Radici Cristiane n. 122 Marzo 2017
Aleksandr Fëdorovič Kerenskij fu l’uomo, di cui si servì la rivoluzione bolscevica, per eliminare lo Zar ed imporre la dittatura comunista. Era considerato un “moderato”, a riprova di come nella Storia non vi sia vittoria degli estremisti senza i cedimenti e le complicità dei moderati. Quando non fu più di alcuna utilità, ci si sbarazzò immediatamente di lui.
di Roberto de Mattei
Tra le date simboliche della storia mondiale, il 1917 occupa, per molte ragioni, un posto di rilievo. Con la Rivoluzione di Ottobre, la tesi di Marx, secondo cui il compito dei filosofi non era quello di conoscere il mondo, ma di trasformarlo, trovò la sua realizzazione in Lenin. Ma con i nomi di Marx, il profeta, e di Lenin, il rivoluzionario, il 1917 ne ha consegnato alla storia un altro: quello di Aleksandr Fëdorovič Kerenskij, l’uomo che, tra il febbraio e l’ottobre del 1917, aprì ai bolscevichi la strada del potere.
A cent’anni di distanza la Rivoluzione del febbraio-marzo 1917, che precedette quella di Ottobre e che ebbe in Kerenskij il suo protagonista, non va dimenticata, perché ci insegna come nella storia non c’è vittoria degli estremisti senza i cedimenti e le complicità dei moderati.
In Russia, l’inverno del 1917, il terzo di guerra, era stato eccezionalmente duro. Il freddo aveva raggiunto punte di quaranta gradi sotto zero, bloccando il traffico ferroviario verso la capitale, che dal 1914 aveva mutato il nome di San Pietroburgo, considerato troppo germanico, in quello di Pietrogrado. Le trincee traboccavano di cadaveri e le agitazioni si propagavano nel Paese. Lo Zar Nicola II seguiva gli eventi dal suo quartier generale di Mohilev, sul Dniepr, mentre la famiglia imperiale era riunita nella sontuosa residenza di Tsarkoe Selo, a 27 chilometri da Pietrogrado. Il 23 febbraio fu proclamato lo sciopero generale. Il 26 il reggimento Volynia aprì il fuoco sui dimostranti ammassati sulla Prospettiva Nevski.
Dalla sommossa alla Rivoluzione
Nicola quella sera annotò sul suo diario: «Ci sono stati disordini a Pietrogrado durante questi ultimi giorni e, con mia grande angustia, le truppe vi hanno partecipato». Quando il 27 febbraio, la sede della Duma fu occupata da soldati e da operai armati, le sommosse divennero Rivoluzione. La sera si riunì il primo Soviet di Pietrogrado, mentre anche a Mosca divampava l’insurrezione. Il giorno successivo lo Zar decise di lasciare Mohilev e di raggiungere la capitale, ma il treno imperiale fu bloccato dai rivoltosi e dirottato verso la città di Pskov nella Russia Bianca.
Aleksandr Kerenskij, giovane leader socialista della Duma, appoggiato dagli influenti circoli massonici del Paese, si pose abilmente alla testa del movimento. Il mattino del 2 marzo fu costituito un governo provvisorio, che inviò a Pskov due parlamentari per negoziare con lo Zar. Nicola dichiarò di non riuscire a concepire la posizione di un monarca costituzionale, che regna ma non governa. Egli preferiva l’abdicazione a quello che considerava il tradimento del proprio dovere di sovrano.
Decise dunque di rinunziare al trono per sé e per il figlio Alessio, gravemente malato, affidando la successione al fratello Michele, senza immaginare che questi avrebbe abdicato a sua volta, consegnando il potere nelle mani della Repubblica. Quello stesso giorno, infatti, un gruppo di emissari della Duma, tra i quali Kerenskij, convinsero il granduca Michele, che, se avesse accettato il trono, avrebbe regnato soltanto poche ore, sufficienti per scatenare una guerra civile in cui egli sarebbe stato ucciso con tutti i suoi partigiani.
Quando Michele si arrese alle pressioni, Kerenskij balzò in piedi e si precipitò verso di lui dichiarando: «Altezza, lei è un animo nobile» (il che, ricorda lo storico George Katkov, non impedì, quattro mesi dopo, che lo stesso Kerenskij ordinasse l’arresto del granduca). La rinunzia al trono di Michele di Russia suggellò la fine della monarchia. Lo Zar per ordine del Soviet di Pietrogrado venne trasferito a Tsarkoe Selo e il 13 agosto 1917 deportato con tutta la famiglia imperiale in Siberia. Mancò di energia, ma non di una dignitosa rassegnazione, che caratterizzò gli ultimi mesi della sua vita fino al massacro di Ekaterinburg, il 7 luglio 1918.
Lenin al potere
La Francia e l’Inghilterra salutarono con soddisfazione la caduta dell’autocrate russo con una incomprensione degli avvenimenti non minore di quella dei Paesi della Triplice Alleanza. Fu grazie all’appoggio della Germania, infatti, che Lenin tornò in patria, sul celebre “vagone piombato”, e da Pietrogrado, il giorno seguente al suo arrivo, il 4 aprile 1917, reclamò «tutto il potere ai Soviet».
Il primo ordine del giorno del nuovo governo, diretto al presidio militare di Pietrogrado, disponeva che fossero creati “soviet” in tutte le unità dell’esercito e della marina. Si trattava dell’inizio del disfacimento delle forze armate. Un secondo decreto proclamava l’amnistia generale, spalancando le porte delle prigioni ad agitatori politici e detenuti comuni. Il terzo provvedimento, il 14 aprile, introduceva una riforma agraria che prevedeva la confisca di tutte le proprietà terriere eccedenti un certo numero di ettari. La situazione al fronte intanto precipitava, malgrado i proclami incendiari di Kerenskij, che dopo essere divenuto ministro della guerra, assunse in luglio la guida del governo.
Le potenze occidentali lo consideravano un socialista moderato, che avrebbe potuto arrestare il corso della Rivoluzione, ma Kerenskij, come tutti i progressisti, odiava i conservatori più dei rivoluzionari. Quando nel settembre 1917, il generale Kornilov, comandante delle forze armate, preparò un piano di azione per rovesciare Lenin, il tentativo fallì, perché Kerenskijsi appellò ai bolscevichi, armandoli e incitandoli contro il comune nemico controrivoluzionario.
La fuga di Kerenskij
Grazie alla disfatta di Kornilov, il movimento bolscevico si rafforzò in tutta la Russia e a partire dai primi di ottobre si preparò ad eliminare Kerenskij, che aveva ormai svolto il suo ruolo di battistrada. Kerenskij si accorse di essere solo: aveva liquidato tutte le forze che avrebbero potuto resistere ai bolscevichi e ormai non poteva contare che sugli allievi delle scuole militari di Pietrogrado e su qualche battaglione di donne che, in un accesso di esaltazione patriottica, avevano indossato l’uniforme. Quando la sera del 24 ottobre Lenin prese il potere, Kerenskij fuggì da Pietrogrado, mentre tutti i suoi ministri furono arrestati. Il potere passò alla Repubblica dei Soviet.
Uno dei più attenti osservatori e seguaci della Rivoluzione russa, Antonio Gramsci, criticò Lenin per aver conquistato il potere con un colpo di Stato, senza aver preliminarmente guadagnato a sé la società civile. In Italia, Gramsci riteneva necessaria la collaborazione dei cattolici, che, negli anni Venti, si erano raccolti nelle fila del nascente Partito Popolare. «I popolari – scrisse nella rivista L’Ordine Nuovo – rappresentano una fase necessaria del processo di sviluppo del proletariato italiano verso il comunismo. Il cattolicesimo democratico fa ciò che il comunismo non potrebbe: amalgama, ordina, vivifica e si suicida. I popolari stanno ai socialisti come Kerenskij a Lenin».
Negli anni Settanta del Novecento, in un best-seller dell’America Latina, Fabio Vidigal Xavier da Silveira definì Eduardo Frei, l’uomo politico democristiano che precedette Salvador Allende, come «il Kerenskij cileno». Nel 1996, il Centro Culturale Lepanto, in un manifesto pubblicato all’indomani della vittoria elettorale della sinistra, denominò Romano Prodi come «il Kerenski italiano».
Il vero Kerenskij, quello nato a Simbirsk, in Russia, nel 1881, era morto a New York il 2 maggio del 1970, tentando di accreditare fino all’ultimo la leggenda secondo cui esiste una «Rivoluzione buona» da contrapporre ad una «Rivoluzione cattiva». La storia lo aveva smentito e continua a dargli torto.