Atlantico 11 Settembre 2021
di Fabrizio Borasi
Il drammatico ritiro delle truppe Usa dall’Afghanistan, che per il modo con cui è stato condotto ha rappresentato di per sé uno degli episodi più infelici della recente storia americana, se valutato in una prospettiva di lungo periodo è però significativo perché segna probabilmente la fine di un’epoca, quella dominata dall’ideologia globalista, cioè da quella visione del mondo che considera la storia come un percorso ormai arrivato alla fine e ritiene che l’umanità sia giunta alla soglia di un mondo perfetto dove tutte le differenze culturali e umane tra i popoli sono appiattite, dove gli stati nazionali sono inutili e “sorpassati”, dove gli esperti (da quelli economici, a quelli ambientali a quelli sanitari) si sostituiscono ai governanti nel prescrivere ai cittadini come vivere.
Siccome per fortuna la storia non è finita, conoscerla può essere utile a comprendere meglio la politica estera americana, che da sempre consiste in una sorta di “tira e molla” apparentemente senza logica che oscilla tra isolazionismo e interventismo.
Gli Stati Uniti, nati come nazione anticoloniale e basata sullo stato a potere limitato, hanno da sempre come opzione “di default” l’isolazionismo e la convivenza pacifica con gli altri stati, mentre ogni intervento estero (per quanto ampio e duraturo nel tempo esso sia) deve essere motivato da specifiche ragioni di interesse pubblico, cioè di interesse nazionale, le quali molto spesso consistono nell’affermazione di alcuni dei valori americani all’estero e/o nella protezione degli interessi (nobili e meno nobili) dei cittadini e delle imprese statunitensi.
Durante la Guerra Fredda, l’obiettivo della politica estera americana si era concentrato sulla difesa del mondo libero dall’espansionismo (dalla “spinta propulsiva” si diceva dall’altra parte della barricata) della rivoluzione comunista sovietica.
E per perseguire tale obiettivo fu deciso (sia per motivi materiali che morali) di favorire o addirittura imporre la creazione di regimi liberal democratici laddove fosse possibile, operazione che ebbe successo in Europa occidentale, dove i Paesi sconfitti nella Seconda Guerra Mondiale, prima della parentesi nazifascista, avevano alle spalle una tradizione democratica (sia pure molto più fragile di quella anglosassone), nonché in Giappone, dove le strutture autoritarie create intorno alla fine dell’ottocento vennero anch’esse democratizzate.
Peraltro, in questo periodo, al fine di combattere il totalitarismo comunista gli Stati Uniti appoggiarono, considerandole il male minore, anche dittature più o meno feroci, in Europa, Sud America e Asia, intervenendo anche militarmente in loro difesa. Una politica certo discutibile, ma che si basava sul principio che la democrazia liberale non è esportabile “a forza” ovunque, anche se chi crede in essa non può che augurarsi che tutti i popoli autonomamente la facciano propria.
Con il crollo del comunismo e lo sviluppo della globalizzazione, anche la politica estera americana, pur rimanendo ancorata ai suoi principi tradizionali, fu per molti versi contagiata dalla convinzione che la democrazia liberale potesse essere imposta ovunque. Da Bush padre a Clinton, da Bush figlio ad Obama, dietro gli interventi delle forze armate statunitensi successivi alla fine della Guerra Fredda, compreso quello in Afghanistan (intrapreso per colpire i responsabili degli attentati dell’11 settembre 2001 e distruggere le loro basi) si celava sempre questa convinzione, ritenuta sufficiente a giustificare anche una presenza militare prolungata e molto costosa dal punto di vista economico e soprattutto umano.
I fallimenti evidenti dei tentativi di creare (al di là delle istituzioni formali) dei reali sistemi di democrazia liberale occidentale tramite l’intervento armato, non solo in Afghanistan, ma anche in Iraq, in Libia e negli altri Paesi coinvolti nelle cosiddette “primavere arabe”, hanno portato la politica americana, da sempre basata sul senso empirico e sulla capacità di fare tesoro dei propri errori, ad abbandonare questo obiettivo laddove esso risulti attualmente irraggiungibile, e a limitarsi a tutelare gli interessi americani (“alti” o “bassi” che siano) tramite accordi diplomatici, pressioni economiche ecc.
Come molti hanno sottolineato, da alcuni anni gli Stati Uniti sono diventati sempre più “riluttanti” ad intervenire militarmente all’estero, limitandosi ad azioni anche pesanti dal punto di vista militare, ma limitate e “mirate”: questa è stata la linea portata avanti dal presidente Trump e che il suo successore Biden sostanzialmente ha fatto propria. Che essa non sia il frutto di una situazione di debolezza o di un “declino inarrestabile” lo dimostrano gli eventi degli ultimi periodi della politica estera americana, dal contenimento dell’espansione commerciale cinese, alla “neutralizzazione” per via diplomatica dell’aggressività della Corea del Nord, agli accordi detti “di Abramo” tra alcuni Paesi arabi ed Israele, frutto del patrocinio americano.
Del resto (anche se la storia non si può prevedere con certezza nel suo sviluppo) varie ragioni portano a credere che anche il XXI secolo sarà un secolo ad egemonia americana, e il mondo, per usare l’espressione di uno dei più grandi pensatori degli ultimi decenni, Samuel Huntington, rimarrà un mondo “uni-multipolare”, caratterizzato cioè dalla presenza di una serie di medie potenze capaci di farsi valere in diverse aree del pianeta o in diversi settori economici, ma egemonizzato da un’unica iperpotenza globale, capace di imporre la propria presenza, e spesso anche le proprie decisioni, in tutte le aree del mondo e in tutti i settori economici e finanziari.
Nonostante alcuni rovesci e fallimenti (e in politica estera tale è certamente stato il ritiro dall’Afghanistan), lo fanno credere ragioni demografiche (l’età media negli Stati Uniti è in diminuzione grazie all’immigrazione che funziona), economiche (la produzione americana supera quelle degli altri Paesi per qualità e quantità, e la domanda di beni e servizi degli Stati Uniti rappresenta il centro dell’economia mondiale), tecnologiche (le maggiori innovazioni vengono quasi tutte dagli Usa) e, soprattutto ragioni culturali, dato che le principali università del mondo oggi sono quasi tutte americane.
Se, dunque, come qualcuno ha sottolineato, gli Stati Uniti sono una sorta di “versione di taglia XXL” di quello che fu in passato l’impero britannico, e se si può ritenere che essi non agiranno più in politica estera allo scopo di perseguire gli ideali (e le ideologie) globaliste, ma per difendere e cercare di imporre i propri valori e interessi nazionali in maniera “mirata”, quale può essere il ruolo in questo mondo “uni-multipolare” degli altri Paesi occidentali?
Qui occorre fare una distinzione. Parallelamente alla crisi del mondo globalista si sta ampliando all’interno della civiltà occidentale una spaccatura che ha radici storiche lontane che risalgono alla prima età moderna, quella tra i Paesi anglosassoni e i Paesi europei continentali. Dopo l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea, i britannici sono tornati a rafforzare i legami con le loro grandi ex colonie sparse per il globo, soprattutto con Canada, Australia e Nuova Zelanda (la “Global Britain” di cui ha spesso parlato il premier Johnson), il che sta creando un nuovo blocco politico mondiale, naturalmente affine (per ragioni culturali e storiche) agli Stati Uniti con i quali, pur con tutte le ovvie e inevitabili divergenze sulle singole decisioni che si presenteranno, è destinato sia pure in posizione subordinata a far fronte comune, soprattutto in funzione anticinese.
In prospettiva di più lungo periodo, se nei decenni a venire come molti ritengono sarà l’India la protagonista del prossimo “boom” economico non occidentale, è probabile che anche quella che un tempo era la “perla” della Corona britannica si avvicini o almeno non si contrapponga a questo schieramento. Quanto all’altra metà della civiltà occidentale, quella rappresentata dai Paesi europei continentali (cioè quella che ci interessa direttamente), la situazione è in parte diversa, anche a motivo del prevalere da sempre in essi di un spirito “dogmatico” che fatica a mettere in discussione gli ideali e i principi (spesso ideologici) della politica globalista.
Nei decenni seguiti alla caduta del Muro di Berlino, molti al di qua della Manica hanno nutrito l’illusione di trasformare l’Unione europea in una potenza unitaria, economica prima e politica poi, capace di competere da pari a pari con gli americani ed eventualmente di adottare una posizione sostanzialmente “equidistante” tra gli Stati Uniti e le nuove potenze emergenti, soprattutto la Cina.
I fatti degli ultimi decenni hanno dimostrato che, così come la democrazia in Afghanistan anche l’unificazione economica e politica non si può imporre a tavolino ad un insieme di stati nazionali tra loro molto diversi a livello di organizzazione economica, di gestione finanziaria, di valori politici e culturali, come avviene per i Paesi europei continentali (soprattutto fondamentali si sono rivelate le differenze tra i Paesi nordici e quelli mediterranei, Francia compresa).
In assenza di una struttura statale comune e a monte in assenza di principi economici e culturali comuni, così come l’introduzione dell’euro, lungi dall’aumentare la coesione tra i membri dell’unione monetaria, nel lungo periodo ha creato nuove divisioni, penalizzando il commercio intracomunitario e rafforzando eccessivamente i Paesi nordici (soprattutto la Germania) a scapito di quelli mediterranei (tra cui il nostro), anche la creazione, proposta da alcuni, di un esercito dell’Unione finirebbe probabilmente per rafforzare alcuni stati (prevedibilmente la Francia, la maggior potenza militare tra gli stati dell’Europa continentale occidentale) a scapito di altri, con il pericolo di un “dominio” dei primi sui secondi di tipo quasi “bonapartista”, anche se ovviamente privo della potenza militare e del peso economico e sociale di quello che all’epoca fu l’impero napoleonico.
Inoltre, un eventuale “distacco” dal blocco americano, e da quello “britannico – globale” suo naturale alleato non guiderebbe i Paesi europei come l’Italia verso il mondo perfetto dell’armonia planetaria, ma li getterebbe tra le braccia delle potenze non occidentali, con il rischio di passare da una posizione subordinata ma indipendente nell’ambito di una alleanza delle nazioni liberal-democratiche, a quella di “satelliti” di regimi più o meno totalitari e comunque poco rispettosi dei nostri valori sia culturali che politici.
La tendenza alla riduzione dell’impegno militare estero americano inevitabilmente apre nuovi scenari, ma se considerato nel suo significato di lungo periodo, ci indica anche che il modo migliore di affrontarli per i Paesi europei continentali, compreso il nostro, è probabilmente quello di mettere da parte molti dei “dogmi” globalisti, compresa la pretesa di creare d’autorità l’unificazione dell’Europa centro occidentale, e ritornare a far sì che i singoli stati, ovviamente in un’ottica di collaborazione reciproca, si assumano le responsabilità politiche delle proprie decisioni, secondo i principi della democrazia liberale che dobbiamo tenerci ben stretta, rimanendo in collegamento preferenziale con gli Stati Uniti che, nonostante tutti i loro difetti e i loro errori (anche tragici) in politica estera, la hanno difesa per decenni nel continente europeo e non solo.