Intervista al prof. Ettore Gotti Tedeschi
a cura di Giuliano Guzzo
Gotti Tedeschi infatti, sfidando un’omertà che durava da tempo, ha scelto di parlare -peraltro con articoli sulla stampa che conta, Carriere detta Sera in primis — di bambini che non nascono e di vecchiaia a un Paese non solo vecchio, ma incapace di guardarsi allo specchio. Un’impresa temeraria.
Per questo lo abbiamo avvicinato per rivolgergli qualche domanda.
Prof. Gotti Tedeschi, che cosa l’ha spinta a denunciare pubblicamente il problema demografico? Si tratta di una sfida non facile e poi un padre di cinque figli, quale lei è, avrebbe potuto considerarsi esonerato da questo impegno.
Infatti è una sfida difficile, soprattutto per il mondo cattolico impregnato di “comprensionismo” – attitudine a voler comprendere gli errori senza volerli e saperli correggere. Molto meno invece per il mondo laico, più pragmatico (pensi ai francesi che lo hanno affrontato come puro elemento di crescita economica). Ma anche in Italia, gli intellettuali che cominciano ad affrontare il tema demografico vengono sempre più dal mondo laico. Io da vent’anni propongo le tesi sulla demografia e chi mi ha maggiormente contestato viene dal mondo cattolico, mentre chi ha accettato il confronto, a parte il prof. Sartori, viene da quello laico.
Non mi sento invece esonerato dall’impegno per almeno due ragioni principali. La prima rgione, che accetta la sua ironia sul mio contributo alla crescita demografica, sta proprio nella mia preoccupazione per il futuro dei miei figli, per il loro lavoro. Senza crescita della popolazione come potrà crescere il PIL necessario a compensare gli errori prodotti dalla crescita consumistica a debito passata? Come potrà crescere perciò la domanda di lavoro?
La seconda ragione è molto più “seria”. Se si sbaglia la diagnosi di un problema, necessariamente la prognosi sarà errata. Se come diagnosi si considera, quale origine della crisi attuale, l’avidità dei banchieri o il cattivo utilizzo della finanza, la prognosi sarà di modificare gli strumenti, non il modo con cui devono esser usati, non il loro fine. Così non solo non si risolverà la crisi, ma si creeranno illusioni, si perpetueranno errori e si rischierà di modificare erroneamente il ruolo dell’uomo nel contesto sociale, trasformando i mezzi – finanza, economia — in fini. Il ministro dello sviluppo economico del prossimo governo dovrebbe riflettere su questo punto.
Più volte Lei ha sostenuto come la vera origine della crisi economica in corso — prima che finanziaria — sia proprio di ordine demografico. Brevemente potrebbe spiegarci perché?
Come ho già accennato, se la popolazione non cresce, il PIL di fatto aumenta solo facendo crescere i consumi individuali (certo, tutti sognano di aumentare produttività ed esportazioni… ma non è, e non è stato, così). Ma se la popolazione non cresce e pertanto invecchia, aumentano i costì fissi che la società deve sopportare (pensioni, sanità..), e questo aumento pretende aumento delle tasse che a sua volta fa diminuire i consumi e gli investimenti.
Per sostenere i consumi si delocalizzano (in Cina per esempio) le produzioni per importare beni a prezzi più bassi, ma questo produce deindustrializzazione, perdita di competitivita e rischio perdita posti di lavoro al momento di crisi. Sempre per sostenere i consumi, prima si sacrifica il risparmio delle famiglie, poi si sviluppano i consumi a debito, sempre più a debito. Finché il debito per esser sostenuto deve esser gestito in modo “disinvolto”, vuole prodotti sofisticati (che compensano la mancanza di base monetaria dovuta al minor risparmio, ecc) e banchieri sofisticati. Ma come ben appare, la gestione finanziaria disinvolta è una conseguenza, non l’origine, della crisi economica che è manifestamente dovuta alle non nascite sufficienti a sostenere la crescita, che ogni governante vuole, del PIL.
Ma questo mondo sembra voler disconoscere il problema così spiegato, per una ragione molto semplice, che si dovrebbe riconoscere che l’origine della crisi è anzitutto morale. E questo mondo nichilista non vuoi sentire parlare di “motivi morali”. Si legga l’introduzione a Caritas in Ventate di Papa Benedetto, in proposito (e già che si è aperta, si rilegga l’intera Enciclica).
Il successo che continuano ad avere, almeno a livello mediatico e non solo, le teorie malthusiane — che vogliono la crescita della popolazione molto superiore alla crescita delle risorse e quindi pericolosa — lei come lo spiega? Dopo tutto risulta smentito dai fatti.
Lo spiego in due modi. Il primo, più complesso, si fonda sul trucco matematico-statistico di come si rappresenta un fenomeno. Un risultato economico è spesso rappresentato in crescita o descrescita percentuale. In pratica è il rapporto tra un numeratore e un denominatore. Ma se non si spiega il fenomeno che si vuole rappresentare nel tempo e condizioni, il fenomeno si presta ad esser contraffatto. Se lascio inalterato in un periodo breve il numeratore (il PIL totale di una nazione) mentre riduco il numero di popolazione, risulta che il PIL prò capite cresce proporzionatamente, cioè uguale a maggior benessere. Se al contrario voglio mostrare che crescendo la popolazione diminuisce il benessere, rapporto, sempre nel periodo e condizioni che io scelgo, il numeratore su un denominatore (numero popolazione) che cresce, facendo risultare che diminuisce il PIL prò capite.
In un articolo pubblicato il 6 giugno 2009 su L’Osservatore Romano, Lei ha scritto che «il tema della crescita della popolazione tornerà presto a essere valutato con attenzione e, soprattutto, con preoccupazione, visto che i nuovi equilibri demografici creano nuovi poteri geopolitici. La demografia sarà considerata un fattore chiave nella crescita economica e negli equilibri geopolitici». Secondo lei quanto manca a questa nuova presa di coscienza dell’importanza del tema della crescita della popolazione?
Manca poco, ma soprattutto, finalmente si direbbe che negli USA han cominciato a capirlo e preoccuparsi. In gioco, han finalmente capito, c’è la leadership globale nei prossimi decenni e l’USA di Obama sembra percepire l’importanza di fare un area politica-economica di un miliardo di persone, tra Usa ed Europa.
Stiamo scrivendo su Radia Cristiane: bene, si provi a riflettere su questa considerazione, detta molto sinteticamente: il mondo negli ultimi, diciamo, cinquecento anni è stato guidato da Europa e poi USA, cioè la leadership è stata in mano a nazioni e poteri, in qualche modo fondati su una cultura che è formata su radici cristiane. Bene, grazie all’attuale nuovo ordine economico mondiale accelerato dalla globalizzazione che è servita a delocalizzare le produzioni per trame vantaggi economici, temporanei, il potere economico da Occidente si sposta a Oriente.
L’oriente sarà il potenziale leader dei prossimi tempi, se non correggeremo subito detto ordine economico. Ma le radici culturali dell’Oriente sono diverse da quelle dell’Occidente soprattutto per l’aspetto che più ci deve preoccupare: il problema antropologico, il concetto di quale dignità riconoscere alla creatura umana (e perciò come valorizzarla).
Una critica che viene sovente mossa a quanti guardano positivamente apolitiche per la natalità è che, in questo modo, si trascurano le conseguenze che potrebbe avere un pianeta sovraffollato. Che cosa ne pensa di questa obiezione?
Risponderò a questa domanda con altre domande, ciò per stimolare la riflessione del lettore. Cosa è sovraffollamento? Cosa comporta ostacolare la crescita equilibrata della popolazione? Quale esperienza abbiamo tratto dalle politiche anti-“affollamento” degli ultimi decenni?
Il ricambio generazionale, com’è noto, è assicurato quando ci sono 2,1 figli per coppia. L’Italia oggi è purtroppo sotto questa soglia, anche se molti seguitano a fare affidamento sull’aiuto che in questo senso può offrire l’immigrazione, anche se i dati più recenti — a dispetto del pur elevato tasso di immigrazione italiano — sono assai sconfortanti e certificano un calo di bambini nati. L’immigrazione è dunque una soluzione illusoria al problema demografico?
Vediamo, il tema immigrazione va affrontato con valutazioni complesse e senza superficialità. Ci sono ben quattro tipi di immigrazione, i dati che ne spiegano il fenomeno sono spesso sconosciuti o disconosciuti. Perciò non me la sento di affrontare in poche righe il tema immigrazione. Solo vorrei fare alcune considerazioni.
L’immigrazione non può e non deve esser vista come un fenomeno compensativo del voluto crollo natalità. L’immigrazione non è e non deve essere una soluzione economica allo sviluppo egoistico che abbiamo prodotto negli ultimi decenni (per esempio pagarci le pensioni…). Si è mai calcolato quanti redditi dovrebbero produrre e quanti contributi dovrebbero pagare gli immigrati per sanare lo squilibrio? Per capirlo è necessario analizzare i dati sul PIL prodotto dall’immigrazione, quanto di questo reddito creato viene rimesso al paese di origine o consumato e investito dove prodotto.
Si dovrebbero calcolare le imposte pagate dagli immigrati verso i costi sostenuti per l’accoglienza, integrazione, formazione. Per capirlo va analizzato il fenomeno dell’immigrazione produttiva (nelle regioni del nord, per es.) e il fenomeno della disoccupazione, giovanile per esempio, nella regioni del sud. E va affrontato valutandolo in un momento di crisi di occupazione, quale l’attuale.
L’immigrato per noi cattolici è il prossimo, da tutti i punti di vista e senza retorica… non può esser visto come unità produttiva.