L’Occidentale 25 Gennaio 2017
di Eugenio Capozzi
Se in occasione dell’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca il sistema dei grandi media occidentali e consistenti segmenti dell’opinione pubblica liberal si rifiutano di accettare il risultato della volontà popolare, invocano rivolte e giustificano dimostrazioni violente, non si può considerare questo rifiuto come un caso fortuito o isolato. Se la legittimità della vittoria dei “leave” nel referendum dell’anno scorso sull’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea è stata radicalmente messa in discussione da politici, intelettuali e giornalisti del vecchio continente con l’argomentazione che quel risultato non era valido perché determinato dal voto degli elettori anziani, poveri e ignoranti contro quello dei più giovani e istruiti, ciò non è stato dovuto ad un momentaneo smarrimento del significato della democrazia e del suffragio universale.
Se gran parte dell’opinione pubblica progressista occidentale – che per anni si era sperticata in celebrazioni commosse delle immense potenzialità di libertà e democrazia offerte dal Web – sostiene ora da alcuni mesi con sempre maggiore insistenza la tesi secondo la quale una parte dei contenuti politici che circolano in rete e nei social network sono “post-verità” menzognere e truffaldine, e che proprio questi contenuti sono stati la causa dell’affermazione di pericolosi populismi, come appunto la vittoria della Brexit e di Trump, questo non è il frutto dell’eccesso di pochi estremisti faziosi.
La triste verità è, invece, che l’intolleranza, il rifiuto del pluralismo, la delegittimazione dell’avversario, l’invocazione della censura contro di lui sono parte integrante dell’ideologia oggi egemone nelle élites politiche, socio-economiche, intellettuali e mediatiche delle democrazie industrializzate: il progressismo radicale che possiamo riassumere nella definizione di politically correct. Questa ideologia non si differenzia, infatti, nelle sue caratteristiche fondamentali da tutte le altre che hanno imperversato nella cultura europea e occidentale dalla rivoluzione francese alla fine del Novecento: “religioni politiche” secolarizzate fondate su dogmi e ortodossie, insofferenti verso eretici e dissidenti.
Chiunque sia convinto che l’idea di ordinamento politico, sociale ed economico in cui crede, una volta realizzata, renderà il mondo più felice e risolverà i problemi dell’umanità considera inevitabilmente qualsiasi opinione contraria ai suoi disegni non come il frutto di opinioni, interessi, culture, inclinazioni legittimamente diversi dai propri, ma come un fastidioso, irrazionale ostacolo che ritarda il cammino trionfale delle “magnifiche sorti e progressive”, e che può essere addebitato soltanto a due ordini di cause: o stupidità e ignoranza, o interesse particolaristico al mantenimento dello status quo.
Il senso di superiorità morale dell’élite “illuminata”, derivante dalla tradizione gnostica, diviene la base della forma mentis propria di tutte le famiglie ideologiche dell’Otto e del Novecento, riproponendosi sotto la forma delle grandi “filosofie della storia” (idealismo hegeliano, positivismo, marxismo). L’ideologo professa quella che Herbert Butterfield chiamava una “interpretazione whig della storia”, nel senso di un pregiudizio di fondo su chi sono i “buoni” e i “cattivi”, le forze che favoriscono l’avanzamento lungo quella strada obbligata e quelle che lo frenano, in ogni conflitto di ogni epoca umana.
I regimi totalitari non sono stati altro che i momenti in cui questa visione unilaterale del progresso e del bene, nel contesto di conflitti particolarmente radicali, è stata portata alle sue estreme e più coerenti conseguenze: quella del dominio incontrastato di partiti, leader e classi dirigenti “avanzate” su società da ricostruire ab imis fundamentis, e dell’annientamento da parte loro di ogni avversario, di ogni residuo “difettoso” nelle società stesse.
Nel corso del ventesimo secolo le più violente tra le ideologie crollano, lasciando apparentemente in piedi in Occidente, e tendenzialmente su scala mondiale, soltanto la cultura liberaldemocratica. Ma il vuoto lasciato da fascismi e comunismo viene ben presto colmato, dopo la guerra fredda e nell’epoca della globalizzazione, da altri fenomeni apparentemente diversi, in realtà di natura parecchio affine ad essi. E’ stato in quella fase storica che le democrazie costituzionali sono state svuotate dall’interno dal progressismo radicale, fondato su un totale relativismo culturale ed etico in cui si mescolano un superomismo scientista e un ambientalismo antiumanista e neopagano.
L’assunto generale di questa nuova ortodossia è l’ideale di un’umanità composta da individui assolutamente liberi da qualsiasi costrizione, condizionamento o discriminazione, in grado di determinare a loro piacimento il proprio ruolo nel mondo e la loro stessa natura. Ma quanto più professa un integrale relativismo libertario, tanto più il progressismo politically correct produce ortodossie rigide, proibizioni, scomuniche morali, protocolli di comportamento sociale, una pedagogia civile sempre più invadente. In realtà la sua convinzione di dover innalzare le plebi barbare all’autentica libertà, in corto circuito con il suo rifiuto di ogni gerarchia di civiltà e di ogni senso della comunità, genera una incapacità di fondo a tollerare un confronto effettivo a tutto campo tra diversi ideali di vita, diverse concezioni del bene.
Le élites progressiste costituiscono una gigantesca rete in cui sono compresi i media (inclusi i social) più influenti, le grandi università e molte tra le maggiori istituzioni culturali europee, del Commonwealth britannico e statunitensi, le istituzioni sovranazionali. Una rete in cui vengono coniate le “narrazioni” ufficiali, il linguaggio “autorizzato” e una lettura ideologicamente uniforme dei principali problemi sociali e politici del mondo. La classe politica e intellettuale interna a questo sistema usa la sua egemonia per esercitare una ferrea e continua opera di delegittimazione verso qualsiasi fenomeno che ad essa si contrapponga, usando nell’accezione più spregiativa e generica il termine “populismo” e marchiando oppositori politici e culturali con appellativi infamanti volti ad escluderli completamente da ogni possibilità di interlocuzione: xenofobo, razzista, islamofobo, omofobo, sessista, “negazionista” (applicato a chi non ritiene credibile la martellante propaganda sulle origini antropiche del global warming), e così via.
Insomma anche l’ideologia liberal contemporanea, contrariamente all’immagine edulcorata che offre di se stessa, porta in sé una malcelata aspirazione ad incarnare una sorta di “ministero della verità” come quello descritto in 1984 di George Orwell, e a imporre una “neolingua” controllata dalla propaganda (questa volta di establishment prima che di partito, ma la sostanza cambia poco). Ma le strategie censorie e delegittimanti incessantemente messe in atto dal progressismo elitario tendono a provocare, con tutta evidenza, un forte effetto boomerang.
Più le élites progressiste si chiudono nella loro fortezza di autolegittimazione, delegittimazione ed omologazione, più esse alimentano fenomeni di segno inverso: ribellioni sempre più estese verso la loro egemonia, e movimenti populisti sempre più aggressivi che amplificano al massimo proprio la contrapposizione a quell’establishment, considerano la loro emarginazione come una medaglia al valore e si eleggono – con crescente consenso – a rappresentanti legittimi dell'”uomo comune” contro classi dirigenti lontanissime dal sentire diffuso.