da Atlantico 12 Luglio 2018
di Anna Bono
L’impegno a creare un’area di libero scambio continentale, sottoscritto da 44 paesi membri dell’Unione Africana il 21 marzo scorso, è stato accolto in Europa con incondizionato entusiasmo, nonostante i molti, fondamentali punti ancora da chiarire e il fatto che tra gli 11 paesi che non hanno aderito ci siano le due maggiori potenze economiche del continente, il Sudafrica e la Nigeria. Inoltre sono i toni con cui l’evento è stato commentato a meritare attenzione.
Qualche mass media italiano ad esempio – tra i pochi che ne hanno parlato diffusamente – ha definito l’accordo un evento storico, una pietra miliare, evidenziando come la parte del mondo “dipendente dal Nord e meno sviluppata” stia dando una grande lezione al Nord. L’Africa “prova ad alzare la testa”, “mentre l’America si chiude, il resto del mondo, quello più povero, continua ad andare verso un’altra direzione” esordiva un articolo di “Il Sole 24 ore” intitolato “Nasce una grande area di libero scambio.
La rivincita dell’Africa parte dal commercio”. Di quale rivincita si tratti l’articolo non lo diceva. Siccome poi non c’è limite alla falsificazione dei fatti e della storia quando si tratta di mettere l’Occidente in pessima luce e descrivere per contro gli Africani come vittime innocenti che, se libere, disporrebbero di sé ben diversamente, ecco che la colpa dei dazi africani è dell’Europa che ha colonizzato l’Africa e l’ha divisa in stati. Il presidente del Niger, Mahamadou Issoufou, ha commentato con queste parole la firma dell’accordo: “Un continente che è stato diviso 134 anni fa dalla Conferenza di Berlino ha deciso di integrarsi e di unirsi. Ci sono 84mila km di frontiere, 84mila km di ostacoli che fanno sì che gli scambi intra-africani rappresentino oggi appena il 17% del totale”.
Per chi non lo ricordasse, la Conferenza di Berlino si svolse nel 1884. Al summit, considerato erroneamente l’inizio della corsa alla spartizione dell’Africa, i paesi europei in realtà discussero e decisero la creazione in Africa di due vastissime aree di libero commercio e concordarono anche la libera navigazione sui 4.180 chilometri del fiume Niger. Dei confini in effetti furono poi tracciati a delimitare i territori coloniali.
Quasi tutti gli africanisti e praticamente tutti gli africani sostengono che sono quei confini la causa dei pochi scambi commerciali tra un paese e l’altro e delle guerre tribali che dopo le indipendenze hanno dilaniato il continente. Nessuno sembra ricordare che prima dell’era coloniale, e in parte anche dopo, per ogni africano il territorio sicuro, in cui circolare liberamente, era quello controllato dal proprio lignaggio e, nei periodi di pace tra i lignaggi, quello tribale. Per commerciare si viaggiava con grave rischio, in convoglio, armati, cercando di stringere patti di volta in volta con i lignaggi e le tribù di cui si attraversavano i territori.
Questo a parte, i paesi africani indipendenti hanno avuto decenni a disposizione per comunicare tra loro, scambiare, cooperare. Invece hanno imposto di loro iniziativa dazi d’importazione astronomici: una scelta mai abbastanza criticata per quel che è, vale a dire una irresponsabile, rovinosa politica economica che, con il pretesto di proteggere l’industria locale, serve a far entrare milioni di dollari nelle casse statali, da cui gli africani al potere sono molto abili a prelevarli.
Il modo in cui è stato accolto e commentato l’accordo africano di libero scambio non è che un esempio tra i tanti, emblematico, di come l’Europa si pone nei confronti dell’Africa. Una letteratura sterminata descrive i rapporti tra i due continenti come un tragico susseguirsi di crimini contro l’umanità, culminati nella colonizzazione europea. L’idea è che noi, popoli europei colpevoli, non faremo mai abbastanza per farci perdonare e per rimediare ai danni incalcolabili di cui siamo accusati. Per contro agli africani non si attribuiscono responsabilità né colpe. Un inconsapevole razzismo, portato all’estremo, li rappresenta come inermi, incapaci di decidere di sé e da sé, eterne vittime di interessi stranieri e di trame ordite altrove.
Di nessun continente, di nessuna popolazione parliamo – governi, mass media, atenei, ong, autorità religiose… – nei termini usati per l’Africa. Dalle parole ai fatti, l’Europa, con il resto dei paesi occidentali, riversa incessantemente nel continente risorse finanziarie, tecnologiche, umane, pretendendo di provvedere a tutto: saldo dei debiti (HIPC), amministrazione della giustizia (tribunali speciali, Cpi), profughi, sviluppo, campagne sanitarie, elezioni e osservatori internazionali, accordi di pace, antiterrorismo, missioni di peacekeeping Onu e non solo.
La Amisom è una missione di peacekeeping dell’Unione Africana, operativa in un paese africano, la Somalia, per contrastare un nemico africano, il gruppo jihadista al Shabaab. Africani sono il capo della missione e tutto il suo personale, 22.126 “caschi verdi” tra militari e civili, forniti da Uganda, Kenya, Etiopia, Burundi e Gibuti. Tutto è africano, salvo i soldi. Quelli li mette l’Unione Europea: 1.028 dollari al mese per ogni dipendente. I rispettivi paesi trattengono 200 dollari, ai peacekeeper ne vanno 828. Adesso l’UA sta considerando di aumentare gli stipendi. Il sostegno alla Amisom deve essere pari a quello che ricevono le missioni delle Nazioni Unite, ha argomentato Samil Chergui, Commissario dell’UA per la pace e la sicurezza, parlando al 30° vertice dell’organismo panafricano, e lo stipendio mensile dei caschi blu è di 1.400 dollari.
La comunità internazionale deve fare di più, ha concluso Samil Chergui. L’Europa obbedirà, che invece, per il bene di tutti, dovrebbe finalmente liberarsi dei sensi di colpa indotti, del razzismo mascherato da buon cuore, del delirio di onnipotenza di chi si accolla la responsabilità di tutti i mali e di tutti i rimedi.