delle tanzimàt, ma una ragione importante fu la concessione dell’uguaglianza ai cristiani. L’uguaglianza sovvertì norme sociali profonde. «In quale paese del mondo – osservò uno dei tanzìmàtgi – si è mai pensato di poter cancellare in un giorno gli effetti delle abitudini e delle tradizioni vecchie di secoli con una semplice modifica della legge o dei decreti del governo?» (9)
La violazione di intese secolari, unita al fatto che i cristiani avevano cercato l’appoggio degli europei, turbò profondamente l’opinione dei musulmani. Un esempio sarà sufficiente. Ricordiamo che una parte della legislazione delle tanzimàt vietava di diffamare i cristiani a causa della loro religione. Un detto molto popolare usava una parola turca per “infedeli” – una parola «con una sfumatura emotiva e poco lusinghiera» (10) – per descrivere il mondo sottosopra che questa nuova legislazione aveva creato. «Ora – diceva il detto – non possiamo più chiamare gàvur un gàvur»! (11)
In breve, l’uguaglianza dei cristiani ebbe gravi ripercussioni religiose. Si ricordi che, storicamente, i tentativi dei dhimmì di elevare il loro status sociale e cooperare con gli stranieri causavano rappresaglie violente. Anche le tanzimàt non si sottrassero a questo schema abituale. Delusi dal fallimento delle tanzimàt nel migliorare la loro situazione, alcuni cristiani armeni di Anatolia smisero di pagare le consuete tasse ai bey curdi e iniziarono a organizzare un’autodifesa.
In risposta, Abdul Hamid ordinò massacri su larga scala, perpetrati da militari turchi e da volontari curdi nei quali, tra il 1894 e il 1896, persero la vita dai 100 a 200 mila armeni. Anche altri cristiani soffrirono molto; per esempio, circa 25 mila cristiani siriaci persero la vita, vittime della violenza generale anti-cristiana che pervadeva la regione.
Non posso discutere nel dettaglio i massacri di Abdul Hamid, ma vorrei fare due osservazioni. Primo, come molti osservatori hanno notato, i massacri avevano un’inequivocabile componente religiosa. Anche se gli osservatori esterni lo descrissero come un fanatico, Eric Zùrcher scrive che «l’appello all’Islam di Abdul Hamid aveva toccato una corda sensibile dei musulmani […] che si sentivano minacciati dall’imperialismo europeo e dalla posizione privilegiata dei cristiani» (12).
Secondo, il fallimento delle tanzimàt ebbe delle conseguenze sulle aspirazioni cristiane e, in particolare, armene. Dopo i massacri di Abdul Hamid divenne chiaro che lo Stato ottomano non era disposto a concedere ai cristiani una reale uguaglianza. Un piccolo numero di armeni cominciò a organizzarsi in cellule rivoluzionarie.
Ciò provocò una repressione brutale da parte del governo, la quale causò una maggiore resistenza e produsse un numero maggiore di vittime, finché, durante la prima guerra mondiale, il governo dei Giovani Turchi decise, secondo le parole di Suny, di «disarmare, sradicare, deportare ed eliminare gli armeni dell’Anatolia orientale. Questa politica equivaleva […] a un genocidio e almeno 600.000-1.500.000 di armeni perirono nelle marce della morte, nelle esecuzioni e nelle battaglie che ebbero luogo nel 1915» (13)
AMBIGUITÀ IRRISOLTE
Tutto questo è avvenuto molto tempo fa e molte cose sono cambiate. Con alcune eccezioni, il fiqh non opera più come legge di Stato nel Medio Oriente attuale; è il diritto civile a disciplinare la maggior parte delle questioni. In tutta la regione, l’uguaglianza è sancita dalla legge fondamentale. Si presume che la grande maggioranza dei musulmani si senta a proprio agio con questo stato di cose, anzi anche gli islamisti contemporanei argomentano spesso in termini di “uguaglianza”.
L’episodio che ho descritto può essere considerato semplicemente come un triste evento di altri tempi, interessante solo per gli storici. Oggi probabilmente la secolarizzazione non avrebbe sulle comunità cristiane quel terribile impatto che essa ebbe 150 anni fa.
Eppure persistono gravi pericoli. Nonostante l’uguaglianza formale, continuano a sussistere restrizioni giuridiche a danno dei cristiani. Spesso, per fare un esempio, la conversione al Cristianesimo è ancora un reato. Inoltre i cristiani mediorientali sovente subiscono discriminazioni e anche persecuzioni. Per citare solo un esempio recente, nel maggio 2011, folle apparentemente istigate dagli islamisti radicali hanno incendiato una chiesa copta al Cairo e 12 persone hanno perso la vita.
Secondo Hossam Bahgat, direttore di un gruppo egiziano per i diritti umani, attacchi come questi cercano di «dare una lezione ai cristiani». Bahgat spiega che molti musulmani credono che i cristiani «fossero troppo potenti sotto il vecchio regime»; attacchi come quello del maggio scorso intendono «dimostrare ai cristiani che essi hanno bisogno della protezione dei musulmani, che l’Occidente non ha intenzione di proteggerli e che essi non hanno più nessuno dei privilegi che gli estremisti credono i copti avessero sotto Mubarak» (14).
Queste accuse riecheggiano chiaramente le denunce contro i cristiani – sono agenti occidentali, sono diventati troppo importanti, devono ricercare la protezione dei musulmani – che hanno segnato la reazione religiosa al tempo delle tanzìmàt.
A quanto pare molti in Medio Oriente continuano a vedere i cristiani come stranieri, elementi “occidentali”, anche se il Cristianesimo è originario della regione e i cristiani sono parte di queste società da millenni. L’impegno retorico a favore dell’uguaglianza può oscurare le tensioni di fondo.
Come spiega Ann Mayer, un islamista può credere nell’uguaglianza” in astratto, ma definirla in modo da escludere i non musulmani. L’uguaglianza richiede di trattare gli altri come si vorrebbe essere trattati, ma per colui che considera la distinzione tra musulmani e non musulmani “naturale ed essenziale”, trattare i musulmani e i cristiani in modo diverso non violerebbe il principio dell’uguaglianza (15).
Questo spiega come alcuni islamisti possono affermare contemporaneamente l’uguaglianza e un ritorno alle restrizioni dhimmì. Anche se si scarta la posizione islamista come estrema, resta il fatto che le maggioranze in tutto il Medio Oriente vivono un certo disagio nei confronti della laicità “occidentale” e sono a favore della shari’a come fonte della legge. In molti paesi, tra cui l’Egitto stesso, la maggioranza vuole che la sharì’a sia l’unica fonte della legge (16).
Naturalmente le persone che sostengono di accordare la loro preferenza alla sharì’a possono intendere cose diverse. Forse, come sostiene Noah Feldman, il sostegno maggioritario alla sharì’a connota l’impegno per una società governata da uno stato di diritto più o meno democratico ispirato ai principi religiosi (17).
Forse si intende un genere àifiqh riformato e progressista sostenuto dai modernizzatoli che auspicano una nuova era dell’ijtihàd. In Egitto, ad esempio, la Corte Costituzionale Suprema, che ha l’autorità di stabilire se le leggi sono conformi ai principi della sharì’a, ha finora adottato un approccio flessibile e «ha avanzato un’interpretazione moderata e non fondamentalista» della legge islamica (18). I cristiani non devono necessariamente temere una di queste versioni della sharì’a. Tuttavia, se per sharì’a queste maggioranze intendono qualcosa di simile al fiqh classico, per i cristiani non vi può essere nessuna uguaglianza e neppure una sicurezza reale.
In breve, la storia delle tanzìmàt e del loro fallimento può effettivamente rappresentare una lezione per l’oggi. Riforme benefiche possono avere conseguenze disastrose per comunità vulnerabili. Ancora non è ben chiaro che cosa intende esattamente la maggioranza musulmana quando manifesta il suo sostegno alla sharì’a e il suo disagio verso la laicità, e quanto i musulmani siano esattamente disposti a estendere la parità di trattamento ai loro vicini non musulmani. Molte tensioni restano ancora da risolvere. Fino ad allora, la secolarizzazione per i cristiani locali resta una questione molto delicata.
[Parti di questo articolo sono tratte da Mark L. Movsesian, Elusive Equality, «U. St. Thomas Journal of Law and Public Policy» 1 (2010), p. 1.]
Note
1) Abdullahi Ahmed An-Na’im, Islam and the Secular State, Harvard University Press, Cambridge (Mass.)-London 2008,134.
2) Roderic H. Davison, Turkish Attitudes Concerning Christian-Muslim Equality in the Nineteenth Century, «American Historical Review», 59 (1954), 844, 847.
3) Ibid.
4) Benjamin Braude, Bernard lewis (a cura di) Christians and Jews in the Ottoman Empire: the Functioning of a Plural Society, I, Homes & Meier, New York 1982, 1, 8.
5) Donald Quataert, The Ottoman Empire 1700-1922, Cambridge University Press, New York 2005, 178.
6) Ronald Grigor Suny, Armenia in the Twentieth century, Scholars Press, Chico 1983, 9.
7) Roderic H. Davison, Turkish Attitudes Concerning Christian-Muslim Equality in the Ninteenth Century, p. 860.
8) Nyazi Berkes. The Development of Secularism in Turkey, McGill University Press, Montreal 1964, 259.
9) Vahakn Dadrian, The History of the Armenian Genocide, Berghahn Books, Oxford 1997, 33.
10) Roderic H. Davison, Turkish Attitudes Concerning Christian-Muslim Equality in the Ninteenth Century, p. 844-877.
11) Ibi. 859
12) Erik Zurcher, Turkey: A Modern History, St Martin’s Press, New York 1993, 83.
13) Ronald Grigor Suny, Armenia in the Twentieth Century, 17.
14) Matt Bradley, Egypt Clashes Turn Spotlight on Radicals, «Wall Street Journal», 9 maggio 2011, disponibile su: http://online.wsj.com/article/SB10001424052748704681904576311282620420522.html?mod=WSJ_hp_%20MIDDLENextto%20WhatsNewsThird
15) Ann Elizabeth Mayer, Islam and Human Rights, Westview Press, Boulder 2007,100.
16) John Esposito & Dalia Mogahed, Who Speaks for Islam?, Gallup Press, New York, 48
17) Joah Feldman, The Fall and Rise of the Islamic State, Princeton University Press, New Jersey 2008,11-12.
18) Ran Hirschl, Constitutional Courts vs. Religious Fundamentalism: Three Middle Eastern Tales, «Texas Law Review» 82 (2004), 1819,1831. Resta da vedere se questo approccio sopravviverà alla rivoluzione del 2011.
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MarkL. Movsesian è Frederick A. Whitney Professor of Contract Law e Direttore del Center for law and Religion alla Saint John’s University. Si occupa di diritto «religione, di contratti e diritto internazionale. I suoi principali articoli sono apparsi sull’Harvard North Carolina, Washinghton & Lee Law Reviews, sull’American Journal of International, sull’Harvard International Law Journal e sul Virginia Journal of International Law