Voci per un dizionario del pensiero forte
di Enzo Peserico
Non sono molte le date della storia che hanno dato il nome al fenomeno che in quel momento si è manifestato ed anche ai suoi protagonisti, o ai suoi attori: è accaduto al Sessantotto e ai suoi epigoni, i sessantottini.Un nome che rinuncia alla definizione non è propriamente una buona partenza per una voce di dizionario ma, d’altra parte, permette una analisi “aperta”, ossia senza pre-giudizi, di un fenomeno storico per molte ragioni ancora “attuale” sotto il profilo culturale e ideologico.
Delimito quindi l’analisi al Sessantotto italiano, senz’altro il più lungo sotto il profilo temporale e il più significativo dal punto di vista sociale e politico: il più lungo, perché mentre l’evento-simbolo del Sessantotto, ossia la rivolta del Maggio francese, con gli scontri all’Università della Sorbona, le barricate al Quartiere Latino e il blocco di ogni attività produttiva, perde rapidamente consistenza e vitalità, la stagione del Sessantotto italiano dura, con alterne vicende, fino al 1977; il più significativo, perché la pur imponente contestazione giovanile statunitense (che in realtà emerge già nel 1964 all’Università di Berkeley) manca di un definito progetto politico, mentre la Primavera di Praga e altri movimenti di ribellione nei Paesi dell’Est comunista si scontrano subito con le particolari “attenzioni” dei carri armati Sovietici.
In Italia, invece, la contestazione ingrossa rapidamente le sue fila e viene presto innervata ed egemonizzata da nuclei e gruppi animati dall’ideologia socialcomunista, che organizza la lotta violenta al sistema.
I prodromi della rivolta
Come ha osservato Eric Voegelin, i fenomeni messanico-rivoluzionari di massa sono preparati da situazioni sociali di profonda inquietudine, che costituiscono il terreno di coltura dell’ideologia, intesa come sistema di miti che promette il raggiungimento della felicità “secolarizzata”, cioè totalmente infraterrena, attraverso l’azione politica.
Il fenomeno del Sessantotto italiano si sviluppa propriamente a partire da una diffusa situazione di insoddisfazione, soprattutto giovanile, derivante dalla disgregazione dei valori dominanti, progressivamente erosi da un modello di “società opulenta” incapace a sua volta di rispondere ad attese di profilo diverso dall’innalzamento del livello materiale di vita, peraltro ottenuto attraverso un disordinato processo di industrializzazione e di allargamento artificioso dei consumi, che aveva portato rapidamente ad una squilibrata espansione delle periferie urbane del Nord Italia e allo sradicamento culturale di ampie fasce della popolazione italiana.
In questo humus sociale carico di insoddisfazione e insieme di attesa di un “mondo nuovo”, liberato da costrizioni e ingiustizie, cresce il rifiuto della new wave of life vagheggiata dalla cultura liberal-illuminista predominante in Occidente, e accanto alle ribellioni comportamentali comincia a diffondersi, anche grazie alla paziente e spregiudicata opera di molti “cattivi maestri”, l’utopia della Rivoluzione comunista.
I due volti del Sessantotto: rivoluzione “in interiore homine” e rivoluzione politica.
Il carattere unitario del Sessantotto non va perciò ricercato in fenomeni di superficie, quali le occupazioni universitarie o le manifestazioni studentesche che ingenerano anche oggi ricostruzioni reducistiche da parte di nostalgici protagonisti (su tutte emblematica per faziosità quella di Mario Capanna, nel suo pamphlet Formidabili quegli anni, bensì in quella atmosfera di idee e di sentimenti che viene diffusa nel mondo giovanile fino a diventare culturalmente dominante.
Si tratta, in altri termini, di una Rivoluzione culturale, che ha espresso due tendenze fondo, e che possono essere così schematizzate:
– la prima tendenza può essere definita rivoluzione in interiore homine, che mostra il volto del Sessantotto a livello dei comportamenti individuali e collettivi; il tipo che la incarna è il rivoluzionario d’elezione: “la mia vita come rivoluzione”. Egli opera la rivoluzione rovesciando lo stile di vita dell’uomo naturale e cristiano, in un processo di progressiva distruzione di ogni legame vitale (con Dio, con gli altri uomini e con se stesso) fino all’esito coerentemente drammatico dell’autodistruzione attraverso la tossicodipendenza o il suicidio;
– la seconda tendenza si manifesta nella rivoluzione politica, che mostra il volto del Sessantotto a livello macrosociale: il tipo antropologico che lo incarna è il rivoluzionario di professione: “la mia vita per la Rivoluzione”. Egli realizza il suo progetto attraverso due vie: la lotta politica (anche) violenta; la lotta politica armata, cioè il terrorismo.
Queste due tendenze percorrono, talvolta intersecandosi e confondendosi, tutta la storia del Sessantotto, per ripresentarsi emblematicamente unite in quel “Movimento del ’77”, che rappresenta il momento ultimo della contestazione giovanile. Ma l’unione ha vita breve: l’ala “desiderante”, che si esprime, per esempio, negli “indiani metropolitani”, svanisce nell’autodistruzione personale, nella droga e nel nichilismo; l’ala violenta, invece, espressa dall’area di Autonomia, sancisce il proprio fallimento andando a ingrossare le fila dei gruppi terroristici, nel frattempo decimate dagli arresti e dalle defezioni.
La tendenza che si manifesta nella ribellione politica ha assunto in Italia un ruolo preponderante. Il momento è favorevole: il desiderio di costruire il mondo nuovo e perfetto, liberato dalla ingiustizia e dalle disuguaglianze, trova nella teoria rivoluzionaria di Marx e di Lenin sia il modello utopico del futuro che la “tecnica”, cioè l’azione politica, per costruirlo infallibilmente. L’ideologia si arricchisce nel contempo di miti che, sapientemente propagandati, rafforzano la “fede” nella vittoria della Rivoluzione: la Resistenza, i vietcong, la guerriglia del Che Guevara e di Marighella, la Cina di Mao.
In questo clima culturale nasce e si moltiplica il “rivoluzionario di professione”: nelle scuole e nelle fabbriche si aggregano e si disgregano in continuazione gruppuscoli di rivoluzionari.
Se l’eclissi dei valori tradizionali aveva progressivamente prodotto, dalla fine degli anni Cinquanta, i fenomeni di disgregazione del corpo sociale e quindi una atmosfera di profonda insoddisfazione e, insieme, di desiderio di un “mondo nuovo”, la nuova aggregazione attorno all’ideologia marxista-seppure ispirata a figure diverse, da Lenin a Mao, da Trotskj al Che- rifiuta il confronto con la realtà e, secondo un processo che aveva già caratterizzato la rivoluzione francese, produce teorie e slogan, afferma ciò che non può essere dimostrato, esorcizza il dissenso. In altri termini, produce miti da trasportare nella realtà per costringerla ad adeguarsi alle “analisi” distillate nei pensatoi rivoluzionari.
Si tratta di un dinamismo artificiale, perché produce esso stesso le affermazioni inverificabili e gli slogan che muovono all’azione gli attivisti; così lo descrive Marco Barbone, ex terrorista pentito, in una intervista – confessione raccolta da Avvenire: “[…] noi esistevamo e ci rapportavamo in base a discussioni politiche. Era il nostro universo, il microcosmo (cosa che verrà drammaticamente accentuata nelle organizzazioni combattenti), l’orizzonte dell’esistenza”.
Il pensiero viene “socializzato”, con il risultato che la politica diventa il mezzo infallibile per fare giustizia. Sabino Acquaviva, sociologo, nel suo Guerriglia e guerra rivoluzionaria in Italia ricorda le parole rivoltegli da uno studente; “Tu non potrai mai capire – diceva – la sensazione di dominare il mondo, di fare definitivamente giustizia nel mondo, una piccola e specifica ma definitiva giustizia, colpendo chi si è macchiato di tanti delitti”.
Identificando etica e politica, il “rivoluzionario di professione” ha l’obbligo morale di fare trionfare i postulati dell’ideologia con qualsiasi mezzo. La mitologia della Resistenza fornisce gli esempi dell'”antifascismo militante” e così, tra la teorizzazione dell’annientamento fisico dell’avversario, l’atto di violenza e, in seguito, l’azione terroristica, non vi è soluzione di continuità: l’ideologia giustifica ogni comportamento e lo eleva ad atto morale.
Se qualcuno solleva problemi di coscienza, Lenin ne I compiti delle associazioni giovanili risponde per tutti: “Ma esiste una morale comunista ? Esiste un’etica comunista ? Certo, esiste […] per noi la moralità dipende dagli interessi della lotta di classe proletaria”.
Altri fattori si possono certamente invocare per comprendere quanto accadde: la tragedia della guerra tra giovani e la logica della ritorsione, le parole dei sapienti maestri dell’ideologia e degli utili idioti del momento, l’inerzia colpevole e la connivenza dell’autorità politica. Ma, anche senza negare la loro importanza, tali fattori non danno ragione del vero e proprio mutamento antropologico, che si è realizzato in quanti hanno incarnato l’ideologia del Sessantotto.
L’ “altro” Sessantotto
Accanto alla contestazione di sinistra il Sessantotto in Italia conosce anche altri protagonisti, dal momento che il fenomeno rivoluzionario, pur diventando preponderante attraverso le sue avanguardie numerose e violente, non esaurisce lo scenario giovanile che, accanto alla larga maggioranza dei passivi, è composto altresì dalla contestazione di destra.
La destra giovanile, essenzialmete studentesca e aggregata inizialmente attorno alla contestazione al sistema, entra ben presto in antitesi con il progetto egemonico dei movimenti delle sinistre, e si caratterizza quindi come reazione anticomunista, individualista e antiegualitaria all’ideologia marxista, che si ridurrà progressivamente alla tragica guerra tra giovani, innescata dalla sistematica demonizzazione del “fascista” e quindi costellata da sanguinosi episodi di violenza.
Il comprensibile atteggiamento reazionario del “Sessantotto di destra” ne svela tuttavia il grave limite, ossia l’incapacità di elaborare e proporre un modello esistenziale e culturale diametralmente opposto al fronte libertario e marxista leninista, ma anche alternativo a quello proposto dalla cultura dominante, capace quindi di proporsi quale scuola di vita e di nuova civiltà.
Né, d’altra parte, migliore è la sorte del mondo cattolico che, frastornato dall’ “aggiornamento” conciliare e soffocato politicamente dall’egemonia democristiana, si lascia sedurre dall’utopia marxista: i suoi quadri dirigenti abbandonano in larga parte la Chiesa e la base giovanile finisce in buon numero ad ingrossare le fila dei rivoluzionari di professione.
Il movimento cattolico, pertanto, perde nel Sessantotto un’occasione storica: di fronte alla debolezza della cultura liberal-illuminista e all’aggressione intellettuale e politica della rivoluzione marxista rinuncia a prendere l’iniziativa ed entra a sua volta “in crisi”, perde la memoria dell’originale pensiero cristiano, abbandona la dottrina sociale della Chiesa e diventa subalterno all’analisi sociale marxista, assumendo un atteggiamento di inferiorità culturale che ancora oggi produce i suoi effetti desolanti.
Il Sessantotto come Rivoluzione culturale
Il Sessantotto si presenta quindi, nel suo aspetto più profondo, come una Rivoluzione culturale, che ha inciso sul costume e sui comportamenti sociali molto più che sulla politica.
Certamente il desiderio di un mondo nuovo, ossia l’aspetto utopico della contestazione, è stato sepolto insieme alle numerose vittime degli anni di piombo, e si è capovolto nella tragica disperazione di chi più intensamente ha creduto ai miti dell’ideologia e li ha visti dissolversi tra le “urla dal silenzio” delle vittime dell’esperimento comunista, oppure nel fallimento esistenziale dell’utopia libertaria.
Tuttavia, se l’utopia libertaria e l’ideologia marxista si sono frantumate nel confronto con il reale, la generazione del Sessantotto ha smarrito anche la memoria di quel patrimonio di verità individuali e sociali contenuto nella tradizione cristiana e già sfigurato dai modelli liberali e illuministici della “società opulenta”.
In questo modo, la secolarizzazione laicista è avanzata rapidamente anche in Italia ed ha potuto tenere il campo indisturbata, saldando in un’unica egemonia culturale progressista tanto le tendenze libertarie che quelle socialcomuniste, orfane del mito messianico-rivoluzionario.
D’altra parte, il Sessantotto ha mostrato inequivocabilmente l’incapacità della modernità, con il suo arsenale ideologico, di fornire risposte significative alla sua deriva nichilista, ed ha quindi reso evidente per contrasto l’esistenza di una alternativa reale alla dissoluzione personale e sociale: alternativa culturale e politica, questa, nè utopistica nè relativista, e percorribile attraverso la riscoperta dei valori che fondano l’uomo naturale e cristiano e la sua civiltà.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Anche tralasciando l’innumerevole produzione di articoli e filmati, la bibliografia sul Sessantotto è molto vasta. Segnaliamo quindi soltanto alcuni testi di orientamento.
Sulla storia del Sessantotto si veda: M. Brambilla, Dieci anni di illusioni – Storia del sessantotto Rizzoli, Milano 1994; dello stesso autore, L’eskimo in Redazione. Quando le Brigate Rosse erano “sedicenti”, Ares, Milano 1991, significativa documentazione del ruolo assunto dalla “Repubblica delle lettere” nell’affermazione della rivoluzione culturale del Sessantotto.
Per una documentata analisi dei principali episodi di violenza e di terrorismo si veda A. Baldoni e S. Provvisionato, La notte più lunga della Repubblica. Sinistra e destra. Ideologie, estremismi, lotta armata (1968 – 1989), Serarcangeli 1989. L’opera contiene anche una discreta bibliografia sull’argomento.
Per approfondire il fenomeno del Sessantotto come rivoluzione culturale: Sabino S. Acquaviva, Guerriglia e guerra rivoluzionaria in Italia, Rizzoli, Milano 1979; AA.VV., Dov’è finito il ‘68? Un bilancio per gli anni 80, Ares, Milano 1979; si veda anche il mio Gli “anni del desiderio e del piombo”, in Quaderni di Cristianità, anno II, n° 5, Cristianità, Piacenza 1986.