Nel 1793, nel periodo di più acceso e aperto anticristianesimo della Rivoluzione francese, la Convenzione trovò più volte il tempo di accanirsi contro le statue di Notre-Dame. Il gesto distruttore permette di comprendere, nella sua intima essenza — che è essenza di odio — la Rivoluzione francese, la quale, a buon diritto, voleva essere, ed è considerata, la Grande Rivoluzione, la Rivoluzione per eccellenza, salto di qualità rispetto alle rivolte del passato e madre feconda di tutte le rivoluzioni a venire.
Marco Tangheroni
In un primo tempo ci si accontentò di far scalpellare, a Bazin, i fioroni delle loro corone: poi, si decise di abbatterle e decapitarle, così come era stato decapitato, dalla «santa ghigliottina», Luigi XVI (1). Abbandonato il progetto — concepito da David, mediocre pittore e infaticabile organizzatore di feste «popolari», giacobino coi giacobini, bonapartista sotto Napoleone —, di utilizzare i frammenti come base per un monumento che trasmettesse «alla posterità il ricordo del trionfo del popolo francese sul despotismo e la superstizione» (2), essi furono venduti come materiale da costruzione. Ebbene, nel 1977, durante i lavori per l’ampliamento della Banca Francese per il Commercio Estero, furono ritrovate, allineate e ordinate «per una volontà di conservazione» (3), ventuno delle ventotto teste, insieme ad altri frammenti scultorei.
Questo materiale è stato esposto, dall’11 aprile al 10 luglio di quest’anno, nei chiostri di santa Maria Novella a Firenze, sotto il titolo: Notre-Dame de Paris. Il ritorno dei re. Ben al di là del puro interesse specialistico, cui in qualche modo si è cercato di ricondurla (4), questa mostra offre lo spunto per alcune brevi considerazioni non prive d’interesse, credo, in ordine, soprattutto, a due temi su cui si è accanita, in modo particolare e non casuale, la nebbia concettuale e linguistica di matrice rivoluzionaria: il Medioevo e la Rivoluzione francese.
Occorre, innanzi tutto, rimarcare che non si trattò di un gesto distruttore privo di grande significato, come si potrebbe credere, se paragonato agli orrori e al sangue di quel terribile periodo. Se cosi fosse, occupandosene, si rischierebbe di far la stessa meschina figura di chi è pronto a levare alte grida per qualche danno al patrimonio storico-artistico o ecologico e poi tace di front; al massacro di centinaia di migliaia di innocenti, uccisi dall’Armata Rossa in Afghanistan o, nel ventre materno, grazie alle leggi repubblicane in Italia.
Ma cosi non è. Il gesto distruttore permette di comprendere, nella sua intima essenza — che è essenza di odio — la Rivoluzione francese, la quale, a buon diritto, voleva essere, ed è considerata, la Grande Rivoluzione, la Rivoluzione per eccellenza, salto di qualità rispetto alle rivolte del passato e madre feconda di tutte le rivoluzioni a venire.
Non fu un gesto casuale. Non fu il frutto di agitazioni popolari; non fu l’effetto di quei tumulti che, per il fatto di essere formalmente anonimi, sembrano quasi non potersi imputare a nessuno: anzi; non essere affatto colpevoli. Fu l’esecuzione di una precisa e burocratica decisione parlamentare (5).
Non fu un gesto isolato. Preceduto nel tempo da qualche azione distruttrice dei protestanti all’epoca delle guerre di religione cinquecentesche, ebbe valore esemplare per i rivoluzionari di tutta la Francia, e in tutta Parigi fu imitato l’esempio di Notre-Dame e in tutta la Francia fu imitato l’esempio di Parigi; e così accadde nelle terre europee raggiunte dalle armate rivoluzionarie e napoleoniche (6). Né mancheranno singolari riprese di quest’abitudine rivoluzionaria anche nell’epoca del Risorgimento italiano (7).
Fu, dunque, un gesto significativo. Esso — riproposto dal ritrovamento e dalla esposizione — ci parla: dobbiamo cercare di intenderlo, almeno nei suoi significati essenziali.
In odio al cattolicesimo e alla regalità
In primo luogo, una tale furia distruttrice è, senza dubbio alcuno, l’espressione di un odio che non conosce limiti. Ma odio di che cosa?
Sono i rivoluzionari stessi a spiegarcelo, con i loro giornali, i loro scritti, i loro discorsi al parlamento o nelle quotidiane assemblee delle società di pensiero. Fu odio per la tradizione nazionale e religiosa della Francia; fu odio per il cattolicesimo, per il sacro, per la regalità.
Si ascolti David, nel suo discorso del 17 brumaio 1793, di cui già ho citato un’espressione. Egli disse, parlando alla tribuna della Convenzione: «Cittadini, voi avete decretato che sarà eretto un monumento per trasmettere alla posterità il ricordo del trionfo del popolo francese sul despotismo e la superstizione. Voi avete approvato l’idea di dare per base a questo monumento il cumulo dei frammenti della doppia tirannia dei re e dei sacerdoti.
Quando vi ho riferito che è stata abbattuta dall’alto della cattedrale, divenuta il tempio della Ragione, questa lunga fila di re di tutte le razze che sembravano ancora regnare sulla Francia, voi avete pensato con il vostro Comitato di istruzione pubblica che questi degni predecessori di Capeto — tutti fino a questo momento sfuggiti alla legge con la quale voi avete colpito la regalità — dovevano subire nella loro effige il giudizio terribile e rivoluzionario della posterità» (8).
Ci si ingannerebbe pensando a un’ingenua confusione tra i re di Francia e i re dell’Antico Testamento; in realtà, veramente, i re di Francia avevano inteso modellarsi sui re biblici. David non si ingannava affatto, nella sostanza. Come è stato felicemente scritto «i re di Giuda-Francia ebbero allora, come il loro ultimo sventurato rampollo, il loro Calvario negli anni più oscuri della Rivoluzione» (9).
Così, non si ingannava affatto Viollet-le-Duc, il grande restauratore dell’Ottocento, quando, sintetizzando le motivazioni dei rivoluzionari, poneva in bocca al protagonista di un suo romanzo — sulla base di quelle che furono, realmente, le tesi allora sostenute — queste affermazioni: «Non dobbiamo lasciare allo sguardo del popolo, ormai liberato dalla tirannia e dalla superstizione, gli emblemi che gli ricordano la schiavitù sotto la quale ha tanto a lungo gemuto […]. Il popolo intende sfigurare tutto ciò che gli rammenta un passato esecrabile, e vuole che i suoi figli si trovino dinnanzi soltanto oggetti degni di formare l’anima dei repubblicani. Finché resteranno in piedi un castello e una chiesa, i nobili e i preti avranno la speranza di riprendere il possesso di questi covi dell’oppressione. Finché resterà un’immagine dei re di prima, o dei santi di prima, resterà una traccia della loro infame dominazione […]. La nazione deve dimenticare i re e i preti, questa vergogna dell’umanità […]» (10).
Erano quelli i giorni dell’autunno del 1793 in cui l’essenza anticristiana della Rivoluzione si mostrava nelle sue forme più estreme: viene modificato il calendario; a Parigi e in provincia si succedono le feste più varie e più laiche; vengono proibite le cerimonie religiose pubbliche: funerali e cimiteri sono laicizzati; cerimonie empie e processioni carnevalesche sono incoraggiate; finalmente, il 24 ottobre, la Comune di Parigi decide la chiusura delle chiese. Fouché — un ex-frate, che sarà poi ministro di polizia di Napoleone — inaugura a Nevers, il 22 settembre, la moda del culto di Bruto.
A Parigi, per festeggiare la rinuncia del vescovo Gobel e dei suoi vicari a ogni funzione (11), viene celebrata, in Notre-Dame, la festa della Ragione, impersonata da una mima, mademoiselle Maillard (12).
In questo senso possiamo ben dire che, nonostante tutto il suo gran parlare di nazione, la Rivoluzione francese fu profondamente ed essenzialmente antinazionale, in quanto avversaria, non contingente, non casuale, delle realtà, cioè la Chiesa cattolica e la monarchia, che avevano dato vita alla nazione francese.
In odio al passato in quanto tale
Se l’odio verso la regalità e la Chiesa cattolica appaiono tratti abbastanza scontati della Rivoluzione francese, tanto che è stato sufficiente richiamarli senza moltiplicare le citazioni e gli esempi, ci si può, però, spingere oltre. La Rivoluzione non odia soltanto un determinato e concreto passato, ma odia tutto il passato, cioè la memoria storica dei popoli. Si potrebbe, anzi, dire che parte dell’odio che colpisce la Chiesa e la monarchia nasce proprio dal fatto che queste due realtà sono strettamente radicate nella storia.
La distruzione delle memorie visibili del passato nasce dall’assurdo e tragico desiderio di far tabula rasa; e ne è, insieme, un concreto esempio. Si tratta di un desiderio assolutamente coessenziale all’utopismo rivoluzionario che, tendendo alla creazione di un mondo nuovo e di un uomo nuovo, deve necessariamente tentare di partire da zero.
Come è stato molto di recente nuovamente sottolineato da François Furet (13), tanto i rivoluzionari dell’epoca, quanto gli storici che appartengono alla tradizione giacobina (che si è colorata nel nostro secolo di marxismo) videro, hanno visto e seguitano a vedere nella Rivoluzione francese «un avvento, come un tempo di un’altra natura, omogeneo come un tessuto nuovo» (14). Il concetto d’inizio della storia, è, dunque, una delle chiavi di lettura fondamentali del periodo, ed è significativo che esso ritorni largamente nella letteratura della e sulla rivoluzione comunista.
Si dirà che una storiografia più serena può cogliere sia le radici secolari dell’esplosione apparentemente improvvisa (15), sia il lavoro di preparazione compiuto nei decenni immediatamente precedenti (16). Si dirà, anche, che in fondo siamo di fronte a miti più che a realtà; e certamente l’eterogenesi dei miti rispetto alle realizzazioni è una delle costanti che la «sociologia della rivoluzione» può individuare (17). Ma il punto è proprio questo: i miti non sono un aspetto accessorio e trascurabile della Rivoluzione; ne costituiscono, invece, una forza trainante e caratterizzante (18).
La distruzione deliberata — nel senso letterale del termine — e sistematica delle vestigia del passato appare, allora, un fatto significante in modo pieno l’essenza del fenomeno storico. D’altronde, non fu un aspetto isolato.
Basti ricordare, per esempio, la creazione del nuovo calendario: soppresse le domeniche, mutati i nomi dei mesi, iniziato ex novo, dal 1792, il computo degli anni. Una tessera di elettore alla Convenzione reca questa data interessante: «anno 4° della libertà, 1° dell’uguaglianza» (19). Perché è l’uguaglianza degli uomini — non in dignità, ma come oggetti della manipolazione — a costituire insieme il fine principale perseguito e la base solennemente proclamata del regno dell’opinione, del trionfo della «democrazia» diretta di stampo rousseuiano, della vittoria del giacobinismo (20).
Il 10 giugno 1793, in ricordo della giornata rivoluzionaria dell’anno precedente, si tenne in Parigi una grande festa in piazza della Rivoluzione, nel corso della quale, secondo i pomposi e squallidi rituali delle feste rivoluzionarie, furono bruciati davanti alla statua della libertà gli emblemi della tirannide (21). È interessante ricordare il nome di questa festa: «festa della rigenerazione»; e «fontana della rigenerazione» fu chiamata quella innalzata, in stile egizio, sulle rovine della Bastiglia (22).
Le città colpevoli di essersi opposte alla Rivoluzione e le popolazioni sollevatesi devono scomparire, fisicamente e nel ricordo. E «Tutto ciò che resiste e non vuole entrare nella macina repubblicana è condannato a scomparire» (23). Si pensa alla deportazione in massa della eroica popolazione vandeana (24); ancora nella fase termidoriana, o di assestamento, si ricorrerà alla deportazione di centinaia di preti (25).
Tolone fu rasa al suolo. Per Lione la Convenzione emise solennemente un decreto che, oltre a incitare la strage di migliaia di abitanti, stabiliva: «(art. 3) la città di Lione sarà distrutta […]; (art. 4) il nome di Lione scomparirà […] l’insieme delle case conservate avrà il nome di ville affranchie […]; (art. 5) sarà innalzata sulle rovine di Lione una colonna […] con quest’iscrizione: Lione fece la guerra alla libertà, Lione non esiste più» (26).
D’altra parte, è da ricordare che, proprio nel periodo della Rivoluzione francese e nell’immediata vigilia, si manifestarono, come è stato magistralmente rilevato (27), quei tratti specifici della rivoluzione dell’arte moderna che presuppongono un’analoga, totale, rottura col passato: l’aspirazione alla purezza, il riconoscimento del dominio della ragione geometrica e tecnica, l’esaltazione sfrenata della libertà.
È proprio vero ciò che scriveva già nel 1790, nelle sue Riflessioni sulla Rivoluzione francese, uno tra i più pronti osservatori di ciò che accadeva, Edmund Burke: «[…] avete preferito agire come se non aveste mai conosciuto la società civile, come se doveste ricominciare tutto dai primi elementi» (28).
«Rigenerazione» e Terrore
L’idea di una incontaminata nascita della storia è comune ai rivoluzionari francesi del secolo XVIII e a quelli russi del 1917. Di più: essa è comune agli storici e agli interpreti delle due rivoluzioni. Certo, si è poi in qualche modo costretti a riconoscere che ci si è molto allontanati — e presto! — dalla purezza delle origini, ma il momento magico iniziale viene salvaguardato: si parla, allora, di «rivoluzione tradita», e poco importa che i tradimenti costituiscano, sulla base di una secolare esperienza storica, una regola che non conosce eccezioni, mentre ha conosciuto decine di verifiche sperimentali.
Ma, di fronte alla continua riproposizione di un modello mitico-utopico, l’insegnamento della storia non può avere, evidentemente, nessuna pretesa che non sia quella di costituire un richiamo alla realtà che tematicamente è rifiutata.
Bisogna, invece, ribadire che proprio l’idea di una rigenerazione storica dell’umanità contiene il germe del processo che inevitabilmente termina nel Terrore. Molto pertinentemente François Furet ha osservato: «[…] Il fenomeno staliniano si è radicato in una tradizione giacobina semplicemente spostata (riproiettando sul fenomeno sovietico il duplice concetto di inizio della storia e di nazione-pilota) […] per un lungo periodo ancora ben lontano dall’essersi concluso la nozione di deviazione rispetto a una origine incontaminata ha consentito di salvare il valore supremo dell’idea di Rivoluzione. Questa duplice difesa ha cominciato a vacillare in primo luogo perché, diventando il riferimento storico fondamentale dell’esperienza sovietica, l’opera di Solženitzyn ha posto ovunque il problema del Gulag al centro del disegno rivoluzionario, ed è quindi inevitabile che l’esempio russo rimbalzi, come un boomerang, a colpire la propria “origine” francese» (29).
Nella documentazione relativa al Terrore francese ritornano continuamente parole come «purgare», «purificare». Secondo Robespierre — il «puro» della mitologia storiografica rivoluzionaria — occorreva assolutamente far scomparire «l’orda impura» degli «uomini perversi e corruttori» (30).
Ha scritto Bonald: «Il potere, una volta allontanatosi dal suo principio, che è l’unità, ha una tendenza irresistibile a ripartirsi tra tutti i membri della società: e, una volta pervenuto al punto estremo della sua divisione, a ritornare al suo principio; ciò significa che, allorché non esiste più un potere generale nella società, ogni membro della società tende ad esercitare il suo potere particolare». Ma il processo non può arrestarsi; un potere generale tende a ricostituirsi. «Ma qual potere, gran Dio! quale Costituzione! Ha un potere unico e generale, la morte… Ha un rappresentante, lo strumento dei supplizi; questo monarca ha i suoi ministri, e sono i carnefici; ha i suoi sudditi, e sono le sue vittime. Niente di simile era ancora apparso sulla terra» (31).
È l’inesorabile fine totalitaria del liberalismo anticristiano, a commento della quale mi permetto di fare un’ulteriore citazione, di Augustin Cochin: «Il popolo, servo sotto il re nel 1789, libero con la legge nel 1791, diventa padrone nel 1793 e, giacché è lui che governa, sopprime le libertà pubbliche che erano solo delle garanzie a suo favore contro coloro che governavano. Sono sospesi il diritto di voto perché è il popolo che regna; il diritto di difesa, perché è il popolo che giudica: la libertà di stampa, perché è il popolo che scrive: la libertà di opinione, perché è il popolo che parla; limpida dottrina di cui i proclami e le leggi del Terrore sono soltanto un lungo commentario» (32).
Poiché chi tenta di realizzare il progetto utopico-rivoluzionario non può riconoscere «ostacoli obbiettivi, ma solo avversari» (33), la ghigliottina diviene lo strumento che separa i buoni dai cattivi, i rigenerati o rigenerabili dai non rieducabili, gli amici del popolo dai traditori. Di qui l’inevitabile invenzione del complotto, anzi dei complotti in rapida successione. Come ha commentato de Viguerie, «i complotti contro il popolo sono comodi; è più facile ghigliottinare un nemico del popolo che un nemico di Robespierre o un avversario della nuova filosofia» (34).
Ed ecco che anche le statue dei re, sicuramente non rieducabili, sono degne della ghigliottina!
Perché la cattedrale?
Un’ultima domanda. Perché tanto odio proprio contro le cattedrali? Certo, in primo luogo perché sono il centro di quel culto cristiano che è sentito come potentissimo ostacolo alla Rivoluzione. Ma ci si può forse spingere oltre. La cattedrale è anche il segno dell’unità perduta del corpo sociale intorno alla Verità cristiana e alle istituzioni cristiane.
Opportunamente uno dei testi della mostra fiorentina — non riportato nel catalogo — così chiariva cos’era e cosa rappresentava un cantiere per la costruzione di una cattedrale come Notre-Dame: «La realizzazione di una struttura architettonicamente complessa qual’era la Cattedrale presupponeva l’esistenza di una organizzazione altamente specializzata: il cantiere gotico. Centinaia di operai e decine di artigiani-artisti cooperano in stretta unità di intenti, sotto la direzione del potere politico o religioso di cui i capomastri o gli architetti, laici o ecclesiastici che fossero, erano l’espressione più diretta. Manovali, muratori, carpentieri, fabbri, scalpellini, intagliatori di legname, maestri vetrai, scultori, orefici, pittori, tessitori e cosi via offrivano un paradigma di quel sistema corporativo e gerarchico che caratterizzava l’intera struttura della civiltà del Medio Evo, in cui si integravano armonicamente precisi vincoli religiosi e sociali e una innegabile libertà individuale» (35).
Ma, per non fare ingiustizie nei confronti del romanico, mi pare opportuno riportare anche le conclusioni cui è arrivato Sanpaolesi studiando il duomo di Pisa: «Nella formazione di un edificio di grande complessità come è la cattedrale di Pisa si attua la fusione e l’avvicinamento di tutte quelle attività umane che vi partecipano […]. Un’occasione di tanto prestigio consente che le distanze si riducano e che le diverse attività si confrontino più apertamente e direttamente tra loro. Qui una intera civiltà ha collaborato, senza esclusione di gruppi e di classi, a dar vita ad una testimonianza collettiva, seppur differenziata, del grado altissimo di se stessa, testimonianza che per esser compiuta e totale non poteva essere che un’architettura, dove dall’ideazione concettuale eppoi da quella formale si passa alla predisposizione dei mezzi legislativi e finanziarii, alla scelta dei capi, alla traduzione pratica che impegna tutte le attività cittadine. L’ideatore e lo sterratore, il contabile ed il marinaio, lo scalpellino ed il fabbro, il vescovo e l’architetto si confrontano senza schemi cerimoniali» (36).
La verità è che Notre-Dame era «la metafora splendida di una società articolata e vitale, in cui monarchia, nobiltà feudale, clero, borghesia artigiana e mercantile stavano realizzando un corpo, una struttura statuale armoniosa» (37).
Specchio di una società, ma anche specchio di una concezione ordinata e armoniosa del mondo. «Ecco perché, forse, ogni tentativo di inserire la facciata di Notre-Dame in un rigido schema geometrico, ad circulum o ad quadratum che fosse, è miseramente fallito: l’equilibrio dorato delle sue proporzioni è celato non in qualche pitagorica sezione aurea, ma nel nuovo senso dell’armonia dell’universo che la coeva filosofia medievale veniva scoprendo, di un tutto in cui le leggi armoniche non sono che velate, allegoriche manifestazioni della compiutezza dell’Essere, e che si rifletteva in questa freschissima geometria, per così dire intuita di slancio» (38).
Ecco: l’odio per l’ordine della società e per l’ordine del creato spiegano l’odio decapitatore e demolitore della Rivoluzione.
Caso o Provvidenza?
Si è parlato, a proposito dei recenti ritrovamenti, di un fortunato caso. Ora, per quanto si possa essere coscienti che è temerario cercare di decifrare i disegni della Provvidenza — che, come dice un proverbio portoghese, scrive diritto per linee storte —, la speranza ci è consentita.
È vero, certo, il commento di chi ha notato che «Resta, comunque, un amaro insegnamento. Come più tardi avrebbe fatto la “rivoluzione culturale” cinese distruggendo sistematicamente in Tibet i simboli e le memorie del culto buddista senza arretrare neppure dinanzi al loro valore artistico […] gli uomini del 1793 avviarono, con l’irragionevole barbarie della “Ragione”, un discorso culturale e politico di radicale importanza. Questo discorso, anche se ormai ha imparato a vestir panni civili, continua oggi: l’Occidente non è mai riuscito a liberarsene. Andate quindi a visitare l’esposizione dei re, e prendete atto dell’innominabile orrore che sta alla sua radice. Il ventre che l’ha partorito è ancora fecondo» (39).
E, tuttavia, la speranza è lecita. Cioè: che il ritorno dei re sia non un caso legato alla espansione di una banca, ma il presagio provvidenziale di una restaurazione cristiana.
Note
(1) Cfr. Alain Erlande-Brandenburg, Le sculture di Notre-Dame di Parigi, in Notre-Dame de Paris. Il ritorno dei re, Vallecchi, Firenze 1980, in particolare p. 26.