da Tradizione Famiglia Proprietà n. 79 Ottobre 2018
Il ’68 europeo cominciò in realtà nel ’67, e non in Francia bensì in Italia, con l’occupazione dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Oggi, molti sessantottini di allora sono diventati personaggi centrali della nostra vita pubblica, politica e culturale.
di Guido Vignelli
Parlando con giovani che, per fortunate ragioni di età, non hanno avuto la disgrazia di vivere il cosiddetto Sessantotto, spesso mi accorgo ch’essi ignorano quel dramma che – nonostante la data che lo definisce – in Italia durò non un anno ma alcuni decenni e, in un certo senso, non si è ancora concluso. Inoltre, spesso quei giovani si mostrano meravigliati e scettici, quando racconto a loro le idee e i fatti che hanno mosso e alimentato quell’epoca di “rivolta globale” a ogni forma di autorità e di ordine civile.
Pertanto, al fine di rievocare ai giovani e agli adulti smemorati quegli anni drammatici e decisivi, le cui conseguenze stiamo tuttora subendo, mi sembra utile descrivere e analizzare brevemente le vicende e le caratteristiche cruciali del Sessantotto italiano. Il cinquantenario di quel dramma è un’occasione propizia per farlo senza quella faziosità che ancor oggi anima i numerosi e potenti “reduci sessantottini”.
L’incubazione del virus
Alla fine della seconda guerra mondiale, l’Italia si trovò a un bivio decisivo: o far tesoro della dura ma provvidenziale lezione dei fatti, tornando alla fede cristiana dei suoi padri, o tentare di rivalersi sulla tragedia subita impegnandosi nella ossessiva ricerca del benessere. Dopo una iniziale fase di risveglio religioso, favorita dall’insegnamento di Pio XII, purtroppo la nostra nazione scelse la seconda via.
Lungo gli anni Cinquanta, l’Italia passò rapidamente da una situazione caratterizzata da distruzione, insicurezza e povertà a un’altra caratterizzata da ricostruzione, sicurezza e ricchezza. Ma questo passaggio avvenne a un terribile prezzo: la coscienza civile e religiosa si addormentò, le tradizioni vennero dimenticate, s’installò un conformismo generale. A conferma che la guerra non è il maggiore dei mali e che la pace può essere ben più pericolosa, mai periodo di pace fu così rovinoso per lo spirito di un popolo.
Dopo il 1954, anno mariano che segnò l’ultima occasione per un risveglio religioso, la tensione morale venne sempre più deviata nella ricerca ossessiva del benessere ad ogni costo e/o nell’impegno politico secolarizzato; i diritti di Dio vennero posposti ai tanto conclamati “diritti dell’Uomo” libero, adulto ed emancipato. Entro il 1960 avrebbe dovuto essere rivelato ai fedeli il cosiddetto “terzo segreto” di Fatima, il cui significato ammonitore avrebbe potuto suscitare un sussulto religioso e quindi avviare una fase di ricupero; ma, com’è noto, quel segreto fu occultato, in quanto avrebbe turbato il clima di ottimismo che andava ormai diffondendosi anche negli ambienti ecclesiastici.
Nella seconda metà degli anni Sessanta, questo clima d’irresponsabile ottimismo era ormai dominante in tutto l’Occidente. Il progresso culturale, economico e scientifico sembrava preparare un’era di pace, sicurezza, ricchezza e comodità in un mondo privo di conflitti ideologici; la distensione internazionale sembrava risolvere i conflitti politici preludendo ad una pacificazione globale assicurata dall’O.N.U.; con l’appena concluso Concilio Vaticano II, il Cristianesimo stesso sembrava avviato verso l’unione delle Chiese e la riconciliazione con la “modernità” in nome di un comune “umanesimo integrale”, nella prospettiva di dare il proprio decisivo contributo alla edificazione di una “Città dell’Uomo” pluralistica ed egualitaria. Le tre personalità simboliche di quell’epoca – Giovanni XXIII, Kennedy, Krusciov – avevano incarnato queste speranze nell’imminente avvento di un mondo migliore e pacifico.
Eppure, come ammoniva san Paolo, quando tutti annunciano “pace e sicurezza”, proprio allora bisogna temere l’arrivo di una sciagura: o un colpo di mano diabolico che si approfitta dell’umana stoltezza, o un castigo divino che risveglia alla dura realtà, o entrambe le cose.
Infatti, molti segni evidenti smentivano questo facile ottimismo. L’addormentamento delle coscienze e il rilassamento dei costumi avevano diffuso conformismo, indifferenza ed egoismo, determinando una fragilità sociale capace di rompersi alla prima occasione sotto l’urto del brulicare di conflitti apparentemente sopiti dal benessere. In nome della libertà di espressione e della massima “nessun nemico a sinistra”, la gestione democristiana del potere aveva tollerato il diffondersi di una “cultura della rivolta” che circolava liberamente nelle scuole, nella letteratura, nel giornalismo, negli spettacoli, soprattutto nella musica giovanile. La propaganda sinistrorsa esaltava idee, personaggi e comportamenti “trasgressivi” e incitava a nuove forme di “lotta di classe”: quelle tra vecchi e giovani, tra insegnanti e scolari, tra genitori e figli, tra marito e moglie, tra uomo e donna, tra clero e laici.
La ribellione giovanile, la contestazione scolastica, la rivolta sindacale, la dissidenza ecclesiale, la rivoluzione sessuale, cominciavano già a manifestarsi in forme marginali e pittoresche (teddy boys, hippies, provost) che venivano guardate con simpatia o antipatia, ma non venivano comprese né combattute nella loro gravità. L’assoluta libertà di pensiero e di parola pretendeva ormai di realizzarsi in un’assoluta libertà di azione, la protesta intellettuale in ribellione sociale. Il tranquillo conformismo degli anni Sessanta stava per essere rovesciato dalla “rivolta globale”, favorita non da un clima di moralistica repressione, come immaginavano gli psicoanalisti, bensì da un clima di rilassatezza e permissivismo (la “dolce vita”) che rifiutava non solo l’autorità, il lavoro e il sacrificio, ma anche l’ordine, la società, la civiltà.
Le autorità dell’epoca s’illudevano che i vantaggi del benessere e l’ammortizzatore della tolleranza avrebbero risolto la situazione. “Date fiducia ai giovani!”, proclamavano, senza rendersi conto che quei giovani cercavano vanamente un’autorità credibile alla quale affidarsi e, non trovandola, si apprestavano a ribellarsi ad ogni forma di autorità costituita.
L’esplosione del morbo
Tanto per smentire il luogo comune, secondo cui gl’Italiani importerebbero le rivoluzioni dall’estero ma le ammorbidirebbero per neutralizzarle, quella sessantottina scoppiò proprio in Italia e per giunta durò più a lungo ed ebbe un carattere più violento che altrove. Inoltre scoppiò… in anticipo, il 16 novembre 1967, sei mesi prima d’iniziare ufficialmente nel famoso “maggio parigino”.
Paradossalmente, poi, scoppiò in ambiente cattolico: fu infatti nell’ apparentemente tranquilla Università del Sacro Cuore a Milano che il Movimento Studentesco di Mario Capanna suscitò le prime manifestazioni, marce, occupazioni, devastazioni e violenze. Poco dopo, a partire dal 15 gennaio 1968, come eseguendo un piano preordinato scattato a un segno dato, le Università statali di tutte le città principali insorsero contemporaneamente.
Nel 1970 nacquero il Movimento per la Liberazione della Donna, quello per la liberazione omosessuale (F.U.O.R.I.) e quello nudista; il 6 dicembre 1975 si tenne a Roma la grande manifestazione femminista che auspicava la distruzione della famiglia.
L’impunita contestazione si trasformò ben presto in guerriglia urbana. Il 1 marzo 1968 avvenne a Roma la “battaglia di Valle Giulia” e il 21 marzo avvenne a Milano la “battaglia di largo Gemelli”, scatenate da studenti universitari; nel settembre 1969 iniziarono i violenti “autunni caldi” operai promossi dalla Triplice sindacale. La polizia dovette soccombere alle violenze per obbedire all’ordine di non reprimerle; i colpevoli arrestati vennero tutti rilasciati o amnistiati.
Le poche autorità che osarono opporsi alla guerriglia vennero diffamate dalla stampa, delegittimate dai politici, abbandonate dai superiori, talvolta uccise, come nel celebre caso del commissario Calabresi. L’impunita guerriglia urbana generò poi il terrorismo; non pochi protagonisti della contestazione studentesca diventarono promotori del terrore rosso, come quelli che si erano “allenati” all’Università di Trento sotto la guida di sociologi poi diventati celebri; nel 1971, il “braccio armato” clandestino del PCI generò le Brigate Rosse, che colpirono personalità avverse alla comunistizzazione della società.
Impossibile qui ripercorrere le fasi del sessantottismo. Possiamo solo dire che esso non è mai finito, perché una regìa occulta suscita periodicamente rivolte neo-sessantottine, usandole come eccitanti per scuotere la società spingendola ad accettare una nuova fase rivoluzionaria. Dopo la crisi del periodo del “riflusso”, ci furono vari tentativi di riprendere la lotta. Tra il 1977 e il 1979, ci provò il movimento dei punk e degli “indiani metropolitani”; tra il 1985 e il 1987, ci provò il “movimento dell’Ottantacinque”; infine, a partire dal 1999 (manifestazioni di Seattle), una nuova fase di contestazione internazionale venne avviata dal movimento no global. In Italia questo movimento viene guidato dai “centri sociali autogestiti”, che da una parte ottengono appoggi dalle autorità politiche sinistrorse e dall’altra affiancano le nuove forme di guerriglia e terrorismo (anarchico o ecologista o islamista).
Come si vede, quella del ’68 fu una rivoluzione facile, perché ebbe pochi oppositori e molti complici palesi od occulti: politici, giornalisti, intellettuali, teologi, docenti, rettori e cappellani universitari, perfino alcuni magistrati, prefetti e ministri del Governo, tollerarono – ma spesso anche favorirono – le violenze e i soprusi di sindacati partiti e movimenti extraparlamentari sinistrorsi.
Molti fra i protagonisti del ’68 hanno poi fatto carriera nella società e nelle istituzioni. Basti ricordare politici come Capanna, Boato, Manconi, Menapace, Cacciari, Vattimo, Turco, Treu, Langer; intellettuali o giornalisti come Sofri, Viale, Piperno, Franceschini, Sorbi, Casalini, Negri, Salvati, Tronti, Manghi, Mieli, Rusconi, Lerner, Santoro, Mentana, Ferrara, Sposini, Freccerò, Giusti.
Insomma, i contestatori e sovversivi di ieri sono diventati oggi uomini di governo, esponenti dei “poteri forti”, manipolatori della opinione pubblica. L’eresia e la sovversione di ieri sono diventate l’ortodossia e l’istituzione di oggi; quello che ieri era vietato (divorzio, aborto, droga, omosessualità, guerriglia) oggi viene non solo permesso, ma anche tutelato e perfino promosso dalle autorità e dalle leggi. C’è quindi da temere che la sovversione di oggi possa diventare l’istituzione di domani. Viene quindi smentito un altro luogo comune: non è affatto vero che in Italia “tutto finge di cambiare per restare lo stesso”; anzi, qui “tutto finge di restare lo stesso per cambiare”, e in profondità!
Una diagnosi della malattia
Il ’68 ebbe successo non tanto nel campo politico quanto in quello “culturale” e sociale. La rivoluzione nei costumi, negli ambienti, nella mentalità, nella vita quotidiana, ha diffuso nelle masse il relativismo e la rivoluzione sessuale, rendendo impossibile la contemplazione sociale della verità e la pratica sociale delle virtù (specie della temperanza). La sovversione morale ha generato una “questione antropologica” che mette in forse la sopravvivenza dell’uomo come creatura, ossia come immagine di Dio Creatore, e ancor più come cristiano, ossia come somiglianza di Dio Redentore.
Si vuole insomma imporre un modello di vita tribale, reso possibile da un supporto tecnologico che dispenserà l’uomo dallo studiare, lavorare e procreare per abbandonarsi al gioco, alla violenza e alla perversione. In un suo romanzo intitolato L’isola, Aldous Huxley raffigurò nel 1962 questa “utopia positiva”, che egli propose come sola alternativa possibile all’ “utopia negativa” prima denunciata nel suo celebre II mondo nuovo.
A quanto pare, la Rivoluzione pretende di porre l’Occidente davanti a un bivio: o rassegnarsi al nuovo totalitarismo, oppure distruggerlo scatenando l’anarchia. Questa falsa alternativa esclude irrazionalmente l’unica vera soluzione possibile: la restaurazione della società cristiana nelle sue basi culturali, etiche e religiose. Se i propagandisti no global vanno urlando che “un altro mondo è possibile”, noi rispondiamo che certamente lo è, ma non sarà l’utopia anarchica e tribale, bensì la realistica civiltà cristiana fondata sulla ragione e sulla natura elevate dalla fede e dalla grazia.
Fra coloro che diagnosticarono e combatterono il sessantottismo alla luce della retta teologia della storia, segnaliamo due lungimiranti intellettuali cattolici che ho avuto l’onore di conoscere: l’italiano Augusto Del Noce e il brasiliano Plinio Correa de Oliveira.
Il prof. Del Noce ammonì che il ’68 mirava a distruggere le ultime istituzioni rimaste (famiglia, scuola, milizia e Chiesa) capaci di educare, istruire e santificare le generazioni future. A tal scopo, il sessantottismo preparava l’avvento di una nuova forma di totalitarismo, quello del desiderio e dell’arbitrio, e una nuova forma di persecuzione religiosa, quella che costringe il popolo a “liberarsi” dalle tradizioni cristiane. Difatti, oggi Università Tribunali e Parlamenti cercano d’imporre una rivoluzione familiare e sessuale vietando ogni “discriminazione” e promuovendo la licenza sessuale e i “diritti umani riproduttivi”. A tutto ciò bisogna opporre il ricupero delle verità e dei valori cristiani fondamentali, specialmente la virtù della temperanza sociale.
Il prof. Correa De Oliveira denunciò il ’68 come l’estremo tentativo di realizzare l’anarchia mediante una nuova fase rivoluzionaria che mira a distruggere l’uomo nelle sue radici (sociali, psicologiche e perfino biologiche) per renderlo schiavo di sé e ribelle a Dio. L’anima umana viene sottomessa alle pretese di una sensibilità perversa, ribelle e anarchica, estinguendo la luce della verità, la voce della coscienza e il richiamo della fede. Manipolando tendenze, abitudini e pratiche di massa, l’uomo d’oggi viene immerso fin da ragazzo in ambienti rivoluzionari (come la discoteca) che lo corrompono fin da fanciullo. Questo degrado può essere vinto solo restaurando le tendenze sane mediante istituzioni e ambienti formativi, sia privati che pubblici.