Il prototipo dei Gulag

Solovki-isoleAvvenire 29 ottobre 2009

di Lorenzo Fazzini

Fu il campo dove il grande teologo Pavel’ Florenskij venne rinchiuso e ucciso con un colpo alla nuca insieme a 1115 detenuti nell’ottobre del 193. Da celeberrimo monastero ortodosso, abitato fin dal XVI secolo, divenne il prototipo dell’universo concentrazionario che Alexander Solzenicyn avrebbe reso letterariamente immortale nel suo Arcipelago Gulag.

«La specificità del Gulag è frutto dei principi sperimentati alle Solovki: l’utilizzo dei forzati per risparmiare, il prolungamento arbitrari della detenzione con nuove condanne all’esilio, la subordinazione dei detenuti politici ai criminali, l’interdipendenza tra razione alimentare e lavoro, e infine l’umiliazione costante dei prigionieri attraverso un regime che calpesta i diritti umani più elementari».

E, inoltre, la particolare ferocia verso quanto sapeva di religione: dal 1927 in Urss bastava «partecipare a manifestazioni religiose» per ottenere il massimo della pena. La ricercatrice francese Francine-Dominique Liechtenhan ha compito un pregevole lavoro sulle isole Solovki come modello del sistema repressivo in Urss. Il laboratorio del Gulag.

Le origini del sistema concentrazionario sovietico (da oggi in libreria per Lindau, pagine 314, euro 24,50) getta una luce complessiva sull’eziologia di quanto la neonata Germania nazista avrebbe preso ad esempio. È proprio Liechtenhan a concretizzare, con un eclatante riferimento, l’affermazione di Alain Besançon su comunismo e nazismo quali «gemelli eterozigoti».

Nota infatti l’autrice: «Ben prima della sua ascesa al potere, Hitler manda degli emissari per verificare l’operato dei “giudeo-bolscevici”. I risultati soddisfano gli ideologi nazisti, che utilizzano le informazioni delle loro spie per scatenare la propaganda antisovietica. […]. Dai campi i nazisti sapranno trarre ispirazione dieci anni dopo».

Quali le caratteristiche peculiari delle Solovki, arcipelago del Mar Bianco (nel 1929 nelle 6 isole più importanti si contano 39 campi), estremo nord-ovest della Russia, al largo di Archangel’sk? Anzitutto, la scelta geografica dei gerarchi di Mosca per impiantare il germe concentrazionario: un territorio inospitale, con temperature di -30° in inverno, una zona irraggiungibile da novembre a giugno.

Qui trovano “casa” criminali comuni, oppositori politici, religiosi, ex membri dell’alta società zarista. Con due curiosità non indifferenti: i detenuti più rappresentati sono i contadini (nel 1927, secondo Liechtenhan, rappresentano il 67% dei reclusi: ma il comunismo non doveva “liberare” i servi della gleba?). I membri del Partito comunista poi rappresentano, con il 7%, la maggior quota di carcerati politicizzati, visto che il 92% era senza partito. Come a dire: i più reclusi alle Solovki erano gli stessi comunisti.

La detenzione, che arrivò a riguardare fino a 70 mila persone in contemporanea, aveva l’obiettivo di “rieducare” i “nemici del popolo” al credo sovietico: «Nel gergo ufficiale sovietico – scrive l’autrice -, essere condannati ai campi non significa soffrire né morire, bensì prepararsi a una vita migliore, fedele ai precetti del comunismo».

Ma la durezza del campo portava all’abbruttimento dell’umano, ovvero corruzione, prostituzione, furti, omicidi, inauditi casi di cannibalismo: «A volte la madre preferisce far sparire il neonato seppellendolo nella foresta. Secondo alcune testimonianze, non sarebbero mancati i casi di antropofagia: detenute spinte dalla fame che avrebbero dissotterrato i corpicini per mangiarli o addirittura per vederne i resti spacciandoli come carne animale». Eccola, la “grandezza” del nuovo homo sovieticus.

Quindi Liechtenhan (docente alla Sorbona e all’Institut Catholique di Parigi) rimarca come, con il famigerato articolo 58 introdotto nel ’27 nel codice penale, la detenzione fossa diventata in Urss un espediente economico (oggi riattualizzato dai laogai, i campi di lavoro in Cina): «Il codice penale è rimodellato in funzione della richiesta di manodopera, la società sovietica diventa un “universo concentrazionario”».

Di fronte a questo stravolgimento dell’umano, le reazioni furono divergenti: vi fu il caso del celebre scrittore Maksim Gor’kij che – visitate le Solovki – redasse un resoconto filogovernativo: quelle carceri diventano «una scuola preparatoria» e l’internamento «una cosa giusta». Arvo Tuominen, comunista finlandese, invece, che visitò il campo di Kem’ nel ’33, ne rimase sconvolto: «I prigionieri avevano abbandonato ogni speranza. Il campo era come un cimitero per i vivi».

Nell’agosto scorso il nuovo patriarca di Mosca Kirill ha visitato le Solovki, che nel 1990 è tornata ad essere un monastero (la cattedrale è stata riaperta nel 2003): ricordando suo nonno, prigioniero, il capo della Chiesa russa ha auspicato che le Solovki diventino «un centro di studio nazionale sull’impresa dei martiri e confessori della fede durante il Novecento».

Sarebbe un modo splendido per “vendicare” in maniera pacifica decenni di violazioni della dignità umana in nome del Sol dell’avvenire.