Testo, rielaborato e annotato, della relazione con lo stesso titolo presentata al convegno Dalla “cristianità perduta” alla “nuova evangelizzazione”. Origini e problemi della presenza dei cattolici nella storia politica italiana, promosso da Cristianità e da Alleanza Cattolica, in collaborazione con la Regione Lombardia. Settore Trasparenza e Cultura, e svoltosi a Milano il 6-11-1999 (cfr. Giuseppe Bonvegna, Dalla “cristianità perduta” alla “nuova evangelizzazione”. Origini e problemi della presenza dei cattolici nella storia politica italiana, in Cristianità, anno XXVII, n. 295-296, novembre-dicembre 1999, pp. 14-17).
di Piero Mainardi
Ripercorrendo la storia del pensiero cattolico italiano non si può non rimanere stupiti dal fatto che, in un arco di tempo piuttosto breve, la questione di una cristianità, cioè di una società che cerchi d’incarnare i princìpi del diritto naturale e lo spirito del Vangelo, finisca per essere così repentinamente e profondamente rimossa dall’orizzonte mentale dei cattolici.
Questo fatto desta meraviglia perché vi sono alle spalle quindici secoli di cristianità durante i quali, benché con contraddizioni e con errori, il cattolicesimo aveva costituito il principale elemento di coesione sociale e spirituale della società italiana e il fondamento ultimo su cui le autorità civili esercitavano il potere politico.
Desta meraviglia perché il magistero pontificio riconosce il carattere cristiano di quei secoli, indicando particolarmente nella cristianità medievale un esempio, per quanto non esclusivo, e al tempo stesso individuando una catena di errori filosofici e politici che hanno determinato la nascita della società moderna che, con i suoi aspetti secolarizzanti, laicisti, atei, agnostici e relativistici, viene avvertita come una categoria ideale contrapposta a quella di cristianità.
2. Il magistero pontificio
Venuta meno la cristianità romano-germanica, il magistero pontificio indica al laicato cristiano, abituato non a pensare la cristianità ma a vivervi, i riferimenti dottrinali e culturali idonei per una ricostruzione della società cristiana: la corposa produzione di documenti di magistero da parte di Papa Leone XIII (1878-1903) non potrebbe essere compresa se non entro un disegno unitario, che è proprio quello della ricostruzione della società cristiana; la condanna di ogni forma di presenza cristiana nella società ispirata a criteri utopistici, e verso ogni forma di collaborazione o confusione con idee ambigue e pericolose, conduceva Papa san Pio X (1903-1914) a riaffermare chiaramente, nella lettera Notre charge apostolique, che i cattolici non avevano da inventare o da costruire una nuova società, ma da restaurare e da instaurare, su fondamenti naturali e divini, quella società cristiana che storicamente esiste ed è esistita, limitandosi a ricostruire quanto la Rivoluzione ha distrutto e riadattandolo “[…] al nuovo ambiente creato dall’evoluzione materiale della società contemporanea” (1); la proclamazione della regalità sociale di Cristo da parte di Papa Pio XI (1922-1939), nell’enciclica Quas primas, del 1925, implicava il rifiuto della laicità dello Stato, quando intesa in senso rivoluzionario, cioè d’indifferenza o di ostilità rispetto alla religione, ed evidenziava l’elemento teologico centrale — il Cristo Re in quanto Creatore e Redentore di tutte le cose —, da cui partire per ricostruire una cristianità.
Proprio durante il pontificato di Papa Pio XI, in taluni ambienti cattolici, e segnatamente in quelli dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, si pensa che l’Italia sia veramente vicina alla ricostruzione di una cristianità. In questi ambienti, e specialmente da parte del padre francescano Agostino Gemelli (1878-1959), viene maturando la convinzione che il fascismo possa essere uno strumento inconsapevole della restaurazione della cristianità, che avrebbe sconfitto i nemici della Chiesa e che, non avendo una prospettiva ideologica propria, avrebbe esaurito la sua funzione riconsegnandosi e riconsegnando l’Italia al cattolicesimo.
Vari elementi del regime inducevano padre Gemelli a pensare in questi termini: al fascismo si doveva la riconciliazione fra Chiesa e Stato italiano del 1929, la costruzione di un ordine sociale corporativo e la sottolineatura del ruolo storico del cattolicesimo come elemento qualificante e permanente dell’identità nazionale, e infine la partecipazione alla guerra di Spagna (1936-1939), considerata dalla Chiesa come una difesa della religione minacciata.
Ma l’alleanza con il nazionalsocialismo e la politica razziale, la guerra e la caduta del fascismo avrebbero dissolto questa illusione, provocando importanti ripercussioni in tali ambienti, soprattutto in relazione alla questione della cristianità (2).
3. La ricostruzione di una società cristiana nel magistero di Papa Pio XII
Le circostanze storiche della guerra e la ricostruzione post-bellica delle società e degli Stati costituiscono l’occasione per il magistero di Papa Pio XII (1939-1958) di affrontare in modo diretto il problema della ricostruzione di una cristianità, in un quadro istituzionale e culturale democratico.
Il Pontefice interpretava gli eventi bellici come l’effetto di errori remoti, legati a “l’apostasia dal Verbo divino” (3) e al tentativo di “[…] staccare e sottrarre la città terrena dalla luce e dalla forza della città di Dio” (4), da cui sono scaturite concezioni naturalistiche e laiciste, degenerate ulteriormente in forme rinnovate di paganesimo, di ateismo pratico e ideologico. Queste forme avevano lasciato un vuoto morale e spirituale nelle persone e al tempo stesso alterato la funzione dello Stato che, negata la dipendenza del diritto positivo dal diritto divino, tendeva a farsi fine ultimo della vita e a divenire “criterio sommo dell’ordine morale e giuridico” (5).
Dunque, per Papa Pio XII il conflitto rappresentava in ultima analisi il culmine di una vicenda storica di apostasia, e costituiva un’aperta apologia del cristianesimo e una condanna di tutta quella catena di errori storici, filosofici e religiosi, che aveva determinato la situazione presente.
Pertanto, la restaurazione di una società e di uno Stato cristiani s’imponeva come una necessità primaria e diventava per il Pontefice una sorta di programma di ricostruzione spirituale, morale e politica, che il laicato cattolico avrebbe dovuto realizzare. Nel disegno di Papa Pio XII tutte le realtà della vita umana, dalle più grandi alle più piccole, dallo Stato alla famiglia, dalla cultura allo sport, ai diversi ambiti professionali, potevano e dovevano essere ricondotte a una concezione cristiana.
Augusto Del Noce (1910-1989) ricordava come, negli anni dell’immediato dopoguerra, fosse assai diffusa nel mondo cattolico la convinzione che “[…] da una rinnovata Cristianità ci si potesse attendere l’unica via di salvezza e [che] questo rinnovamento fosse possibile” (6) e potesse partire dall’Italia. Tale convinzione costituisce uno degli elementi più importanti che caratterizzano la partecipazione del mondo cattolico al sostegno elettorale della Democrazia Cristiana, consentendole la storica affermazione del 1948; anche la mobilitazione anticomunista è vissuta come una battaglia in difesa della civiltà cristiana.
Ma le cose, nonostante lo straordinario successo elettorale della DC, vanno — com’è noto — diversamente rispetto ai desideri del Pontefice.
4. La posizione di Jacques Maritain
Infatti, il disegno di Papa Pio XII presupponeva che tutte le componenti cattoliche della società italiana si muovessero omogeneamente nella direzione da lui indicata; questo fatto non si verifica a causa della indisponibilità alla realizzazione del progetto da parte di consistenti segmenti del mondo cattolico.
La classe dirigente della DC era composta per lo più da vecchi seguaci del Partito Popolare Italiano, culturalmente poco sensibili al tema della cristianità, cui si va ad aggiungere la nuova componente guidata da Giuseppe Dossetti (1913-1996) — molti dei cui membri provenivano proprio dall’Università Cattolica del Sacro Cuore —, che aveva trovato nel pensiero del filosofo francese Jacques Maritain (1882-1972) (7) e nel suo progetto di “nuova cristianità” un riferimento culturale alternativo rispetto all’idea di cristianità e al tipo di presenza e di azione politica prospettate dal Pontefice; le idee di Maritain, o meglio la sua interpretazione in Italia, fanno breccia anche in molti membri del Movimento dei Laureati di Azione Cattolica, e in non pochi quadri della stessa Azione Cattolica e della Federazione Universitari Cattolici Italiani.
Il pensiero maritainiano ha una diffusione così ampia da assumere una posizione nodale negli sviluppi del pensiero cattolico sulla questione della cristianità, per cui è opportuno soffermarsi a delineare le occasioni che hanno determinato lo svolgersi della riflessione politica di Maritain e certe linee fondamentali del suo pensiero, soprattutto in relazione a quanto di esso è stato utilizzato. Occorre anche segnalare la complessità e la problematicità di molti punti del pensiero maritainiano.
La conversione al cattolicesimo significa per Maritain anche una convinta adesione al tomismo — cui rimarrà legato per tutta la vita, pur in una personale rielaborazione — e lo schierarsi su posizioni vicine all’Action Française, cioè al movimento che organizza in Francia, sul piano politico, la destra tradizionalista e monarchica.
Sia il tomismo, sia l’Action Française apparivano a Maritain strumenti idonei per ridare ordine al piano intellettuale e al piano politico, devastati dagli errori del pensiero moderno, che gli appariva radicalmente inconciliabile con il cristianesimo e responsabile della dissoluzione della cristianità medioevale. Queste posizioni di “destra” culturale e politica attestano emblematicamente due opere: Antimoderne, del 1922, Trois réformateurs, del 1925 (8).
L’improvvisa condanna da parte di Papa Pio XI, nel 1926, dell’Action Française (9) induce Maritain, che pure inizialmente non riesce a comprendere i motivi di tale condanna, a rivedere gradualmente la sua posizione. Intanto la condanna dell’Action Française — che logicamente non era in relazione alla questione della cristianità — metteva in scacco proprio quei cattolici francesi che più desideravano la ricostruzione di una Francia cristiana, rifacendosi idealmente alla Francia medievale del capetingio san Luigi IX (1214-1270) e di santa Giovanna d’Arco (1412-1431), in un contesto storico, quello della Francia degli anni 1930, nel quale i cattolici si trovavano schiacciati fra l’ascesa dei movimenti filo-fascisti e la minaccia socialcomunista.
In questo contesto matura la proposta maritainiana della “nuova cristianità”, che muove dal desiderio di far uscire i cattolici da questa situazione d’impasse, seguendo una propria via d’uscita, determinata da un riesame delle prospettive della presenza cattolica nella società, implicante anche una revisione delle categorie interpretative del percorso storico e culturale che aveva generato le presenti condizioni.
La riaffermazione della possibilità di una cristianità, seppur “nuova”, implicava una condizione: quella di desolidarizzare il cattolicesimo dalla destra politica, evitando qualsiasi elemento che potesse equivocamente portarlo ad avvicinarsi a quest’area. Il riferimento alla cristianità medievale rappresentava per Maritain proprio l’equivoco maggiore, che imbrigliava il cattolicesimo nelle maglie delle destre, per cui la liquidazione di tale modello di riferimento si rendeva necessaria, non perché il modello venisse considerato in sé negativo, ma perché strumentalizzabile in quanto irrealizzabile, essendo legato a un ciclo storico esaurito.
In questa nuova prospettiva, esposta dettagliatamente in Humanisme intégral, del 1935, la polemica contro la modernità diviene sempre più sfumata, specialmente negli aspetti politici e sociali; si parla di ambivalenza della storia, ossia di elementi positivi e di elementi negativi presenti in tutte le epoche, si sostiene che la storia “[…] si scrive sotto la volontà e la permissione di Dio” (10) e che le sofferenze dell’uomo moderno non possono essere senza significato: tutti elementi che tendono a paralizzare il discernimento del cattolico sul valore della società moderna rispetto alla concezione cristiana.
Parallelamente si sviluppa un’operazione fondata sul ricupero di alcuni aspetti considerati positivi della modernità. Il principale è senz’altro l’umanesimo, ossia, la centralità assunta dal soggetto nel pensiero della modernità, contrapposto a una visione teologica medievale della natura umana giudicata da Maritain troppo pessimista. Si tratta di un umanesimo certamente sbagliato, perché antropocentrico e separato dall’incarnazione, ma che Maritain ritiene di poter ricuperare e trasformare in un “umanesimo integrale”, ossia aperto ai valori della trascendenza cristiana.
Se la cristianità medievale aveva fondato la sua unità su Dio, la “nuova cristianità” troverebbe almeno un’unità minimale sul valore della persona: perciò si passa da un regime di cristianità sacrale a uno di cristianità profana, la quale — spiega Maritain — si specifica come un’opera pratica comune da realizzare in spirito di amicizia fraterna fra i componenti delle varie famiglie spirituali presenti nella società.
Ma in Humanisme intégral la “nuova cristianità” mantiene ancora alcuni caratteri che la specificano in senso cattolico. Maritain pensa a una città cristianamente vivificata da un’animazione riservata ai cosiddetti cives praeclares, la parte culturalmente e spiritualmente migliore del laicato cristiano. Una città che fosse guidata da questi elementi, pensa Maritain, si troverebbe effettivamente “sotto il regime di Cristo” (11); e tale evento si sarebbe potuto verificare solo se accompagnato da mutamenti spirituali molto profondi; in tal caso, questo nuovo regime di vita sociale avrebbe costituito “una rifrazione reale del Vangelo nell’ordine culturale e temporale” (12).
Tuttavia, questa immagine della “nuova cristianità” subisce presto un forte slittamento in senso secolaristico, tanto che si può parlare di passaggio, nel pensiero maritainiano, da un progetto di “nuova cristianità” a uno di “città secolare” (13).
Negli anni della guerra, Maritain polemizza maggiormente con il fascismo e questo porta, soprattutto nel pamphlet Christianisme et démocratie, del 1943 (14), a importanti sviluppi del suo pensiero politico, il quale ormai configurava la democrazia come l’unica concezione politica conciliabile con il cristianesimo, fino a spingersi ad affermarne l’essenza evangelica, nonché a cogliere nel suo manifestarsi storico un prodotto del fermento evangelico nelle coscienze profane. Il fatto che le sue manifestazioni storiche si siano accompagnate a concezioni erronee è del tutto accidentale e principalmente legato a un peccato di omissione nei suoi confronti da parte dei cattolici: in questo caso sarebbero stati gli erranti a servire la Verità.
Il problema della democrazia richiamava pressoché automaticamente anche il problema comunista: che il comunismo fosse un’ideologia legata a una filosofia profondamente sbagliata era indubbio, ma la generosità dei comunisti, la loro idealità di riscatto dei poveri, la loro lotta per la giustizia sociale, nonché il loro impegno nella guerra antifascista dava loro il diritto di partecipare alla costruzione della nuova società. Inoltre, Maritain riteneva che il marxismo avesse assolto a una missione storica, quella di attivare, pur deformandola, la presa di coscienza della dignità umana.
Ritorna qui come discriminante la categoria dell’umanesimo: per Maritain il socialismo e il comunismo sono forme di umanesimo, a differenza dei fascismi, e quindi reintegrabili in qualche modo nel cristianesimo. Il comunismo, in fondo, costituisce per Maritain l’ultima delle eresie cristiane; si tratta di una concezione che — come osserva Del Noce — lo rende in qualche modo accettabile perché si ritiene che l’eretico comunque “conservi qualcosa”, e quindi mantenga ancora un certo legame con la verità, senza però tener conto di quanto corrompa la verità stessa (15).
5. La ricezione di Maritain in Italia
Questa digressione sul pensiero maritainiano è data in ragione del fatto che la stessa parabola politica e culturale di Maritain è percorsa o condivisa dagli uomini che costituiscono la componente della sinistra democristiana legata a Dossetti, i quali considerano questo pensiero come un quadro generale di riferimento e, soprattutto — osserva lo storico Giorgio Campanini —, come un’immensa cava di idee, cui questo gruppo attingeva ogni qualvolta scorgeva una possibile applicazione nella situazione italiana delle indicazioni fornite da Maritain (16).
È infatti evidente la stessa preoccupazione politica dei dossettiani di sganciare il cattolicesimo dalla destra, preoccupazione legata anche al mancato riconoscimento, da parte del cattolicesimo italiano, delle responsabilità politiche e culturali che avrebbero determinato l’incontro fra Chiesa e fascismo e reso possibile il suo successo. Tale autocritica si poneva accanto al problema della democrazia, considerato come il problema della democratizzazione dei cattolici.
Dall’accettazione piena di una società democratica sarebbe scaturito il definitivo distacco del mondo cattolico dal modello tradizionale di cristianità che, secondo i dossettiani, induceva i cattolici ad arroccarsi su posizioni difensive e di chiusura, di confusione fra piano spirituale e piano temporale.
Analoga a quella di Maritain era la posizione di apertura verso il problema comunista, pensato in una logica di ricupero evangelico e democratico e quindi di collaborazione — da qui l’esaltazione della carta costituzionale —, possibile in virtù di quel carattere di eresia cristiana prima richiamato; vi era la stessa concezione ecclesiologica volta a disimpegnare sempre più la Chiesa dai suoi interventi nel temporale, considerati compromissori rispetto alla missione di evangelizzazione, e al tempo stesso la possibilità di un’autonoma azione politica dei cattolici, capace di sganciarsi dal riferimento al Magistero: da qui l’insofferenza per il ruolo dei Comitati Civici.
Tutti questi elementi traevano alimento dalla riflessione maritainiana. Il disegno dossettiano si nutre certamente del progetto di una nuova società cristiana, ma di una nuova società cristiana che non ha molto in comune con quella trascorsa e che, soprattutto, vuol essere profondamente diversa da quella presente, tutta volta alla preoccupazione di una purezza dei contenuti politici del messaggio evangelico e di una effettiva realizzazione della giustizia sociale, che niente o poco concedeva alle presenti strutture e forme socio-economiche.
Questo è un altro motivo che spiega l’enfasi posta nei confronti della Costituzione, come atto fondante di questa nuova società, ma anche tutte le ambiguità principalmente in relazione a temi quali la proprietà e il ruolo dello Stato, nei quali l’”idealismo” dossettiano era abilmente giocato dal Partito Comunista Italiano, che considerava in tal modo aperta la possibilità di sviluppi in senso socialistico di questi istituti.
La presa d’atto dell’impossibilità di condurre un’efficace azione politica in un simile contesto politico e religioso spinge Dossetti e i suoi a un’azione più in profondità nell’ambito delle strutture ecclesiali, politiche e culturali del cattolicesimo italiano, in un’articolazione di ruoli che talora sembra più il frutto di una strategia che delle circostanze: l’abbandono della DC e poi la scelta monastica di Dossetti, la carriera universitaria fino alla nomina a rettore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore per Giuseppe Lazzati (1909-1986) e la conquista della segreteria della DC da parte di Amintore Fanfani (1908-1999).
Si tratta di una divisione di ruoli che consente, soprattutto negli ambienti ecclesiali, una notevole penetrazione del pensiero dossettiano. Nonostante ciò, il progetto dossettiano di riforma della mentalità e della presenza politica cattolica nella società italiana non ferma il processo di secolarizzazione, che investe tutta la società.
Sul piano politico, lo stesso Fanfani e quelle correnti della DC — la Base e Iniziativa Democratica, che avevano ripreso e sviluppato l’eredità dossettiana al momento dell’abbandono della politica da parte di Dossetti, avviando un processo di autonomia del partito rispetto alla Gerarchia e al Magistero —, ne accentuano i connotati laici e ideologici, mentre sul piano ecclesiale ci si indirizza verso la cosiddetta “scelta religiosa”, che segna un allontanarsi da parte delle strutture ecclesiali, prima fra tutte l’Azione Cattolica, dall’impegno politico (17).
6. Il Concilio Ecumenico Vaticano II e il problema di una cristianità
Tutto questo costituiva il segnale che, davanti all’offensiva del pensiero laicista e di quello marxista contro il comune sentire religioso e morale della nazione, il mondo cattolico cominciava a dar segni evidenti di stanchezza e soprattutto di cedimento e di disunione.
Tuttavia, è l’evento conciliare a determinare, all’interno del mondo cattolico, una nuova periodizzazione rispetto al tema della cristianità. Infatti, alcune correnti interpretano i testi conciliari quasi costituiscano una rinuncia ufficiale alla costruzione di una società cristiana.
Il Concilio si svolge in un contesto storico contrastante, in cui al crescente benessere materiale faceva da contraltare la paura della guerra atomica, determinata dalla divisione del mondo in due blocchi; in questo quadro la caduta dei valori religiosi si faceva sempre più evidente: nel blocco sovietico la persecuzione religiosa era ancora molto forte e impediva l’evangelizzazione; nei paesi occidentali, a partire dalla fine degli anni 1950, prende rapidamente corpo il fenomeno di una secolarizzazione scristianizzante, espressa in Italia dal boom economico e dalla “dolce vita”.
Perciò la Chiesa era costretta a porsi non solamente il problema di come contrastare tale fenomeno, ma anche di come ricuperare al cattolicesimo questa parte di mondo che, fino a poco tempo prima, le era stato fedele.
Sono i problemi cui Papa Giovanni XXIII (1958-1963) tenta, attraverso il Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965), di dare una risposta adeguata ed efficace. Nel discorso di apertura del Concilio il Pontefice illustra in che modo la Chiesa avrebbe dovuto porsi davanti a questa nuova situazione storica.
Pur riaffermando la continuità con gli altri Concili e con il Magistero, il Pontefice dichiara che, questa volta, il Concilio avrebbe scelto la via del dialogo, della misericordia, dell’esposizione positiva della dottrina di sempre, in termini rinnovati e adeguati alle mutate esigenze, alle forme di vita, di pensiero e di linguaggio dell’uomo contemporaneo.
Il giudizio sulla modernità da parte di Papa Giovanni XXIII prendeva in grande considerazione quegli aspetti positivi della società moderna, che sembravano in un certo qual modo bilanciare i suoi aspetti negativi; riteneva inoltre possibile una forma di autoconfutazione da parte delle dottrine politiche e filosofiche, in virtù del loro evidente fallimento, e infine manifestava fiducia nella Provvidenza che, guidando la storia, avrebbe saputo trarre il bene dal male, trasformando una situazione negativa per la Chiesa in una positiva.
Il Pontefice pensava che, a conclusione del primo periodo, dai lavori conciliari sarebbe scaturita una “nuova Pentecoste” (18) che avrebbe consentito “un nuovo balzo in avanti del regno di Cristo nel mondo” (19).
I Padri conciliari seguono abbastanza scrupolosamente questo orientamento ma ciò non è sufficiente per considerare liquidato il problema di una cristianità, tanto più che lo stesso Papa Giovanni XXIII, già nel discorso di apertura, aveva ribadito che i termini della questione non erano cambiati, ossia si trattava di scegliere se stare con Cristo e la sua Chiesa oppure contro, scelta che avrebbe comportato precise conseguenze sociali e politiche.
Si trattava di una posizione già espressa in modo ancor più esplicito nell’enciclica Pacem in terris, del 1963, quando affermava che le società politiche devono conformarsi alle leggi della natura umana così come Dio l’ha creata e, citando il radiomessaggio natalizio del 1941 di Papa Pio XII, ribadiva che l’ordine tra le comunità politiche “[…] ha da essere innalzato sulla rupe incrollabile e immutabile della legge morale, manifestata dal Creatore stesso per mezzo dell’ordine naturale e da Lui scolpita nei cuori degli uomini” (20). Questa è una testimonianza di come Papa Giovanni XXIII si muovesse ancora all’interno di una concezione e di una prospettiva di societas christiana.
Il suo successore, Papa Paolo VI (1963-1978), ne conferma gli orientamenti impressi al Concilio, cioè quel carattere pastorale e di aggiornamento, che consentano alla Chiesa un dialogo con il mondo moderno, privo di spirito polemico e capace di esprimersi con un linguaggio comprensibile, ammonendo però di non lasciarsi prendere da facili entusiasmi al riguardo e dalla tentazione di sbarazzarsi di tutto quanto apparteneva alla tradizione della Chiesa. Cosa quest’ultima che invece puntualmente si è verificata e di cui l’abbandono della prospettiva di una cristianità costituisce la testimonianza più emblematica.
Tuttavia dai testi conciliari non si ricava l’autorizzazione ad abbandonare la prospettiva di una cristianità. Una breve selezione di passi lo attesta concretamente. Nel capitolo IV, Sui laici, della costituzione dogmatica Lumen gentium, si definisce la vocazione dei laici quale quella di “cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio” (21).
Essi “[…] sono chiamati da Dio a contribuire, come dall’interno a modo di fermento, alla santificazione del mondo, mediante l’esercizio della loro specifica funzione guidati dallo spirito evangelico. […] Spetta dunque particolarmente a loro di illuminare e ordinare tutte le realtà temporali che li riguardano strettamente, in modo che esse si costruiscano e si sviluppino secondo Cristo, a lode del Creatore e del Redentore” (22). Sempre ai laici si affida il compito di risanare “[…] le istituzioni e le condizioni di vita del mondo, quando esse inducessero comportamenti di peccato, così che diventino conformi a giustizia e favoriscano l’esercizio delle virtù anziché ostacolarlo” (23).
La stessa costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, per certo la più aperta alle istanze dell’uomo moderno, affida ai laici il compito di “procurare l’animazione del mondo con lo spirito cristiano” (24) e il dovere di “inscrivere la legge divina nella vita della città terrena” (25).
Nel decreto sull’apostolato dei laici Apostolicam actuositatem si fissa come compito dei laici quello di “[…] rendere partecipi, mediante la diffusione del regno di Cristo su tutta la terra a gloria di Dio Padre, tutti gli uomini della redenzione salvifica e ordinare effettivamente per mezzo di essi il mondo intero a Cristo” (26), “[…] animando e perfezionando con lo spirito evangelico l’ordine delle realtà temporali” (27), riconoscendo che nell’età contemporanea si sono diffusi “gravissimi errori che cercano di distruggere dalle fondamenta la religione, l’ordine morale e la stessa società umana” (28), per cui spetta ai laici “enucleare, difendere e rettamente applicare i principi cristiani ai problemi attuali” (29).
E ancora: “L’opera della redenzione di Cristo, mentre per natura sua ha come fine la salvezza degli uomini, abbraccia pure la instaurazione di tutto l’ordine temporale. Perciò la missione della Chiesa non è soltanto di portare il messaggio di Cristo e la sua grazia agli uomini, ma anche di permeare e perfezionare l’ordine delle realtà temporali con lo spirito evangelico. I laici dunque, svolgendo questa missione della Chiesa, esercitano il loro apostolato nella Chiesa e nel mondo, nell’ordine spirituale e in quello temporale: questi ordini, sebbene siano distinti, nell’unico disegno di Dio sono così legati che Dio stesso intende ricapitolare in Cristo tutto il mondo per formare una nuova creatura, in modo iniziale su questa terra, in modo perfetto nell’ultimo giorno. In ambedue gli ordini il laico che è ad un tempo fedele e cittadino, deve continuamente farsi guidare dalla sola coscienza cristiana” (30).
Ci si può domandare se i Padri conciliari facessero riferimento, in certi passi, alla concezione tradizionale di cristianità oppure a quella della “nuova cristianità” maritainiana, i cui echi si riscontrano in numerosi punti dei documenti conciliari, ma resta il fatto che la prospettiva della cristianità, quale orizzonte ideale dell’azione temporale, non sembra esser messo in discussione.
7. La crisi post-conciliare
Invece, negli anni del post-concilio, molti intellettuali cattolici si congedano dalla prospettiva di una cristianità, pretendendo di appoggiarsi proprio sul Concilio o, meglio ancora, sul presunto “spirito conciliare”, fino ad arrivare a condannare apertamente l’ipotesi di una società cristiana.
L’affermazione conciliare che la Chiesa è al servizio dell’uomo, che “Cristo è venuto […] a salvare e non a condannare, a servire e non ad essere servito” (31) è interpretata nel senso di una condivisione totale di tutte le aspirazioni umane, anche quelle più ambigue; la possibilità prospettata di rinunciare ai privilegi temporali acquisiti dalla Chiesa diventa tematicamente la rinuncia e la condanna di ogni tentativo di cristianizzare le strutture della società e dello Stato; affermazioni contenute nella Gaudium et spes, quali “siamo testimoni della nascita di un nuovo umanesimo” (32), vengono considerate come il battesimo delle speranze utopistiche socialcomuniste; l’affermazione del principio della libertà religiosa si trasforma in soggettivismo religioso e, al pari dell’ecumenismo, diventa occasione di contestazione del passato della Chiesa; i temi della pace e della giustizia sociale si trasformano in critiche al modello socio-politico occidentale; l’attenzione per il quadro mondiale diventa terzomondismo; il mancato rinnovo della condanna del comunismo si trasforma in un’autorizzazione a collaborare, se non a diventare comunisti; l’affermazione del carattere di storicità della Chiesa e, ancor più, la possibilità per il Vangelo d’incontrarsi con diverse culture e il non sentirsi legato a nessuna civiltà o cultura particolare (33) pare l’autorizzazione ad abbandonare quelle categorie tradizionali filosofiche, giuridiche e politiche ereditate dal pensiero classico greco e romano con cui il cristianesimo aveva per duemila anni pensato e definito sé stesso e i suoi dogmi, e la cui importanza è ribadita da Papa Giovanni Paolo II nell’enciclica circa i rapporti tra fede e ragione Fides et ratio, del 1998 (34).
8. La subalternità culturale dei cattolici
La perdita di categorie concettuali cattoliche e il rifiuto stesso dell’esistenza di un pensiero cattolico rendono possibile l’incontro con il pensiero marxista e con le teologie della secolarizzazione protestanti, incontro che determina l’insorgere di una condizione di subalternità culturale dei cattolici, da cui non si è ancora usciti.
Nasce così la teologia della liberazione, che considera il marxismo strumento di lotta politica e di analisi storico-sociologica; si diffonde il pensiero del gesuita Pierre Teilhard de Chardin (1881-1955), che, partendo dall’evoluzionismo biologico, postulava un cammino progressivo della storia umana, che avrebbe portato a un mondo sempre più perfetto fino alla realizzazione del Regno di Dio sulla terra.
E così fanno la propria comparsa in ambito cattolico interpretazioni della secolarizzazione sorte in ambito protestante, quale quella che si richiama al teologo luterano Dietrich Bonhoeffer (1906-1945), che interpretava la secolarizzazione come una forma di “cristianesimo inconscio”, espressione di un “mondo diventato adulto” (35), il quale, grazie all’evento liberatorio cristiano, poteva vivere “come se Dio non esistesse” (36); oppure la teologia della “morte di Dio” del vescovo anglicano John Arthur Thomas Robinson (1919-1983) (37), ovvero della morte di quel Dio che sarebbe stato costruito dalla teologia tradizionale, ormai moralmente intollerabile per l’uomo moderno, e dunque da sostituire con una immagine di Dio adeguata al clima ateo e secolaristico del tempo; oppure il modello di città secolare proposto dal teologo battista Harvey Gallagher Cox (38), nella quale la funzione delle Chiese e dei cristiani veniva ridotta al mero ambito sociale (39).
Gli anni del post-concilio precipitano la Chiesa in una crisi forse senza precedenti nella sua storia bimillenaria; parallelamente la società italiana si secolarizza ulteriormente accettando la legalizzazione del divorzio e dell’aborto, al cui successo, in nome della laicità dello Stato e della società, contribuiscono anche gruppi e personalità di rilievo del mondo cattolico.
Da questa fase storica il mondo cattolico esce profondamente trasformato, in crisi d’identità, numericamente assai assottigliato, privo di categorie culturali che gli rendano desiderabile, o almeno concepibile, la ricostruzione di una società cristiana — compresa quella di tipo maritainiano —, al massimo oscillante fra una “scelta religiosa” — il comunitarismo parrocchiale o associativo — e una “scelta sociale”, il volontariato. Dopo la lotta contro il concetto di cristianità, si è infine giunti all’oblio stesso del desiderio di cristianità.
9. Il pontificato di Papa Giovanni Paolo II
Tuttavia il pontificato di Papa Giovanni Paolo II, inaspettatamente per molti, fa riemergere questa tematica. Infatti il Pontefice, fin dalla sua elezione nel 1978, denuncia la crisi della Chiesa e le cause di questa crisi, riaffermando la necessità di leggere il Concilio Ecumenico Vaticano II alla luce della tradizione, cioè in continuità e non in opposizione dialettica con la precedente storia della Chiesa (40); non esita a definire la società moderna una società secolarizzata immersa in un relativismo etico anticristiano, davanti al quale invita i cattolici a ricostruire l’identità cristiana dell’Italia e dell’Europa, offrendo loro come criterio di giudizio e d’azione sociale la dottrina sociale della Chiesa (41).
La riedizione della condanna della società laica e secolarizzata e la proposizione di “una società a misura di uomo e secondo il piano di Dio” (42) attraverso la dottrina sociale viene denunciata dagl’intellettuali cattolici progressisti come persistenza nel cattolicesimo dell’”ideologia” della cristianità, che occorre non solo spiegare, ma in qualche modo confutare definitivamente sui vari piani su cui si pone. È l’operazione tentata da Giuseppe Alberigo sul piano teologico, da Daniele Menozzi sul piano storico, da Pietro Scoppola sul piano politico-culturale.
Alberigo, uno dei più autorevoli teologi italiani, allievo di Dossetti e direttore della rivista Cristianesimo nella storia, affermava fin dagli anni 1970 che i sostenitori della dottrina sociale della Chiesa erano permeati dal mito della cristianità.
Il rilancio della dottrina sociale della Chiesa da parte di Papa Giovanni Paolo II sembra implicare dunque anche la riproposizione di tale “mito”. Per cui la dimostrazione della storicità e della contingenza della dottrina sociale della Chiesa diviene per Alberigo decisiva per negare nel suo fondamento dottrinale la prospettiva della cristianità, ed è quanto si sforza di dimostrare con lo studio Dal bastone alla misericordia. Il magistero nel cattolicesimo contemporaneo (1830-1980) (43).
Infatti per Alberigo il magistero pontificio è fortemente condizionato dal contesto storico in cui si è prodotto. Esso si sarebbe sviluppato durante l’età della Restaurazione al fine di ricuperare l’egemonia della Chiesa sulla società, trasformandosi, da Papa Gregorio XVI (1831-1846) fino a Papa Pio XII, in strumento ideologico di controllo e di condizionamento della vita della Chiesa e dell’azione dei laici nella società, azione subordinata alla ricostruzione di una società cristiana.
Si tratta di una linea che, nell’interpretazione di Alberigo, avrebbe sviluppato, particolarmente nel cattolicesimo italiano, un atteggiamento chiuso e difensivo, spezzata solamente dal Concilio Ecumenico Vaticano II e, in particolar modo, dal discorso di apertura di Papa Giovanni XXIII che, pur mettendo il Concilio in continuità con l’insegnamento precedente, avrebbe tuttavia storicizzato l’atteggiamento elaborato dal magistero dei predecessori.
In tal modo, la posizione di Papa Giovanni Paolo II perde di rilevanza perché ripropone criteri di governo della Chiesa e di analisi della società formatisi in contesti storici effettivamente trascorsi e si pone in contrasto con quanto di più recente, e in modo solenne, il magistero è venuto insegnando.
Fondamentale invece, per Menozzi, docente di Storia della Chiesa e autore d’importanti studi di storia del cristianesimo, avrebbe dovuto essere la dimostrazione del carattere ideologico della cristianità e della sua totale infondatezza storica, oltre che teologica: l’ideologia della cristianità affonderebbe infatti le sue radici non in un fatto storico, ma in un mito (44).
Il mito della cristianità sarebbe stato un’invenzione romantica, legata in particolar modo al pamphlet di Novalis (1772-1801) Cristianità o Europa, nel quale si esprimeva un forte sentimento di nostalgia per un’unità politica e spirituale idealizzata, che contrassegnava l’Europa medioevale. Il mito della cristianità medioevale, nato in ambiente romantico, sarebbe trapassato rapidamente nel pensiero contro-rivoluzionario per poi venir accolto dal magistero pontificio.
Per oltre un secolo e mezzo il mondo cattolico sarebbe stato pervaso da questo mito della cristianità e, spinto dal magistero, avrebbe cercato effettivamente di ricostruirla. Ma, a partire dagli anni 1930, questa unità d’intenti avrebbe iniziato a frammentarsi. La “nuova cristianità” maritainiana, l’emergere di studi storiografici che mettevano in questione il carattere cristiano della società medioevale, nuove riflessioni ed esperienze teologiche che prescindevano dal problema di costruire una società cristiana, rendono sempre meno desiderabile la ricostruzione di una cristianità.
Il Concilio, soprattutto nel discorso di apertura di Papa Giovanni XXIII, avrebbe sancito una conferma da parte del Magistero di questi nuovi orientamenti affiorati nel mondo cattolico; ma, ammette Menozzi, neanche il Concilio sarebbe riuscito a “delineare un definitivo allontanamento dall’ottica di cristianità” (45). Tale allontanamento sarebbe avvenuto nella prassi concreta e nella elaborazione teologica postconciliare sulla base, conferma Menozzi, più dello spirito che della lettera del Concilio.
Proprio l’“ambiguità” (46) dei testi conciliari aveva consentito la sopravvivenza di componenti del mondo cattolico, seppur divenute minoritarie, legate alla prospettiva tradizionale o a quella maritainiana della cristianità. Proprio per la stessa ragione il pontificato di Papa Giovanni Paolo II aveva potuto rilanciare tematiche quali quelle della società cristiana e dell’Europa cristiana.
Ma, in definitiva, anche per Menozzi il “mito” della cristianità è stato assunto dal magistero come strumento per una nuova egemonia sulla società, dopo il suo secolarizzarsi; tale “mito” viene riproposto adesso, approfittando dello smarrimento provocato dalle crisi delle ideologie.
Sul piano di una più generale riflessione sulle modalità della futura presenza cattolica nella società italiana, in relazione alle trasformazioni culturali e socio-politiche, si colloca l’opera dello storico e, all’epoca, senatore democristiano Pietro Scoppola, La “nuova cristianità” perduta, del 1985, che costituisce forse l’espressione più emblematica del punto di approdo a cui il cattolicesimo democratico desidera giungere, sostituendo all’ideale della cristianità la “cultura dei comportamenti” (47).
Il saggio di Scoppola intende rispondere alla domanda: “Che tipo di presenza cristiana si richiede per la società odierna?”. La risposta necessita preliminarmente di due elementi, cioè chiarire la natura e la qualità della società in cui viviamo e spiegare il processo che l’ha generata.
La società in cui viviamo, anche a giudizio di Scoppola, è una società nichilista, estremamente povera di valori. Ma non lo è in virtù di un processo di secolarizzazione, in quanto la secolarizzazione in sé è un fenomeno positivo e inevitabile.
Positivo perché tende a deideologizzare la società e lo Stato rendendoli neutri e quindi di tutti, e inevitabile perché legato alla modernizzazione della società. A chi obietta che la secolarizzazione ha scardinato i valori tradizionali, Scoppola replica che i valori tradizionali, come anche la cristianità, sono legati alle società agricole, dunque la loro caduta è inevitabile e non drammatica perché, come dimostrerebbero i paesi dell’Europa Settentrionale, possono svilupparsi nuove forme di etica laica collettiva. Ma ciò, in Italia, non si è verificato.
Questo perché il mondo cattolico si è per anni attardato in un velleitario tentativo di riconquista della società, imbrigliandosi quindi, sempre secondo Scoppola, in un’ideologia che lo rendeva incapace di comprendere quanto stava realmente accadendo nella società stessa.
Costituendo la cristianità la sua ideologia politica, il cattolicesimo si è speso in una guerra ideologica che lo portava a contrapporsi violentemente a tutte le altre ideologie, in particolar modo al comunismo, cui rimproverava la dissoluzione dello spirito religioso della società italiana.
Ma in realtà, afferma Scoppola, non erano queste ideologie a corrodere la fede del popolo italiano, bensì un fenomeno imprevisto, invisibile e silenzioso, rappresentato dal nichilismo consumista. Per Scoppola i cattolici cercavano il nemico sul piano delle idee e non si accorgevano che questo nemico stava nei comportamenti, determinati da fatti sociali ed economici, mal gestiti proprio da un personale cattolico, culturalmente assorbito da questa prospettiva ideologica, e dunque impreparato a gestire la trasformazione della società.
Dunque, spiegare questa crisi sul piano della storia delle idee, su un piano filosofico, oltre a essere sbagliato e inutile, sarebbe pericoloso perché farebbe ripiombare i cattolici in una logica ideologica: quella di un pensiero cattolico che necessariamente determina una visione della società e dello Stato fondata su criteri propri. In una forma ideale da cui anche la Chiesa, con il Concilio, si sarebbe distaccata accettando pienamente la laicità e la democraticità dello Stato.
Allora la risposta dei cristiani deve spostarsi sul piano dei comportamenti, ed è questa la nuova dimensione della presenza cristiana nella società: non una società da cristianizzare, non un riferimento dottrinale che specifichi la differenza della visione del mondo cristiana rispetto a quelle laiciste; anzi, si parla di deconfessionalizzazione della presenza cattolica, di comportamenti che, radicati nella fede, siano universalmente condivisibili, “una “religione civile” della responsabilità e della solidarietà” (48).
La Chiesa e il cristiano, in questo contesto secolarizzato, dovranno sviluppare un “cristianesimo adulto” (49), che rappresenterà una “riserva di energie morali” (50) per la società; al cristiano è richiesto d’immergersi nella società così com’essa è, testimoniando la sua fede con i suoi comportamenti quotidiani.
Ecco la conclusione della parabola storica di un certo tipo di pensiero cattolico sulla questione della costruzione di una cristianità. Nella prospettiva progressista e cattolico-democratica la sola forma di presenza cattolica proponibile è quella silenziosa, dove si spacciano per guadagni spirituali elementi quali il retto comportamento, il compiere il proprio dovere, il rispetto per il prossimo, il senso civico, che fanno parte del bagaglio di ogni persona perbene; un tipo di presenza, questo, che consentirebbe di sviluppare un cristianesimo “maturo” e una crescita del proprio radicamento spirituale, che non si capisce in che modo dovrebbe avvenire, se tanti di quelli che ti circondano ne sono privi.
Il problema della cristianità ha certamente radici lontane, la sua realizzazione è certamente difficoltosa, ma ciò non significa rinunciarvi e soprattutto spacciare per normale, se non addirittura come bene, quanto non è tale. Il processo che ha prodotto la laicizzazione e la secolarizzazione della società italiana, fino a immergerla in un contesto culturale e morale profondamente relativista e nichilista, deve essere chiaramente identificato e denunciato come tale, se si vogliono avere almeno gli strumenti concettuali per “una rettificazione dello stato in cui siamo caduti” (51).
Proprio lo stesso processo allontana gli uomini dalla Verità e quindi dalla salvezza. È possibile che dei cristiani considerino questo processo come un fenomeno naturale, legato ai problemi di una società moderna e complessa? Non si può desiderare d’invertire la rotta?
Chiusura di una parabola storica non significa la fine dell’ideale di una cristianità. Se il Pontefice lancia l’appello per la “nuova evangelizzazione” significa che, in certo qual modo, si deve ripartire da capo, che vi sono molte persone da evangelizzare e che le stesse comunità cristiane vanno rievangelizzate nuovamente: non a caso il Papa parla di autoevangelizzazione delle comunità ecclesiali come premessa alla “nuova evangelizzazione”, perciò “certamente urge dovunque rifare il tessuto cristiano della società umana. Ma la condizione è che si rifaccia il tessuto cristiano delle stesse comunità ecclesiali“ (52).
Non occorre una cristianità subito e, del resto, la ricostruzione di una cristianità non passa attraverso un progetto di cristianità. Come accadde per la cristianità medioevale, che non si realizzò per la strategia di nessun cristiano, ma sorse spontaneamente come conseguenza di una fede che si radicò così profondamente da diventare cultura, e in quanto cultura autentica seppe generare una civiltà di cui molte vestigia sono arrivate fino a noi, altrettanto potrà accadere nel terzo millennio.
La fedeltà a Cristo, la consapevolezza della sua regalità anche sociale, la fedeltà alla Chiesa e al suo Magistero, la capacità di riordinare le realtà naturali costituiscono le premesse per la realizzazione di una nuova società cristiana.