Cenni utili per capire dove e come nasce la rivoluzione culturale che cambia una generazione
di Guido Vignelli
L’ incubazione del virusVerso la fine degli anni Sessanta circolava in Occidente un clima di ottimismo. Il progresso culturale, economico e scientifico sembrava preparare un’era di pace, sicurezza, ricchezza e comodità; il Cristianesimo stesso, con l’appena concluso Concilio Vaticano II, sembrava avviato verso l’unione dei cristiani delle varie confessioni religiose e la riconciliazione con la “modernità”.
Le tre figure simboliche di Kennedy, Krusciov e Giovanni XXIII avevano incarnato queste speranze tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Eppure, come ammoniva san Paolo, quando tutti annunciano “pace e sicurezza”, proprio allora bisogna temere l’arrivo di una sciagura: o un colpo di mano diabolico che si approfitta della ingenuità umana, o un castigo divino che risveglia alla dura realtà, o entrambe le cose.
Molti segni evidenti smentivano questo facile ottimismo. Il rilassamento dei costumi aveva favorito il sonno delle coscienze e aveva provocato una grave fragilità sociale. La “cultura della rivolta” circolava liberamente nelle scuole, nella letteratura, nel giornalismo, negli spettacoli, soprattutto nella musica giovanile. La propaganda sinistrorsa esaltava idee, personaggi e comportamenti “trasgressivi” e incitava a nuove forme di “lotta di classe”: quelle tra vecchi e giovani, tra insegnanti e scolari, tra genitori e figli, tra marito e moglie, tra uomo e donna, tra clero e laici.
La ribellione giovanile, la contestazione scolastica, la rivolta sindacale, la dissidenza ecclesiale, la rivoluzione sessuale cominciavano già a manifestarsi in forme marginali e pittoresche, che venivano guardate con simpatia o antipatia, ma non venivano comprese né combattute nella loro gravita. Questa propaganda dell’assoluta libertà di pensiero e di parola pretendeva ormai di realizzarsi in un’assoluta libertà di azione.
Il tranquillo conformismo degli anni Sessanta stava per essere rovesciato dalla “rivolta globale”, favorita non da un clima di moralistica repressione, come immaginavano gli psicoanalisti, bensì da un clima di rilassatezza e permissivismo (la “dolce vita”) che rifiutava non solo l’autorità, il lavoro e il sacrificio, ma anche l’ordine, la società, la civiltà.
L’esplosione del virus
Tanto per smentire il luogo comune, secondo cui gli Italiani importerebbero le rivoluzioni e le ammorbidirebbero per neutralizzarle, quella sessantottina scoppiò proprio in Italia, durando più a lungo e avendo un carattere più violento che altrove. Inoltre scoppiò in anticipo, il 16 novembre 1967, sei mesi prima d’iniziare ufficialmente nel famoso “maggio parigino”.
Paradossalmente, poi, scoppiò in ambiente cattolico: fu infatti nell’apparentemente tranquilla Università del Sacro Cuore a Milano che il Movimento Studentesco di Mario Capanna suscitò le prime manifestazioni, marce, occupazioni e devastazioni. Poco dopo, a partire dal 15 gennaio 1968, come eseguendo un piano preordinato scattato a un segno dato, le Università statali di tutte le città principali insorsero contemporaneamente.
Nel 1970 nacquero il Movimento per la Liberazione della Donna, quello per la liberazione omosessuale e quello nudista; il 6 dicembre 1975 si tenne a Roma la grande manifestazione femminista che auspicava la distruzione della famiglia. L’impunita contestazione si trasformò ben presto in guerriglia urbana. Il 1 marzo 1968 avvenne a Roma la “battaglia di Valle Giulia” e il 21 marzo ebbe luogo a Milano la “battaglia di largo Gemelli”, scatenate da studenti universitari; nel settembre 1969 iniziarono i violenti “autunni caldi” operai promossi dalla Triplice sindacale.
La polizia dovette soccombere alle violenze per obbedire all’ordine di non reprimerle; i colpevoli arrestati vennero tutti rilasciati o amnistiati. Le poche autorità che osarono opporsi alla guerriglia vennero diffamate dalla stampa, delegittimate dai politici, abbandonate dai superiori, talvolta ucci, come nel caso del commissario Calabresi.
L’impunita guerriglia urbana generò poi il terrorismo; non pochi protagonisti della contestazione studentesca diventarono promotori del terrore rosso, a partire da Renato Curcio, che si era “allenato” all’Università di Trento; nel 1971, in parte dal “braccio armato” clandestino del PCI nacquero le Brigate Rosse, che colpirono personalità avverse alla comunistizzazione della società.
Come si vede, quella del Sessantotto fu una rivoluzione facile, perché ebbe pochi oppositori e molti complici palesi od occulti: politici, giornalisti, intellettuali, teologi, docenti, rettori e cappellani universitari, perfino alcuni Ministri del Governo, tutti favorirono o almeno tollerarono le violenze e i soprusi.
Impossibile qui ripercorrere le fasi del sessantottismo. Possiamo solo dire che non è mai finito, perché una regìa occulta suscita periodicamente rivolte neo-sessantottine, usandole come eccitanti per scuotere la società, spingendola ad accettare una nuova fase rivoluzionaria. Dopo la crisi del periodo del “riflusso”, ci furono vari tentativi di riprendere la lotta. Tra 1977 e il 1979, ci provò il movimento dei punk e degli “indiani metropolitani”; tra il 1985 e il 1987, ci provò il “movimento dell’Ottantacinque”; infine, a partire dal 1999 (manifestazioni di Seattle), una nuova fase di contestazione internazionale venne avviati dal movimento no global.
In Italia questi movimento viene guidato dai “centri sociali autogestiti”, che da una parte ottengono appoggi dalle autorità politiche della sinistra e dall’altra affiancano le nuove forme di guerriglia e terrorismo (anarchico o ecologista o islamista).
Molti fra i protagonisti del Sessantotto hanno poi fatto carriera nella società e nelle istituzioni. Basti ricordare politici come Capanna, Boato, Manconi, Menapace, Cacciari, Vattimo, Turco, Treu, Langer; intellettuali o giornalisti come Sofri, Viale, Piperno, Franceschini, Casalini, Negri, Salvati, Trenti, Manghi, Rusconi, Lerner, Santoro, Mentana, Sposini, Freccero.
Insomma, i contestatori e sovversivi di ieri sono diventati oggi uomini di governo, esponenti dei “poteri forti”, manipolatori della opinione pubblica. L’eresia e la sovversione di ieri sono diventate l’ortodossia e l’istituzione di oggi; quello che ieri era vietato (divorzio, aborto, droga, omosessualità) oggi viene promosso e tutelato dalle leggi.
C’è quindi da temere che la sovversione di oggi possa diventare l’istituzione di domani. Viene quindi smentito un altro luogo comune: non è affatto vero che in Italia “tutto finge di cambiare per restare lo stesso”; anzi, qui “tutto finge di restare lo stesso per cambiare”, e in profondità!
Una diagnosi della malattia
Fra coloro che diagnosticarono e combatterono il sessantottismo alla luce della teologia della storia, segnaliamo due lungimiranti intellettuali cattolici: Augusto Del Noce in Europa e Plinio Correa de Oliveira nelle Americhe.
Del Noce ammonì che il ’68 mirava a distruggere le ultime istituzioni (scuola, famiglia e Chiesa) capaci di istruire, educare e santificare le generazioni. A tal scopo, esso preparava l’avvento di una nuova forma di totalitarismo, quello del desiderio e dell’arbitrio, e una nuova forma di persecuzione religiosa, quella che costringe il popolo a “liberarsi” dalle tradizioni cristiane. Difatti, oggi Parlamenti e Tribunali internazionali cercano d’imporre una rivoluzione familiare e sessuale vietando ogni “discriminazione” e promuovendo i “diritti umani riproduttivi”.
De Oliveira denunciò il ’68 come l’estremo tentativo di realizzare l’anarchia mediante una nuova fase rivoluzionaria che mira a distruggere l’uomo nelle sue radici (sociali, psicologiche e perfino biologiche) per renderlo schiavo di sé e ribelle a Dio. L’anima umana viene sottomessa alle pretese di una sensibilità morbosa, ribelle e anarchica, estinguendo la luce della verità, la voce della coscienza e il richiamo della fede.
Manipolando tendenze, abitudini e pratiche di massa, l’uomo d’oggi viene immerso fin da ragazzo in ambienti rivoluzionari (come la discoteca) che lo corrompono fin dalla giovinezza. La soluzione decisiva verrà quindi da una restaurazione delle tendenze e degli ambienti sani e formativi.
Il ’68 ebbe successo non tanto nel campo politico quanto in quello culturale e sociale. La rivoluzione nei costumi, negli ambienti, nella mentalità, nella vita quotidiana ha diffuso nelle masse il relativismo e la rivoluzione sessuale, rendendo impossibile la contemplazione sociale della verità e la pratica sociale delle virtù (specie della temperanza). La sovversione morale ha generato una “questione antropologica” che mette in forse la sopravvivenza dell’uomo come creatura, ossia come immagine di Dio Creatore, e ancor più come cristiano, ossia come somiglianza di Dio Redentore.
Si vuole insomma imporre un modello di vita tribale, reso possibile da un supporto tecnologico che dispenserà l’uomo dallo studiare, lavorare e procreare per abbandonarsi al gioco, alla lussuria e alla violenza. In un suo romanzo intitolato L’isola, Aldous Huxley raffigurò nel 1962 questa “utopia positiva”, che egli propose come sola alternativa possibile all'”utopia negativa” prima denunciata nel suo celebre Il mondo nuovo. Ma siamo dunque davvero a questo bivio: o rassegnarci alla grigia prigione della società borghese, o distruggerla scatenando l’anarchia tribale, o almeno evadere temporaneamente dalla prima per stordirci nella seconda?
Questa falsa alternativa esclude irrazionalmente l’unica vera soluzione possibile: la restaurazione di una società cristiana. Se i propagandisti no global proclamano che “un altro mondo è possibile”, rispondiamo che certamente lo è, ma non sarà l’utopia anarchica, bensì la futura civiltà cristiana: quella profetizzata dalla Madonna a Fatima.