La secolarizzazione del sacro, tipica del post-Concilio Vaticano II, non si è fermata all’esterno delle chiese ma è entrata all’interno. Si è tentato di rendere la liturgia una imitazione del profano, con il chiasso, la materialità e la distrazione di cui esso è carico. Ma il Magistero ha sempre parlato chiaro…
don Nicola Bux
Un sintomo grave: il sacro non c’è più, forse molti non sanno che cosa sia, mentre il mondano, termine più comprensibile di profano, la fa da padrone anche in un luogo come la chiesa. Ci accorgiamo di colpo del sacro quando per entrare in una moschea o in un tempio buddista o in una sinagoga ebraica ci viene chiesto di toglierci le scarpe o di inchinarci a mani giunte o di coprirci il capo.
Un po’ spaesati lo facciamo, forse ritorniamo ad avvertire quel senso innato di timore misto a stupore che affiora di fronte a qualcosa di insolito, di arcano, di più grande di noi: il sacro. Poi, ci interroghiamo: come mai nelle chiese le suore e i preti per primi non osservano il silenzio, anzi parlano ad alta voce, esigono che non ci si debba inginocchiare e inchinare perché gesti servili indegni dell’uomo? Qualcosa non va.
Nel frattempo, nuove liturgie sono sorte che consacrano il profano come una volta; certo, non si tratta delle adunate oceaniche del periodo nazista a Berlino in cui si inneggiava a! mito del sole roteante, né delle sfilate sulla piazza Rossa di Mosca per rendere culto alle personalità di turno del regime; oggi ci sono le fiaccolate, le marce e i cortei, novelle processioni secolari; non sono più le immagini sacre o il Santissimo Sacramento a essere ostentati, ma bandiere, cartelli e nuovi simboli teosofici.
Un tempo le fiaccole accompagnavano le immagini sacre, oggi affiancano le nuove religioni. A questo è giunta la secolarizzazione del sacro, che non si è fermala all’esterno del tempio ma vi è entrata, tentando di rendere la liturgia una imitazione del profano, carica di tutto il chiasso, di tutta la materialità, di tutta la distrazione di cui è carico il profano.
Profano da pro-fanum, davanti o fuori del tempio. Profanità vuoi dire spazio di lontananza da Dio che, invece, vive nel “sacro” e nel “santo”, che è necessario perché sia rispettata l’autonomia della creatura. L’essere umano deve poter vivere fuori del fanum, perché possa decidere liberamente di entrare nel tempio una volta capita la differenza e avvertita l’esigenza di incontrare colui che è all’origine di sé. Se il profano fosse anche sacro, avrebbero ragione i cultori del diavolo che invertono i segni sacri del culto cristiano per consacrare quanto è male e peccato.
Il peccato rovina la creatura, deturpa il profano e profana il sacro, ferisce la realtà creata nella sua autonomia oltre che nella sua dipendenza. Ecco perché deve intervenire il Salvatore a restaurare l’autonomia della realtà creata estirpando, guarendo il peccato. La salvezza non viene a consacrare la profanità, che è già in se stessa lo spazio dentro cui si gioca il valore sacro della libertà dell’essere umano, ma viene a restaurare e ad elevare il naturale, la realtà creata. Si dovrebbe gioire e gustare il mondo, non solamente usarlo. La guarigione dal peccato permette di gioire del mondo, di saper godere della realtà eliminando ciò che può guastarla. La liturgia è lo spazio in cui tutto questo entra continuamente in gioco.
Nella liturgia l’uomo disorientato dal peccato riceve la salvezza e uscendone redento è capace di incidere sulla realtà del mondo con l’energia che ha ricevuto. Così il profano viene orientato al sacro. Proprio perché il visibile è presupposto della liturgia, la realtà profana è davanti al sacro, la natura alla sopranatura che a sua volta tende continuamente a ridare significato e a trasformare la natura. Questo ha donato l’incarnazione del Verbo.
È questa, dice Mircea Eliade, la ierofania suprema, per un cristiano (Cfr Le sacre et le profane, Paris 1965, p5). Con l’ingresso del Verbo nella storia, la storia diventa una teofania. Ancora Eliade sottolinea la novità assoluta dell’incarnazione quando dice che: “è stata una grande rivoluzione religiosa; troppo grande perché possa essere assimilata in duemila anni di vita cristiana» (Mythes, réves et mysféres, Paris 1957, p 254). Il profano desacralizzato col peccato riceve la sacralizzazione con l’esperienza salvifica.
La liturgia risacralizza, risignifica, appunto consacra. Nei sacramenti si prende una realtà profana, naturale: il pane, il vino, l’olio, l’acqua, l’amore, la sofferenza e la si consacra attraverso la speciale preghiera. Si rende sacra la realtà profana, la quale già è orientata. è davanti al fanum, semplicemente si destina questa realtà – come per l’offerta o anafora della Messa – al fine per cui è stata creata. Il rapporto tra sacro e profano, prima dialettico, diventa dialogico, ma tra loro restano distinti. Il profano è il sacro in potenza, che attende di attuarsi. La realtà del mondo è profana, attende la salvezza di Cristo.
Ai tempi del Concilio Vaticano II c’era chi proponeva l’eliminazione del sacro sostenendo che tutto è sacro; così si è causata la polarizzazione ormai evidente: da un lato, un eccessivo impegno nel mondo, l’attivismo e il secolarismo che hanno portato alla riduzione del sacro a profano e, all’opposto, lo spiritualismo, con la fuga dal profano nel sacro.
Invece, come è diventato evidente ai nostri tempi, la distinzione tra sacra e profano è irrinunciabile. Il teologo ortodosso Pavel Evdokimov ha osservato: «Dall’unica sorgente divina: “siate santi come io sono santo”, discende tutta una graduatoria di consacrazione o di cose sacre per partecipazione. Esse operano una deprofanizzazione una rivolgarizzazione nell’essere stesso di questo mondo.
Tale azione di penetrare nel mondo è propria dei sacramenti e degli atti sacramentali, i quali insegnano che, nella vita cristiana, tutto è sacramento o sacro in potenza, poiché tutto è destinato al suo compimento liturgico, alla sua partecipazione al Mistero» (L’Ortodossia, Bologna 1965, p. 291).
Al centro di questo movimento c’è l’Eucaristia. Perciò la Chiesa, in Oriente e in Occidente, ha posto sempre al centro l’altare con l’artoforio o ciborio o tabernacolo del SS. Sacramento. Chi ai nostri giorni lo ha rimosso per mettere al suo posto la sede del sacerdote, e lo ha relegato in ambiente separato dalla chiesa sino a renderlo introvabile, dovrebbe confrontarsi con quanto ha scritto il primo documento esecutivo della riforma liturgica del Vaticano II: «La SS Eucaristia si custodisca in un tabernacolo solido e inviolabile posto in mezzo all’altare maggiore o ad uno minore, ma che sia davvero nobile, oppure, secondo le legittime consuetudini e in casi particolari da approvarsi dall’Ordinario del luogo, anche in altra parte della Chiesa davvero molto nobile e debitamente ornata. È lecito celebrare la messa rivolti verso il popolo anche in un altare sul quale ci sia il tabernacolo, di piccole dimensioni, ma conveniente»’ (Istruzione per l’esatta applicazione della Sacra liturgia Inter Oecumenici, 26 settembre 1964 n.95)
Paolo VI tornava a ribadirlo nell’Enciclica Mysterium Fidei: «Durante il giorno i fedeli non omettano di far la visita al santissimo Sacramento, che deve essere custodito in luogo distintissimo, col massimo onore nelle chiese, secondo le leggi liturgiche, perché la visita è prova di gratitudine, segno d’amore e debito di riconoscenza a Cristo Signore là presente» (3 settembre 1965).
Benedetto XVI ha riaffermato la centralità del tabernacolo nell’Esortazione apostolica post-sinodale Sacramentum caritatis: «La sua corretta posizione, infatti, aiuta a riconoscere la presenza reale di Cristo nel Santissimo Sacramento» (n. 69).
La sua tenda o tabernacolo custodisce il mistero del suo corpo e del suo sangue, la sua Presenza. È coscienza raggiunta dalla Chiesa che il Mistero è sempre presente perché viene prima di ogni altra cosa: sono io che devo farmi presente a lui con l’adorazione; è la sua presenza permanente a ridestare continuamente la mia fede. Cristo è venuto nel mondo per stare con noi tutti giorni. E il Sacro, anzi il Santissimo permane tra noi.
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«La liturgia è sacra perché scende dall’alto, da Dio che è nei cieli, perciò è “II cielo sulla terra”». (Nicola Bux, La riforma di Benedetto XVI. La liturgia tra innovazione e tradizione, Piemme, 2008