L’Illuminismo è un’epoca che tradisce il suo nome. Meglio metterla sotto i riflettori
Francesco Agnoli
Un contributo importante, a tanto buio, viene da Voltaire, il grande teorico della tolleranza, cattivo ed arrogante come pochi: è lui che insulta cristiani ed ebrei, parla dei negri come di esseri usi ad unirsi con le bestie, e deride la storia di Adamo ed Eva, come fosse una favola, per sostenere il poligenismo, e quindi il razzismo.In quest’epoca buia (è bello fare il verso alle sciocchezze sul medioevo cristiano), la donna, anche in virtù delle nuove dottrine fisiocratiche, gode di una strana reputazione: è un animale da riproduzione, e i suoi figli sono “production”, carne da lavoro, o da esercito, servitori dello Stato, “una sorta di investimento collettivo, di spesa sociale, dalla quale ci si aspettano con il tempo la resa e la moltiplicazione dei capitali investiti”.
Così nascono gli elogi della donna fertile che si può accoppiare con tutti, di Diderot, e il contemporaneo disprezzo, senza misericordia, per le donne sterili (i cui matrimoni verranno sciolti a forza dal codice rivoluzionario); così Restif de la Bretonne, che ritiene le capacità mentali di una donna non superiori a quelle di un bambino di sedicianni, specula sull’utilità delle prostitute, sostenendo “l’idea del bordello come fabbrica di uomini e della prostituta, suo malgrado, come riproduttrice al servizio dello Stato” (Maria Codignola, “Il paese che non c’è”, La Nuova Italia).
L’uomo scimmia
Sulla stessa linea si colloca Fourier, discepolo di illuministi come Morelly e dom Deschamps, con l’ idea che l’uomo debba obbedire, come gli animali, solo a passioni ed istinti: le prostitute divengono “una milizia sociale per il bene” comune, senza una propria dignità, ma “dedite alla consolazione degli afflitti e alla soddisfazione delle più stravaganti perversioni”.
Infine sarà l’illuminismo evoluto di Charles Darwin ad affermare tout court la indistinzione tra uomini e bestie, tra Ulisse e i porci di Circe: l’uomo maschio è solo una scimmia, che, perso il pelo, ha “acquisito la barba, come ornamento per affascinare ed attirare le femmine”, e la donna, superata dall’uomo “sia nelle qualità fisiche che in quelle mentali”, ha perso tutto il pelo, senza acquistare barba, “anche qui come ornamento sessuale”. Qual è allora lo scopo di quest’ animale evoluto? Solo riprodursi (non c’è altra “eternità”), e riprodursi bene: l’animale sano, si sa, serve a qualcosa, mentre quello malato è inutile e dannoso.
Ecco, dopo tali pensamenti è tutto un fiorire di filosofie che riducono l’uomo a materia, il pensiero a secrezione del cervello, come l’urina lo è dei reni. Filosofie che trovano ancora, dopo due secoli, il loro divulgatore, l’uomo da televisione che le dichiara “scientifiche”: Piero Angela. Leggetelo, il suo “Amore per sempre” (Mondadori), per capire perché amate vostra moglie o i figli; perché vi piace Tizio, o Tizia, piuttosto che Caio o Caia, e perché tradite o rimanete fedeli al vostro coniuge. E’ tutta questione, secondo l’autore, di capire i “meccanismi”, le “reazioni chimiche”, il gioco degli ormoni, delle ghiandole, delle influenze animalesche primordiali: tutto è predeterminato, genetico, fisico, bestiale.
L’innamoramento? Non è altro che “il cavallo di Troia escogitato dalla evoluzione per indurre due persone ad unirsi… perché si riproducano”; “una anestesia di parti del cervello e una attivazione di altre”, “un bisogno analogo a quello della sete o della fame”. Se l’amore è un bisogno, come mangiare, o bere, o disfarsi, a pancia piena, di entrambi, allora lo si deve vivere secondo il bisogno, non secondo verità, volontà, generosità… Vari, infatti, ed equivalenti, sono i “tipi d’amore”, da quello “di Dante e Beatrice a Moana Pozzi”.
Oggi, come all’epoca di Diderot, Restifde la Bretonne e Fourier, la donna di Angela (non più donna-angelo) realizza solo nella fertilità il fine, non suo, ma dell’evoluzione, mentre l’uomo conserva una “innata” e“gratificante” “vocazione poligamica”: come una scimmia salterina, che abbia a noia il proprio ramo, desidera “spargere ovunque il suo seme”, secondo “il modello dell’harem”, tramite il proprio “annaffiatoio” (da cui l’esigenza neoilluminista di banche del seme e dell’eterologa).