Voci per un dizionario del pensiero forte
di Francesco Pappalardo
Il termine “sanfedismo” designa la reazione armata delle popolazioni dell’Italia Meridionale, organizzate nell’esercito della Santa Fede, contro la Repubblica Napoletana del 1799. Il vocabolo ha acquistato nel tempo anche un significato ideologico ed è usato per indicare, in senso spregiativo, non soltanto l’opposizione armata a una rivoluzione ispirata a quella detta francese e l’insorgenza contro i poteri da essa instaurati, ma anche qualsiasi forma di ideologia “reazionaria” e “clericale”.
In questo senso il termine è stato adoperato dalla storiografia liberal-progressista prima e da quella marxista poi, cui venivano meno gli abituali schemi interpretativi di fronte all’imbarazzante paradosso di un’energica resistenza popolare opposta proprio a quelle armate, giacobine e napoleoniche, che pretendevano di agire per il bene del popolo.
Gli storici liberali, rappresentati innanzitutto da Vincenzo Cuoco (1770-1823) e da Pietro Colletta (1775-1831), testimoni diretti degli avvenimenti del 1799, tendono a spiegare il fallimento della Repubblica Napoletana come conseguenza di una rivoluzione accettata “passivamente” e frutto di errori e di circostanze avverse, così da salvaguardare il ruolo dirigente dell'”intellettuale” e il suo diritto a ergersi come rappresentante della nazione. Anche Benedetto Croce (1866-1952) riduce in larga misura la storia del Mezzogiorno d’Italia a quella del suo ceto intellettuale e giunge, nella sua Storia del regno di Napoli, a idealizzare i giacobini come nuova aristocrazia, “quella reale, dell’intelletto e dell’animo”.
Antonio Gramsci (1891-1937), che utilizza lo stesso procedimento logico, si rammarica dell’assenza “momentanea” di un’avanguardia intellettuale, cioè di un partito leninista non ancora fondato, e propone un’interpretazione delle insorgenze in chiave di lotta di classe fra borghesia e contadini. Questa impostazione vorrebbe accreditare l’idea di una conflittualità sociale molto diffusa in tutta la penisola, che abbia sempre gli stessi caratteri in presenza di popolazioni differenti, rette da istituzioni diverse, situate in contesti geoeconomici non uniformi e con le tradizioni più varie.
Una spiegazione insufficiente è offerta anche dalla storiografia nazionalistica, che ha avuto corso fra le due guerre mondiali e che vede nelle insorgenze soltanto preziose affermazioni di valori nazionali e, quindi, una reazione allo straniero invasore e non ai princìpi rivoluzionari, i quali – essa sostiene – avrebbero ricevuto migliore accoglienza se presentati in altro modo e in altra circostanza.
La matrice religiosa delle insorgenze risulta così sbiadita e la resistenza armata di interi popoli, che in Italia e in Europa si batterono in difesa della loro fede e delle loro tradizioni, è ancor oggi ignorata da molti o ricordata con disprezzo: “[…] tutto questo che è dignità, fierezza, spirito di sacrificio – scrive Niccolò Rodolico (1873-1969), autore di orientamento liberale – è stato considerato, specialmente per l’Italia meridionale, fanatismo e brigantaggio”.
Queste considerazioni valgono in particolare per l’insorgenza meridionale che, rispetto ad altre simili vicende italiche, può essere assunta come modello per l’ampiezza del fenomeno, per la minore frammentarietà delle vicende e per la presenza di un nucleo dirigente che, per quanto piccolo, seppe coordinare la generosa reazione popolare.
Infatti, nel 1799, i “lazzari”, cioè il popolo minuto di Napoli, e i contadini delle province si rivelano ben lungi dall’essere una massa amorfa, avvezza a passare con facile rassegnazione da un padrone all’altro, e le loro gesta vanno a costituire l’epopea della Santa Fede, che ebbe nell’eroico card. Fabrizio Ruffo dei duchi di Branello (1744-1827) il suo condottiero e in sant’Alfonso Maria de’ Liguori (1696-1787) il suo preparatore remoto ma profondo, nello stesso senso in cui san Luigi Maria Grignion di Montfort (1673-1716) preparò la Contro-Rivoluzione vandeana.
2. L’invasione del regno di Napoli da parte dell’esercito rivoluzionario francese e la Repubblica Napoletana
Quando, nel novembre del 1798, l’esercito rivoluzionario francese invade il regno di Napoli, la “[…] monarchia napoletana – come ammette Croce -, senza che se lo aspettasse, senza che l’avesse messo nei suoi calcoli, vide da ogni parte levarsi difenditrici in suo favore le plebi di campagna e di città, che si gettarono nella guerra animose a combattere e morire per la religione e pel re, e furono denominate, allora per la prima volta, “bande della Santa Fede””.
Nella capitale i popolani mostrano una notevole capacità organizzativa, grazie anche a momenti di coordinamento che fanno riferimento a forme di organizzazione interne alla società bassa di Napoli nonché alle strutture corporative e a forme di aggregazione religiosa dei laici. I francesi devono impegnarsi a fondo per domare la resistenza e soltanto dopo tre sanguinose giornate il generale Jean-Étienne Championnet (1762-1800) può annunciare la vittoria, non senza elogiare il comportamento valoroso dei “lazzari”.
Il 21 gennaio 1799, mentre ancora si combatteva per le vie della capitale, viene proclamata la Repubblica Napoletana. I “patrioti”, come si facevano chiamare i rivoluzionari, si accorgono ben presto di essere estranei alla maggior parte della popolazione, isolati anche dalle cerchie borghesi neutrali e tenuti in pugno dai francesi. Invece di governare, si perdono in problematiche e in elucubrazioni che costituivano soltanto uno schermo davanti alla tragica realtà. I dibattiti, le leggi, la pubblicistica, l’organizzazione dello Stato si riducono a un gioco da salotto, nel quale si enunciano grandi utopie, idee astratte e grandi ideali impersonali.
I “patrioti”, che credevano alla magica virtù della “Libertà” e veneravano il regime repubblicano come una forma eterna e infallibile, con carattere quasi religioso, pensano basti promulgare alcune leggi fondamentali per realizzare automaticamente la felicità dei popoli. Ma scoprono, com’era già accaduto ai loro colleghi francesi, che il popolo reale non era il “Popolo” da essi idealizzato; paralizzati fra il seducente miraggio di un popolo mitico e il terrore di una “plebe” concreta, decretano che questa era corrotta e occorreva costringerla alla “virtù”.
3. La crociata della Santa Fede
La “plebe” si leva concorde in difesa delle sue tradizioni e oppone le sue antiche libertà concrete alla “Libertà” astratta e letteraria dei giacobini. Il governo borbonico ha un ruolo importante nell’acquisizione, da parte delle insorgenze, di un carattere esteso e uniforme, che le avrebbe differenziate dalle reazioni locali che si venivano manifestando in pressoché tutta la penisola contro i francesi e i loro alleati. Il proposito di dare una guida capace e autorevole alla reazione popolare per ricondurre il regno sotto l’autorità legittima era nato quasi subito alla corte di Ferdinando IV di Borbone (1751-1825), rifugiatosi a Palermo, che individua tale guida nel card. Ruffo.
L’8 febbraio 1799, soltanto due settimane dopo la conquista francese della capitale, il cardinale sbarca a Pezzo, in Calabria, per organizzare la resistenza sul continente. Ha con sé soltanto pochi compagni e una grande bandiera di seta bianca, con lo stemma reale da una parte e una croce dall’altra, su cui stava scritto il famoso motto costantiniano In hoc signo vinces. Fin dall’inizio la sua azione è molto energica e raccoglie alcune migliaia di volontari: ricchi possidenti, ecclesiastici di ogni ordine e grado, commercianti e artigiani, contadini, armigeri baronali e militi delle disciolte corti di giustizia.
Questi ultimi, insieme con alcuni ufficiali e soldati dell’esercito reale, erano i più esperti e disciplinati in mezzo a una moltitudine di uomini tratti sotto le bandiere della Santa Fede dal sentimento del diritto o dalla devozione alla monarchia, ma talvolta anche dal desiderio di bottino o di vendetta contro nemici personali. Ruffo, soprattutto nella prima fase dell’arruolamento, non può essere severo nella scelta, ma presto la sua mano organizzatrice si fa sentire; rifulgono in quei frangenti la sua forza d’animo, le capacità organizzative, la familiarità con i soldati, l’intensa opera di animazione e di direzione, l’atteggiamento inflessibile nei confronti dei predatori e dei violenti.
In aprile i rivoluzionari francesi iniziano la ritirata, lasciandosi dietro una scia sanguinosa di sopraffazioni e di violenze, alle quali la popolazione reagisce con vigore e con determinazione. Il 13 giugno 1799, l’Armata fa il suo ingresso nella capitale, già infiorata di candidi panni gigliati e di coccarde scarlatte. Ma la festa dura poco. Il popolo minuto, che non aveva dimenticato i tradimenti, la sconfitta, le brutalità e i saccheggi, si vendica ferocemente dei suoi nemici. Ruffo cerca invano di arginare la guerra civile; a nulla valgono neppure le sue proteste contro la proditoria violazione, da parte dell’ammiraglio inglese Horatio Nelson (1758-1805), inviato a sostegno del re di Napoli, della convenzione conclusa con i vinti.
Lo scontro con la Corte si ha soprattutto sulla valutazione del ruolo e dell’importanza da assegnare al ceto dirigente nella ricostruzione del regno. Ruffo riteneva che occorresse fare affidamento su uomini dottrinalmente preparati e su una nobiltà reintegrata nelle sue funzioni; invece il re voleva accentuare il dispotismo proprio dell'”assolutismo illuminato”, trascurando la necessità di una vasta opera di formazione contro-rivoluzionaria della classe dirigente e di animazione pure contro-rivoluzionaria nonché di messa in guardia della popolazione contro la penetrazione settaria. Ferdinando IV perde l’occasione storica di una restaurazione integrale e il cardinale, falsamente accusato di simpatie giacobine, viene emarginato appena possibile.
Resta, tuttavia, l’esempio e il sacrificio di tanti eroici figli della nazione italiana. A distanza di quasi due secoli occorre – come scrive Renzo Uberto Montini alla voce Sanfedismo dell’Enciclopedia Cattolica – “[…] restituire al sanfedismo originale ed autentico l’innegabile merito di avere rappresentato, nell’Italia meridionale, la spontanea resistenza di popolazioni autenticamente cattoliche e devote alle autorità legittime contro gli abusi, le violenze e l’opera scristianizzatrice di un governo instaurato e sostenuto dallo straniero, in dispregio di tutte le tradizioni politiche e religiose locali”
Per approfondire: la censura storiografica messa in atto dai “vincitori” ha lasciato spazio soltanto a opere di orientamento liberale o marxista; fra le ricostruzioni meno “ideologizzate” ricordo Alberto Consiglio, Lazzari e Santa Fede (Rivoluzione Napoletana del 1799), Ceschina, Milano 1936; e Massimo Lelj, La Santa Fede. La spedizione del cardinale Ruffo (1799), Mondadori, Milano 1936, entrambe di ispirazione nazionalistica; fra le fonti coeve reperibili con minore difficoltà segnalo le cronache del domenicano Antonino Cimbalo, La lunga marcia del cardinale Ruffo alla riconquista del regno di Napoli, Borzi, Roma 1967; e di Domenico Petromasi, Alla riconquista del Regno. La marcia del Cardinale Ruffo dalle Calabrie a Napoli, Editoriale Il Giglio, Napoli 1994; nonché Carlo De Nicola, Diario napoletano (dicembre 1798-dicembre 1800), Giordano, Milano 1963; per una ricostruzione sintetica rinvio al mio 1799: la crociata della Santa Fede, in Quaderni di “Cristianità”, anno I, n. 3, inverno 1985, pp. 34-50.